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Cinema

Agostino Ferrente

L’orchestra di piazza Vittorio

Un racconto umano

Jimmy Milanese (JM): Siamo con Agostino Ferrente, presente a Maremetraggio con il film L’orchestra di piazza Vittorio. Facendo un po’ diricerche su internet, sono venuto a conoscenza della bellissima storia di quest’orchestra composta da immigrati provenienti da varie nazioni che si associano, ognuno portando con sé i propri strumenti. Com’è nata l’idea per questa esperienza, che tu stesso hai vissuto nella realtà?

Agostino Ferrente

Agostino Ferrente (AF): Il tutto nasce dopo l’11 settembre 2001 nell’Esquilino, speciale quartiere di Roma meglio conosciuto come piazza Vittorio, antistante alla stazione Termini. Proprio questa particolare posizione lo rende una sorta di “terra di nessuno”, luogo d’incontro tra immigrati e borderline. In questo quartiere, insomma,gli italiani sono minoranza etnica.
Nel rione c’era un cinema, di nome Apollo, che stava per diventare una sala bingo. Venuto a saperlo, mi sono attivato coinvolgendo diversi amici, residenti in zona o semplicemente sensibili al problema, per formare un comitato allo scopo di salvare questo bellissimo edificio storico, risalente al 1917. Il sogno era trasformarlo in un cinema cosmopolita, che proiettasse film provenienti da tutto il mondo, prendendo spunto dalla presenza degli stranieri del quartiere.

In quel periodo avevo anche parlato con Mario Tronco, all’epoca pianista degli Avion Travel, che aveva già musicato alcuni miei documentari. Gli proposi l’idea di creare un gruppo artistico che potesse sensibilizzare e mobilitare l’opinione pubblica contro lo sfregio che si stava compiendo a questo monumento storico e gli rivelai le mie intenzioni su come valorizzarlo. Mi rispose di aver avuto un’idea simile per la musica: creare un’orchestra che potesse rappresentare i suoni di questo quartiere. Si decise quindi di dare all’orchestra il nome della piazza che avrebbe dovuto rappresentare.

Naturalmente non avevamo né soldi, né finanziamenti, né appoggi, ma solo un po’ di ostinazione ed incoscienza. L’unica condizione che posi fu quella di seguire tutta la vicenda passo dopo passo con una telecamera. Il risultato che ne è conseguito è stata la ripresa in diretta dell’idea. Paradossalmente, a differenza di un normale documentario che riporta ciò che già esiste, abbiamo raccontato qualcosa che ancora non esisteva e che, anzi, in qualche modo è stato propiziato dalla presenza della telecamera.

In alcuni casi, invece, le riprese hanno rappresentato un ostacolo, specialmente quando ci prendevano per poliziotti in cerca di clandestini… era da poco passato l’11 settembre e ovviamente due persone con una telecamera che chiedevano se si era in possesso del permesso di soggiorno spaventavano. Altre volte ancora, la telecamera è stata una sorta di terza complice, soprattutto quando, nei momenti di sconforto, ci ricordava un potenziale pubblico al quale era giusto dare un lieto fine. Ed è grazie a tutto ciò che di fatto sono nati l’orchestra e il film che la racconta.

Agostino Ferrente intervistato da Jimmy MilaneseCi tengo anche a sottolineare che, al di là dell’evidente voglia di parlare di ciò che il documentario racconta, chi lo crea deve avere la pretesa di chiedersi se la realtà che espone non sia già autoreferenziale, dal punto di vista narrativo. Bisogna chiedersi insomma se riportandola come tale, la storia ha sia un valore intrinseco che cinematografico. Altrimenti basterebbe un articolo di giornale a raccontare quella determinata storia.

JM: Nel film sono presenti trenta musicisti e quindici nazionalità: come sei riuscito a conciliare, ad esempio, il punto di vista linguistico? Come hai comunicato con gli attori? Sono stati loro a scegliere te, magari presentandosi volontariamente?

