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Scrittura

Giancarlo Alfano

Costituire una tradizione plurale

Rinunciando alla posizione di rifugio che lo specialismo finge di assicurare

Luigi Nacci (LN): Giancarlo Alfano, classe 1968, insegna letteratura italiana alla Seconda Università di Napoli. Una domanda a bruciapelo: quanto e quale spazio viene riservato alla poesia in ambito accademico, in Italia?

Giancarlo Alfano

Giancarlo Alfano (GA): Sono un osservatore non particolarmente qualificato per parlare della situazione universitaria in generale. Direi, però, che mi pare estremamente difforme nelle singole realtà italiane. Da studente, anni e anni fa, con degli amici invocammo un seminario sulla poesia contemporanea, cioè la poesia del Novecento tutta, perché mancavano corsi dedicati. Il Direttore del Dipartimento di quell’epoca ci concesse un’aula e alcuni professori e dottorandi collaborarono con noi, lavorando senza alcuna gerarchia. Fu un’esperienza magnifica, ne sono nate delle fortissime amicizie, ancor oggi più che salde. C’è però da dire che numerosi critici (e anche qualche poeta) lavorano all’Università, sicché le occasioni spesso non mancano.

Tuttavia, un punto per me importante che riguarda l’insegnamento, il buon senso dei pedagoghi dice: si passi dal noto all’ignoto! E così per lo più si fa, infatti. Ma nel campo dell’esperienza estetica non mi pare si possa procedere allo stesso modo: non è che “fai” Petrarca prima per poter leggere Ungaretti o Zanzotto; è chiaro che li capisci anche meglio, per certi versi, se hai già letto Petrarca; ma poi per capire Petrarca dovresti aver letto Ovidio un po’ bene, e soprattutto i Provenzali e la Poesia del Duecento… Voglio spiegarmi meglio: la prospettiva storica va bene, ma il fatto estetico è anche in parte altra cosa da quella prospettiva. E allora si tratta di trasmettere un’arte, l’arte della lettura, o se vuoi dell’ascolto, che vuol dire l’arte della percezione del fatto estetico, la disponibilità organizzata a percepire e poi a fare esperienza di un evento estetico.

Copertina del testo di ColangeloUn tempo credo si dicesse “affinamento del gusto”. Non è vero che non si possa farlo anche all’Università. Tra i vari manuali di metrica disponibili, per esempio, mi pare che Come si legge una poesia di Stefano Colangelo vada proprio in questa direzione, spiegando innanzitutto che cosa fa il metro, dunque che cos’è il ritmo. Un’altra cosa importante, infine, una cosa che peraltro funziona sempre, è l’incontro con gli autori: aumentare le letture di poesia, e di poesia contemporanea, da parte degli autori aiuta senza dubbio a sviluppare attenzione e interesse nei confronti del linguaggio poetico.

LN: Ti sei occupato di autori quanto mai complessi, come Stefano D’Arrigo (cfr.: Horcynus Orca) o Thomas Pynchon, per non parlare dei tuoi saggi su poeti contemporanei come Michele Sovente, Paolo Prestigiacomo, o Gabriele Frasca (tra l’altro anche lui lettore attento di Pynchon, e leader del gruppo ResiDante, il cui nome rimanda ai misteriosi Residents con i quali forse Pynchon ha collaborato…).

Tutti i citati mi sembrano accomunati, oltre che dalla propensione a costruire opere “reticolari” e figurae “paradossali”, da una forte sperimentazione linguistica. Allo stesso tempo hai studiato poeti molto distanti dai precedenti, ad esempio Francesco Scarabicchi o Eugenio De Signoribus. In base a quali criteri scegli di dedicarti ad un autore piuttosto che a un altro?

GA: Gli autori che allinei non sono equipollenti, né in assoluto, né per me, cioè nella mia esperienza di lettore. Di alcuni autori mi sono occupato in opere collettive, dove dunque la responsabilità del lavoro, pur restando strettamente personale, rientrava in una partecipazione diffusa. Aggiungerei però che mi sono occupato anche di Giovanni Pontano, di Vittorio Alfiieri, di Boccaccio, per limitarmi ad alcuni secoli, e non certo per “dovere accademico”. Intendo dire che nel mio caso (ampiamente diffuso, peraltro) la spinta a occuparsi di un testo o di un autore è generata da curiosità di tipo assai diversificato, al di fuori di una linea preconcetta. Insomma, ho lavorato sulla prosa di Sanguineti, ma adesso trovo di grande interesse Bassani. E non vedo l’ora di dedicarmi a Svevo.