AF: Nell’arco dei cinque anni di vita dell’orchestra si sono alternati una trentina di musicisti. Alcuni li abbiamo “persi”, anche per motivi legali poiché la legge sull’immigrazione è molto restrittiva, soprattutto la componente indiana, nonostante la sua importanza.
Il “miracolo” l’ha compiuto il direttore artistico, Mario Tronco, in parallelo alla particolarità che, all’interno dell’associazione Apollo 11, salvatrice del cinema e sostenitrice dell’orchestra, siamo quasi tutti immigrati: pugliesi, casertani e calabresi oggi tutti residenti Roma. Quindi, in qualche modo, è come se avessimo già provato sulle nostre stesse spalle cosa vuol dire stare in un paese straniero e cercare in qualche modo la solidarietà degli altri.

La natura artistica del progetto, al contrario di quella sociopolitica, per la quale si è selezionati unicamente perché manca quella nazionalità all’interno del gruppo, ci ha permesso, assieme ad una buona dose di fortuna, di trovare dei musicisti eccellenti. Se si segue un metodo “politicamente corretto”, infatti, il risultato sarà solo fine a se stesso. È come se, ad esempio, organizzassi una mostra di dipinti realizzati da detenuti (qui il valore sociale c’è) senza dar peso al valore artistico (magari i quadri fanno schifo).

Come direttore artistico, Mario ha avuto l’impopolare compito, facendo dei provini, di scartare i musicisti che non andavano bene, nonostante qualcuno di questi vivesse in una situazione di vero bisogno. Questa sorta di selezione qualitativa è stata subito percepita positivamente dai membri del gruppo, soprattutto se in passato, per esperienze simili, erano stati scelti per rappresentare una quota piuttosto che il proprio talento, che hanno vinto la naturale diffidenza iniziale e si sono sentiti coinvolti davvero nel progetto. Hanno capito che Mario — artisticamente un genio — oltre ad essere un eccellente compositore, è anche un ottimo ascoltatore: molto curioso, sa imparare, sa apprendere, sa stimolare. Il suo ruolo è stato quello di un direttore artistico, di un talent scout.
Tutti questi fattori, sommati, hanno creato tra i componenti dell’orchestra complicità e una sorta di tifo collettivo verso un’impresa della quale si sono sentiti parte.

Nel mio caso, essendo un film autobiografico, i musicisti hanno subito capito che non ero solo il regista ma colui che stava contribuendo a creare quest’orchestra. Ho cercato di evitare di raccontare i componenti dell’orchestra seguendo i classici cliché buonisti del riscatto, dell’aspetto terzomondista: il povero immigrato che viene in Italia a cercar fortuna e noi dobbiamo essere tolleranti, ecc… Queste cazzate non mi sfioravano minimamente.
Li ho raccontati per quello che sono, spesso provocandone i lati più “spigolosi”. Mi piaceva raccontarli come esseri umani. Molti di loro hanno anche dormito a casa mia, permettendo così di coltivare una confidenza tale da farmi aprire le porte di casa loro, ho avuto la possibilità di raccontarli secondo aspetti meno superficiali.

Nonostante adori la musica, oltre ad essere stonato come una campana, non ne capisco nulla. Questo mio limite mi però ha permesso di evidenziare gli orchestranti più come persone che come musicisti. All’inizio mi sembrava un ostacolo: pensavo che un regista che non ne capisce di musica non potesse fare un film sulla musica. Invece, questa mia “ignoranza” si è rivelata una grande arma. A differenza di alcuni illustri colleghi, magari grandi maestri del cinema, che si sono limitati a riprendere il musicista che suona, interpretando in questa maniera il film, io mi sono soffermato su tutti gli aspetti: dalla vicenda umana innanzitutto (la creazione dell’orchestra, ecc…) fino a loro stessi nella propria intimità. Non a caso, la ripresa dell’orchestra che suona è solamente il finale del film. Non sapevo se i musicisti lo avrebbero capito e temevo che il risultato finale potesse non piacergli, ma, di fatto, anche loro hanno apprezzato molto.

Una scena del film L'orchestra di piazza Vittorio di Agostino Ferrente

JM: Qual è la distanza tra il tuo film e la famosa pellicola di Wenders Buena Vista Social Club? In quest’ultimo c’è la riscoperta di un contesto culturale, nel tuo caso, invece, c’è un “mettere assieme” una produzione culturale che viene dall’esterno e si deve rimodellare sulla base del contesto sociale (quello romano) di riferimento. Ci sono analogie tra i due film o si possono considerare diametralmente opposti?

AF: C’è una analogia fondamentale: la propiziazione e stimolazione della realtà che il film racconta. Se non era per il film, il Buena Vista Social Club non esisteva.
Un’altra analogia è la partecipazione diretta del regista: nel suo grande film Wenders, accompagnato da Ry Cooder, recuperava i musicisti e un repertorio che era stato sepolto in un contesto storico particolare come quello dell’embargo di Cuba, quindi con una grossa motivazione politica di fondo. Però le analogie finiscono qui, tenendo anche la debita distanza dal grande Wenders per il cinema e da Cooder per la musica.

Come tu stesso hai detto, nel nostro caso non c’è stata una riscoperta bensì quasi una creazione: il repertorio l’abbiamo creato noi, l’abbiamo stimolato. Ad esempio, i brani tradizionali che abbiamo recuperato e che sono stati utilizzati per il repertorio del primo concerto, li abbiamo stravolti e arrangiati in maniera “politicamente scorretta”, come nel caso di un pezzo indiano, arrangiato da un cubano e con archi classici. Il nostro era un lavoro che andava in direzione opposta alla ricerca etnomusicologica. Normalmente gli studiosi definiscono rigidamente le musiche: andina, balcanica, che arriva in realtà dal percorso tra l’India e i Balcani, ecc… Noi invece andavamo tutti insieme verso una nuova musica: bastarda, meticcia, inedita. Dal punto di vista musicale, insomma, c’è questa differenza.

Dal punto di vista registico, Wenders è concentrato su musicisti che raccontano se stessi parlando alla telecamera e sulla ripresa diretta delle canzoni eseguite e registrate. Nel mio caso invece, sentendomi, come dicevo prima, un po’ analfabeta dal punto di vista musicale, li ho raccontati dal punto di vista umano: nelle loro relazioni sociali, sentimentali, lavorative senza mai farli parlare alla telecamera. Non ci sono interviste. Si potrebbe addirittura pensare che io abbia barato: se non fosse che si tratta di una storia vera e non di attori ma di persone che veramente hanno vissuto la vicenda, potrebbe essere solamente un film. Paradossalmente, come struttura, mi sembra più un film di finzione invece che un documentario, come in The Commitments o addirittura nel mitico Blues Brothers, dove c’è la volontà di unire i musicisti quasi sulla base dell’idea di compiere una missione.

JM: Ultima domanda: tu collabori con persone importanti come Agosti e De Seta. Ne puoi parlare un po’?

AF: Silvano Agosti lo reputo il mio maestro. Ho avuto sempre ammirazione per l’arte che lo caratterizza e della sua idea di cinema intesa come espressione di se stessi. Non dico contro il mercato, che può sembrare una visione troppo ideologica, ma piuttosto a prescindere dalla presenza di mercato.
Lui ha un controllo totale dell’opera: deve poter decidere quando il film è finito, in base alle proprie esigenze e sensibilità e non a quelle del committente. Ha un approccio quasi artigianale, io amo dire amatoriale, dilettantesco, nelle accezioni più “nobili” dei termini: amatoriale per amore, dilettantesco per diletto cioè per passione .

Proprio quest’ultima sta alla base del mio film poiché, se avessi dovuto rispettare dei parametri commerciali, non avrei potuto tradurlo in realtà. Dovete considerare che la storia si svolge nell’arco di cinque anni e che la pellicola è stata realizzata senza finanziamenti, avvalendosi del solo lavoro volontaristico. Da questo punto di vista, quindi, Silvano risulta essere per me un vero e proprio modello, sia umanamente che artisticamente.

De Seta dal punto di vista artistico, non da quello umano perché ha una storia completamente diversa dalla mia, è un maestro. Credo sia il documentarista italiano che può, a ragione, vantare un sorta di primato per i suoi cortometraggi — bellissimi (quelli cari a De Martino) — che raccontano un’Italia che non c’è più. “Pasolinicamente” parlando, rappresentano degli specchi della consapevolezza che sviluppo non è sinonimo di progresso, quindi di grande valore antropologico e poetico. Una delle caratteristiche importanti di De Seta, infatti, è il voler far parlare la realtà, senza bisogno del commento, piuttosto che avere una visione ideologica di fondo. Lui stesso raccontava che spesso ai suoi cortometraggi non fu assegnato il premio di qualità perché le giurie sostennero risparmiasse sullo speaker! Più semplicemente, aveva capito che non c’era bisogno di una persona che didascalicamente li raccontasse.