Ma due parole le aggiungerei sulla categoria che utilizzi, e sul suo implicito, sul suo non-detto. Intanto la mia impressione è che De Signoribus non sia poi così distante da Sovente, per dirne una; e poi non credo che si possa tracciare una linea comune tra D’Arrigo e Frasca; mentre invece mi pare che quest’ultimo risalga per i rami indietro al progenitore di Thomas Pynchon, cioè a Laurence Sterne, ma semmai per ragioni tutte diverse da Pynchon.

Insomma, non tutti gli sperimentalismi sono identici, né tutti sono caratterizzati dalla ricerca di espressività linguistica (non dico espressionismo perché di questa categoria si è troppo abusato: e lo confessò per primo nel 1977 Gianfranco Contini). Se concepiamo il gradiente lessicale come misura della “quantità” della ricerca letteraria rischiamo — questo è il mio parere — di perderci il portato singolare delle opere.

LN: Hai curato, insieme ad altri sette critici, Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani tra i due secoli, un volume dalla mole imponente, costato, come scrive Andrea Cortellessa nella prefazione, 5 anni di lavoro (è stato pubblicato nel 2005). A distanza di tempo, come giudichi quell’operazione? Se dovessi curare una seconda edizione, modificheresti, aggiungeresti, toglieresti qualcosa (o qualcuno)?

GA: Innanzitutto è stata un’esperienza che raccomando a tutti. Ho realizzato parecchi libri in compagnia di altri autori, in forme e modi assai diversificati. Ma devo dire che il confronto prolungato sul territorio più accidentato che si possa immaginare, il proprio contemporaneo, ha avuto un effetto davvero esilarante, nel senso che dice Lorenzo Valla nel De hilaritate: aumento della voluptas, piacere a go-go, dunque crescita. Mi pare che tutti noi conserviamo ancora lo scambio di mail: centinaia di lettere, con allegate le risposte degli altri corrispondenti. Nell’introduzione parliamo di “officina”, di “laboratorio”: nei termini di un’università che purtroppo non c’è più, io direi che ci siamo impegnati in un seminario che è durato più o meno cinque anni, e che si è concluso con la pubblicazione dei lavori. Quanto era previsto all’inizio non si è realizzato se non con spostamenti, variazioni, revisioni. Oggi, quel lavoro di messa a punto, o se vuoi di verifica costante, non potrebbe che ripetersi, ma sempre nella fattispecie “plurale”, dunque nella forma della responsabilità collettiva (poi, va da sé, ognuno firma la sua voce perché ognuno è responsabile di ciò che dice).

Quel che mi interesserebbe invece, adesso, sarebbe un lavoro diverso, ma non alternativo. Mi piacerebbe cioè ragionare sulla poesia italiana dal 1946 in poi indipendentemente dall’anno di nascita dell’autore. Intendo dire che è giunta forse l’ora per una ricostruzione che provi a incrociare le generazioni, considerando (contro Harold Bloom) non solo i prestiti dai più anziani ai più giovani, ma semmai anche la serie inversa: Frasca e Valduga hanno spinto Raboni a meditare nuovamente sulla forma chiusa; chissà che Sereni non abbia ripensato a certe cose dopo aver letto Porta, per dire, o che lo stesso Montale non abbia pensato a una svolta espressiva radicale alla fine degli anni Sessanta anche perché c’era uno come Pasolini… Insomma, non c’è solo l’ansia dell’influenza; c’è anche il “campo letterario”, lo scambio d’influenze. Sarebbe un lavoro interessante anche perché, a mio parere, bisogna davvero pensare in termini di “tradizione del Novecento”.

Copertina del libro di AlfanoLN: Nel 2006 è uscito un tuo saggio intitolato Nelle maglie della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile. A proposito di voce e oralità, ho l’impressione che negli ultimi anni se ne faccia un gran parlare, e scrivere. Penso al libro di Frasca La lettera che muore. La «letteratura» nel reticolo mediale, alle edizioni con CD audio di Luca Sassella o de “Le Lettere” (collana “Fuori Formato”), ai convegni (qualche mese fa se ne è celebrato uno importante promosso dal Centro Studi Fabrizio De Andrè dell’Università di Siena: “Poesia e canzone d’autore in Italia. Evoluzioni contemporanee e fantasie di avvicinamento ”), ai laboratori e ai festival (Absolute Poetry Festival di Monfalcone in primis) in cui si celebra, o perlomeno si vorrebbe celebrare, il rito della performance poetica.. Zumthor diceva, nel 1983, nella sua celebre Introduzione alla poesia orale, che non esiste una “scienza della voce”. Secondo te è ancora valida la sua riflessione, oggi?

GA: La storia comincia, forse, giusto venti anni prima di Zumthor, colla Introduction to Plato di Havelock, con Understanding Media di McLuhan, con gli studi di Mayr e di Levi-Strauss, tutti datati intorno al 1963. A quell’epoca si aprì un’importante interrogazione rispetto al rapporto tra oralità e scrittura per il fatto che il mondo contemporaneo aveva ampiamente dimostrato l’importante presenza della voce e dell’audio-visivo. Pensa che Karl Kraus, nel Giorno del Giudizio, rappresentò la Prima Guerra Mondiale a teatro facendo continuamente entrare in scena uno strillone che vende giornali (parola scritta). Ebbene, nonostante la straordinaria ossessione (direi di carattere proprio privato-autobiografico) di Giorgio Caproni per i fogli di giornale al vento che annunciano la dichiarazione di guerra, non credo che di solito ci si immagini lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale senza la voce di Mussolini e Hitler e senza le immagini del cinegiornale.

Copertina del libro di ZumthorD’altra parte, siamo irrevocabilmente distanti dal mondo dell’oralità primaria: è questa la prima ragione per cui non è possibile una scienza della voce.
La questione è molto delicata, e un libro assai ambiguo come Flatus vocis di Corrado Bologna lo dimostrò per tempo, proprio perché ambiguo (la voce è “presenza” anche quando è voce riportata — “Parola del Signore”? Io non credo). D’altra parte, mi pare evidente che la poesia contemporanea ha recuperato a sé l’importante spazio della vocalità e della ritmicità performativa. Ma va detto che l’ha fatto al seguito di altre espressioni artistiche, non come avanguardia, non come annuncio di possibilità ulteriori. Per studiare queste cose ci vorrebbe comunque un team di metricologi e di musicologi: da soli né gli uni, né gli altri andranno molto lontani. E semmai bisognerebbe aggregarvi anche qualche designer di videogiochi. Chi studia la metrica non può più dissociarsi da chi studia la musica: poche settimane fa, in un seminario sulla cultura del classicismo, ho scoperto che nel s. XVI si facevano dei motivetti su odi di Orazio per insegnare ai ragazzini la scansione metrica (scolastica) latina: mi pare un caso folgorante. E oggi solo chi ha studiato l’improvvisazione jazz, o semmai un po’ di musica colta contemporanea (e purtroppo non è il mio caso), può comprendere appieno il lavoro di Giuliano Mesa.

Devo però aggiungere che nel mio libro non mi occupo di poesia, ma di prosa, e anzi di prosa narrativa, come del resto Frasca nel suo. Voglio dire che la variante diamesica, per parlare come i linguisti, ha un valore fondamentale nella storia occidentale del romanzo. Personalmente ho provato a dimostrare quanto importante sia stata l’esperienza italiana e specialmente cinquecentesca (è un mio pallino: mostrare che il Grand siècle e il Siglo de oro sono in gran parte uno sviluppo di quanto s’è fatto nel s. XVI in Italia), quando si mise in mostra un dispositivo di conversione dall’oralità alla scrittura che avrebbe avuto lunga storia, pur tra mille varianti.
Direi, infine, che la dimensione ritmica della parola in tanta esperienza poetica di oggi è dovuta proprio a questa necessità narrativa: penso al rap, e alle sue applicazioni italiane anche sofisticate (è il caso di Lello Voce).

LN: Restiamo al legame tra poesia e oralità. Quali poeti italiani e/o stranieri, secondo te, sviscerano con maggior consapevolezza e felicità di esiti tale rapporto?