Infine, mi sono ispirato al suo capolavoro Diario di un maestro, che vede l’attore — morto tra l’altro poco tempo dopo — organizzare una classe di studenti recitando il ruolo di Cirino, maestro che si propone di raccogliere tutti quei ragazzi che erano stati esclusi dalle scuole perché abbandonati da genitori senza la cultura dell’istruzione e della frequentazione obbligatoria.
Nel film c’è un confine tra fiction e documentario al servizio dell’opera poiché la messa in scena è diventata realtà: i ragazzi diventano concretamente studenti e lo stesso dicasi per l’attore, che diventa maestro. Questa trasformazione della finzione in ciò che è vero, il fatto che una messa in scena possa ricreare la realtà non limitandosi a raccontarla e basta, mi piace pensare possa considerarsi ripresa anche nel mio film, nel quale una sorta di trama da seguire ha di fatto condizionato la realtà.

Agostino Ferrente

In questo senso, un altro esempio bellissimo a cui mi ispiro e che mi mette letteralmente i brividi, è un documentario di Henri Storck, Misere au Borinage, che racconta le condizioni dei minatori del Belgio. Più precisamente, nel cortometraggio il regista chiede a quattro minatori di prendere il manifesto di Marx e di fingere uno sciopero (all’epoca non c’erano i mezzi portatili di adesso e le situazioni andavano propriamente messe in scena sul posto e al momento). Le persone circostanti, inconsapevoli della realistica ricostruzione, pensarono fosse in atto un vero sciopero e si unirono ai quattro dando incredibilmente vita ad uno dei più grandi scioperi che la storia ricordi! È incredibile anche in questo caso lo sconfinamento della realtà nella finzione e viceversa. Ed è proprio da questo punto di vista che De Seta mi piace tantissimo.

Se abbiamo riscoperto l’Apollo, riproponendo le sue opere che erano un po’ cadute nel dimenticatoio, è anche grazie a lui. Mi sono, inoltre, sentito onorato nel vedere a New York una rassegna integrale dedicatagli da Martin Scorsese: ha avuto il merito di restituirgli quella dignità che gli era stata un po’ negata dalla storia del cinema.
Ultimamente gli ho dato una mano perché il suo film Lettere dal Sahara si era “incagliato” in una disputa tra la produzione e lo stesso regista. Il rischio era di non far procedere la pellicola: si era arrivati ad un vero e proprio delirio, con odi incrociati ecc… Insieme ad altri colleghi, abbiamo quindi formato una sorta di comitato di mediazione atto a siglare un “patteggiamento” tra le due parti, con il merito di portare alla completa realizzazione del film.

L’orchesta di piazza Vittorio


Regia/Director Agostino Ferrente
Soggetto/Subject Agostino Ferrente
Sceneggiatura /Screenplay Agostino Ferrente
Fotografia/Cinematographer Greta De Lazzaris, Alberto Fasulo, Simone Pierini, Giovanni Piperno, Sabrina Varani
Montaggio/Editing Desideria Rayner
Musica / Music L’orchestra Di Piazza Vittorio diretta da Mario Tronco
Suono / Sound Documusical
Cast/Cast Mario Tronco, Agostino Ferrente, Dina Capozio, Mohammed Bilal, Houcine Ataa, Rahis Bharti, Carlos Paz, Ziad Trabelsi, Omar Lopez Valle, Pap Yeri Samb, Raul Schebba, John Maida, Pino Pecorelli, Pepe D’argenzio, Marian Serban, Abdel Majid Karam, Amrit Hussain, Pino Marino, Piccola Orcherstra Avion Travel, Javier Girotto, Monique Veaute, Apollo 11
Genere / Genre Documusical
Formato Originale/Original Format Beta Digital Pal
Durata/Running Time 93’
Paese Di Produzione/Country Of Production Italia / Italy
Produzione/Production Lucky Red, Pirata M.C , Bianca Film
Distribuzione/Distribution Lucky Red

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