GA: Ecco, appunto: c’è Lello Voce, c’è Frasca, c’è Ottonieri, e Valduga, e ancora Lo Russo: è emersa Giovanna Marmo, non l’ho mai sentita, ma ne dicono tutti un gran bene, Ventroni, non so se Fusco continui. Ma la questione, se mi permetti, è un’altra. So bene che gli slam poetry vanno bene, che ci si diverte, eccetera, ma il perno su cui riflettere — e per chi è poeta, poi, fare — è il rapporto con la testualità.

Patrizia Valduga

La poesia è stata “solo-scritta” pochissime volte, e più che altro per giochetti iconici; essa ha sempre lavorato sul versante ritmo-motorio: basta leggere le considerazioni di Leopardi, oppure prendere Hopkins, per limitarci al secolo più “scritto-scritto” che ci sia, il XIX. Oppure prendiamo Annibal Caro, che per vantarsi che una sua canzone ha avuto un gran successo dice che l’hanno messa in musica. La questione è dunque, ripeto, la testualità: un’oralità esclusiva comporta trasformazioni nella dimensione testuale? Non dico le varianti che ogni esecuzione comporta, questo va da sé; dico proprio la subordinazione della “grammatica testuale” alle ragioni foniche o performative. Direi che la forma-litania, vicinissima al rap, sia uno dei pochi casi in cui ciò è accaduto. Ma mi piacerebbe sentire i poeti su questo. In ogni caso, credo sia bene meditare sul rischio di una sopravvalutazione dell’oralità.

LN: Si moltiplicano i libri che prendono in esame la figura — in via di estinzione — del critico militante: Dizionario della critica militante. Letteratura e mondo contemporaneo di La Porta e Leonelli, La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo di Onori, Apologia del critico militante di Manacorda, solo per citare dei titoli che hanno seguito la pubblicazione di Eutanasia della critica, pamphlet in cui Mario Lavagetto intona il “de profundis” alla critica italiana. Insomma, siamo messi così male?

GA: La tua domanda mi sembra duplice. Da una parte c’è la funzione della critica (ciò di cui parla Lavagetto), dall’altra c’è il ruolo della critica militante. Fermiamoci alla seconda: per che cosa militano i poeti militanti? La militia cui si allude con quell’espressione implica il fatto di aderire a un gruppo e il fatto di voler intervenire sulla contemporaneità. La seconda vocazione è di tanti: fare in modo che si legga, che si ascolti, che si studi al di fuori dei percorsi istituzionali consacrati, attingendo direttamente alle risorse dell’oggidì, perché questo è l’unico modo per rinnovare quei percorsi (i quali, riconosciamolo, sono sempre fondamentali): chi fa così non si comporta in modo molto differente da quanto accadeva nel Cinque o nel Seicento in tutta Europa: si rivendica la propria modernità, consapevoli che tale rivendicazione è destituita di senso se non si staglia su un orizzonte condiviso.

In questo senso, la critica militante dovrebbe allora militare soltanto per “realizzare la tradizione”, utilizzandola quale mezzo di contrasto per illuminare quanto avviene oggi. Dico la tradizione, ma non ho nessun problema a dire che questa può anche essere plurale o diffratta (nel senso stabilito per l’ecdotica: quando una lectio difficilior produce tutta una serie di lezioni alternative, tutte diverse tra di loro). Per quanto riguarda invece chi aderisce alla prima istanza, cioè difende un gruppo di cui fa o vuole far parte, be’, in questo caso direi che siamo dentro una logica propriamente territoriale (intendo il termine secondo l’accezione di Deleuze che è oggi divenuta abituale), cui si attaglia bene il senso più riduttivo di “avanguardia”.

Ma come si costituisce una tradizione (plurale)? Se non si è artisti ma critici, evidentemente l’unica possibilità è offerta dal dedicarsi a una delle tre attività che Freud diceva impossibili, cioè, educare. Per farlo, occorre che l’attività della critica letteraria recuperi il prestigio che pure ha avuto decenni addietro, e si liberi progressivamente dalla sudditanza nei confronti delle altre discipline. Guarda come sono distribuiti oggi gli spazi delle librerie: pareti intere alla Storia e alla Filosofia, mentre ai libri sulla Letteratura tocca appena qualche metro di scaffale, spesso invaso dalle circumvicine Linguistica, Didattica della lingua e, ancora (c’è da pensare), Filosofia. I miei migliori amici sono per lo più filosofi, sicché non posso non osservare quanto essi debbano alla Letteratura e alle Arti in generale, e quanto spesso restino delusi dai libri di critica, o di analisi letteraria nei quali si imbattono.

Copertina del libro di LavagettoLN: Lavagetto, proprio in quell’operetta (Eutanasia della critica, ndr), parla dell’imprescindibile ossessione del critico, del «suo tornare e ritornare caparbiamente sugli stessi punti, ponendosi le stesse domande e cercando di aggredirle da posizioni diverse», un caparbio accanirsi intorno ai punti d’ingorgo, come «lance piantate nella carne». Quali sono i nuclei tematici, le citazioni, le domande alla base del tuo far critica? Mi piacerebbe che rilasciassi una dichiarazione di poetica…

GA: Be’, come non ripetere le parole di un maestro come Mario Lavagetto? Il lavoro critico è fatto, è fitto di ossessioni. Alcune sono ossessioni-guida, altre sono semplici fissazioni, semmai inconcludenti. Intanto posso dire una cosa un po’ trombonesca, e cioè che è innanzitutto fondamentale “porsi la domanda”. Tutti ricordiamo Starobinski: critica viene da “krinein”, dunque è il setacciare, è il filtro tra passato e presente. Questo è il compito del critico, realizzare il filtro. Va da sé che si filtra anche il proprio presente, cioè si promuove ciò di cui si è persuasi affinché innanzitutto circoli nell’oggi e poi affinché resti nel tempo, passando alle generazioni successive. Soprattutto, si filtra ciò che viene dal passato, e si cerca di “tradurlo” nel presente. Qui si pone la domanda, il fatto di porsi la domanda.

E la prima domanda, per me, è: come funziona? A questa domanda se ne associa una più puntuta, più precisa: come fu realizzato ciò che funziona? Per questa seconda domanda occorre attrezzarsi anche di strumenti filologici, secondo me necessari al critico, così come sono necessari a ogni studioso dei processi culturali. Ci sono poi delle ossessioni legate a citazioni, o forse meglio a libri, a opere. Per me sono importanti Freud e Benjamin, in particolare. Il loro pensiero, e la formulazione stessa del loro pensiero, è una sollecitazione costante.

Devo aggiungere un altro punto, che mano a mano mi si è chiarito: la necessità di intersecare le altre discipline, di leggere i libri importanti degli altri settori. Storia dell’arte, storia dell’architettura, psicanalisi, ma anche biologia, fisica. Il punto non è quello di essere aggiornati o di diventare Pico della Mirandola, ma di rinunciare alla posizione di rifugio che lo specialismo finge di assicurarci: più ci ibridiamo, più collaboriamo con studiosi di altre discipline, più insomma accettiamo di farci eclettici nel metodo e nei nostri saperi, maggiori sono le possibilità si aderire allo spirito della domanda di cui dicevo.

Copertina del testo di Marshall MC Luhan

Questo è l’atteggiamento con cui mi nuovo nel mio lavoro. Ed è così che mi sono dedicato al Cinquecento italiano, perché mi ponevo e mi pongo il problema della nascita del romanzo in quanto — dice Fielding — «comic epic poem in prose»: partendo, come sempre, dalla Poetica di Aristotele, che però non sarebbe esistita senza il pensiero e la pratica cortigiana e accademica italiana del s. XVI. E ancora Fielding dice di avere scritto il Joseph Andrews «in the manner of Cervantes»: ma Cervantes non fa un discorso sulle «bagattelle» di Ariosto? Da lì sono partito ai tempi in cui preparavo il dottorato, e più o meno lì sono rimasto col mio ultimo libro Nelle maglie della voce.

Se pensi che Celati ci ricorda come Defoe paragonasse il romanzo alle trascrizioni de verbo delle deposizioni che si fanno in tribunale, vedrai ancora una volta quanto stretto sia il rapporto tra simulazione di oralità e scrittura (il manoscritto ritrovato è su questa stessa linea). Per non parlare poi della tradizione umoristica, che proprio utilizzando uno straordinario «arsenal of dashes», arsenale di trattini e segni tipografici, in realtà vuole replicare le movenze dell’umore, del corpo e, dunque, della voce. E qui, devo dire, mi resta attaccato addosso l’insegnamento del mio maestro, un grandissimo studioso padovano trasferito a Napoli sin da giovane, Giancarlo Mazzacurati.

L’altro chiodo fisso è, invece, la guerra. La guerra moderna. La guerra è stata sempre feroce, terribile, orribile: non c’è dubbio. Ma l’esperienza della distruzione di massa al di fuori di ogni pratica rituale (non il passare per le armi uno a uno i sopravvissuti, non lo strappare il cuore pulsante al nemico) è stata una esperienza specificamente novecentesca. La letteratura si è confrontata con questa evidenza, in vario modo. La riflessione di Walter Benjamin (ecco che ritornano le ossessioni) sulla perdita di esperienza nei reduci della prima guerra mondiale è probabilmente inesatta dal punto di vista della evidenza quantitativa (si vada a vedere l’enorme numero di pubblicazioni di reduci della Grande Guerra), ma resta fondamentale quando invece si pensa alla qualità, al fatto che quell’evento segnò un passaggio, anche direi proprio antropologico. A mio avviso, la seconda guerra ha proseguito su questa strada, perfezionando l’orrore con il bombardamento aereo. Di questo, la letteratura ci parla, e quando invece ha taciuto, ciò è avvenuto all’interno di una grande rimozione collettiva. Si pensi allo scritto di Sebald su Luftkrieg und Literatur, tradotto in italiano come Storia naturale della distruzione.

LN: Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Paolo Febbraro, Roberto Galaverni, Marianna Marrucci, Marco Merlin, Daniele Piccini, Fabio Zinelli: sono tutti critici, si occupano tutti di poesia contemporanea, sono tutti tuoi coetanei (o quasi). Mi diresti un pregio e un difetto della scrittura e del metodo di ciascuno di loro?

GA: Non posso giudicare critici così diversi e soprattutto non posso farlo in maniera apodittica. Quel che posso invece dire, riguarda una tendenza molto forte in chi si è formato negli stessi miei anni, com’è il caso della gran parte di coloro che hai citato: si tratta di un rapporto che direi triangolare tra la lettura ravvicinata del testo (in un senso analitico stretto), la ricostruzione filologica (fino al parossismo della critica genetica, che pure a volte ha affascinato più d’uno tra noi) e la riconduzione a panorami storico-culturali più vasti.

Prendiamo coloro che conosco meglio per la semplice ragione che abbiamo condiviso ore di lavoro: ebbene, nella gran differenza di approccio tra Cecilia, Andrea e Fabio, si troverà sempre un attraversamento testuale assai rigoroso, volta per volta declinato (dipende anche dalla personalità dello studioso) in una interpretazione che mira alla ricostruzione interna o alla illustrazione di quanto il panorama storico vi è stato trasfigurato. Chi non si muove rispettando la lettera del testo, temo, è costretto a vagare in uno spazio vuoto; a meno che non voglia sfruttare il testo per altre necessità, ma a quel punto fa dell’altro: filosofia, lessicografia, statistica… Coi conseguenti rischi per la responsabilità della critica, evidenti da quanto abbiamo già detto in precedenza.

LN: Per concludere: attualmente su chi o cosa stai lavorando?

GA: Parallelamente al mio lavoro sul Rinascimento, e adesso tocca a Teofilo Folengo…, da alcuni anni sto portando avanti una ricerca sulla figura del reduce nella letteratura italiana del Novecento — le ossessioni di cui parlavamo poco sopra. E spero di terminare prima o poi un libro che ho in preparazione.

Guernica di Pablo Picasso

Si tratta per me di una questione fondamentale, da due punti di vista: l’identità nazionale italiana nel passaggio dalla Prima guerra mondiale al Fascismo e al suo occultamento nel secondo dopoguerra; il ruolo della letteratura in quanto arte capace di restituire la natura del trauma. Il primo aspetto credo sia chiaro a tutti; il secondo riguarda la discussione, divenuta quasi stucchevole, sulla rappresentazione dell’esperienza, che è quanto dire sul realismo. Una prima, provvisoria e limitata forma di quanto proverò a ricostruire nel libro (se mai vedrà la luce) è Ciò che ritorna. La forma del romanzo alla prova della guerra, un breve saggio apparso nel 2007 in «Intersezioni».

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