// stai leggendo...

Omnia

La casa del sognatore (I)

Se si vuole descrivere un luogo, descriverlo completamente, non come un’apparenza momentanea ma come una porzione di spazio che ha una forma, un senso e un perché, bisogna rappresentarlo attraversato dalla dimensione del tempo, bisogna rappresentare tutto ciò che in questo spazio si muove, d’un moto rapidissimo o con inesorabile lentezza: tutti gli elementi che questo spazio contiene o ha contenuto nelle sue relazioni passate, presenti e future.

Italo Calvino, Savona: Storia e Natura

Immagine tratta da Il cielo sopra Berlino di Wenders

Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspettare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro. […] Durante le attese, egli diventa il proprietario dell’angolo, della strada, del luogo designato all’incontro.

Giorgio Manganelli, Centuria. Cento piccoli romanzi fiume

Che cosa intendiamo quando parliamo di “spazio”?
Nella sua nota dissertazione sui nonluoghi, Marc Augé si è soffermato a lungo sulla nozione di spazio e relativa differenza rispetto al termine “luogo”, rintracciando nei nostri tempi una crescente moda nell’utilizzo del primo termine (più astratto rispetto al secondo, il quale si riferirebbe perlomeno a un avvenimento, una storia, un mito): «applicato a sale per spettacoli o incontri (“Espace Cardin” a Parigi, “Espace Yves Rocher” a La Gacilly), a giardini (“spazi verdi”), a poltrone di aereo “Espace 2000”) o ad automobili (“Espace” della Renault), testimonia al contempo dei temi che ossessionano l’epoca contemporanea (la pubblicità, l’immagine, il tempo libero, la libertà, lo spostamento) e l’astrazione che li corrode e li minaccia, come se i consumatori di spazio contemporaneo fossero in primo luogo invitati ad appagarsi di parole»[1].

In senso filosofico la nozione di spazio ha generato molte controversie nei secoli: Aristotele ha sostenuto la tesi della realtà fisica dello spazio e della sua natura di luogo (posizione di un corpo fra gli altri); Kant ha sostenuto la sua realtà soggettiva, il suo essere, insieme al tempo, intuizione pura, a priori e trascendentale, della sensibilità; Einstein ha definitivamente messo in crisi la concezione tradizionale occidentale, raccomandando di evitare l’espressione vaga di spazio per sostituirla con quella di moto relativo ad un corpo rigido di riferimento.

Allo spazio relativistico dell’Occidente fa eco la lettura relativistica dello spazio indigeno: «Whorf a proposito degli Hopi dice che questi hanno un gran numero di termini specifici per dei dettagli architettonici, ma una totale assenza di parole per indicare uno spazio tridimensionale, quello che noi chiameremmo una stanza, un vano. Hanno molti tipi di stanza e ne distinguono le funzioni, ma questi spazi non vengono nominati, bensì localizzati, ad esempio dalla posizione in essi di certi oggetti. Allo stesso modo non ci sono termini per indicare luoghi in cui struttura fisica e funzione sono fuse, come scuola, tempio, ospedale, ma c’è un termine (ki.hi) per indicare l’occupazione di un luogo. La lingua hopi, al pari di altre lingue uro-atzeche considera i luoghi costruiti come dei concetti relazionali. […] Uno studente hausa può dire ad un suo collega di Università a Londra, parlando in inglese ed indicando il cielo: “La città è piuttosto nuvolosa”. In hausa il termine che indica cielo e città è lo stesso (garii). […] Tra i Tin Dama delle province orientali Sepik di Papua (Nuova Guinea) vige la concezione secondo cui, andando da un villaggio all’altro lo spazio si va rarefacendo fin quando non si arriva ad un “buco” invisibile in cui è possibile perdersi se non si praticano alcuni gesti rituali […] Tra i Nias dell’Indonesia, ad esempio, chi esce di casa per andare a trovare il vicino deve prima passare per il grande sentiero centrale che divide in due il villaggio. Queste direzioni privilegiate, queste soglie, e gli stessi confini di un insediamento costituiscono le notazioni su cui si articola il discorso “parlato” dello spazio. Ci si intende consentendo e ribadendo ambiti, orientamenti, tracce. […] Lo forma dello spazio indigeno è “agìta da chi l’abita»[2].

La definizione di spazio è dibattuta. Ciò che tuttavia ci interessa mettere in evidenza in questa sede è la necessità fisiologica da parte dell’uomo di segnare lo spazio, di frammentarlo attraverso la tracciatura di confini, linee, punti, come se esso fosse troppo simile al Caos primordiale, a quell’infinito che non può essere pensato nella sua completezza pena la follia (agìto sì, vissuto, riempito, ma pensato no).

confini

Per scampare al minaccioso Caos, al non-essere, all’irrealtà in cui si è (s)perduti, bisogna stabilire un centro. Secondo Mircea Eliade (vedi Il mito dell’eterno ritorno) la realtà è conferita dalla partecipazione al simbolismo del centro, per cui tutto è reale in quanto assimilato al centro del mondo, nel quale si trovano la montagna sacra, su cui avviene l’incontro tra cielo e terra, il tempio-palazzo-città sacra, considerati punti di incontro tra cielo, terra e inferno. Nelle varie civiltà la montagna sacra assume connotati topologici e geografici reali. Per esempio per gli indù esiste il monte Meru, in Palestina il monte Thabor, che significa in ebraico “ombelico”. Per i Cristiani il Golgota è il luogo in cui Abramo fu creato e poi sepolto e redento dal sangue di Cristo, ivi crocefisso. Per l’Islam la montagna sacra per antonomasia è la Ka’aba. La sommità della montagna cosmica è l’ombelico della terra in cui ha avuto origine la terra e la creazione divina. Questi termini specifici sono improntati sull’embriologia trilogica di Dio-Madre-Origine connotati dal simbolismo del “centro”, il quale sarebbe sopravvissuto nei tempi moderni incarnandosi nell’immagine del tempio, imago mundi che si ripresenta nella basilica cristiana (la Gerusalemme Celeste).

Il centro è lo spazio limitato, la zona del sacro, realtà assoluta raggiungibile mediante impervi pellegrinaggi, peregrinazioni argonautiche, labirinti, inderogabili riti di passaggio che preludono l’iniziazione e la consacrazione. Ogni creazione umana ripete l’atto cosmogonico per eccellenza e tutto ciò che è fondato si trova al centro del mondo, perché la creazione avviene a partire da un centro. In India, per esempio, per fondare una città o costruire una casa, l’astrologo indica il centro del mondo sopra cui si trova il serpente Vrtra che rappresenta il Caos. Lo stregone in seguito pianta il palo nella testa del serpente: così è ripetuto l’atto divino della creazione esemplare, con la ripetizione dell’atto cosmogonico, per cui il tempo concreto è proiettato in un tempo mitico.

“Addomesticare” lo spazio coincide dunque con il situarsi al centro del mondo, mettere le fondamenta della propria casa (della propria città, del proprio popolo, della propria esistenza) dentro l’omphalos, l’ombelico del (corpo)mondo. In un certo senso, si rifugge il disordine del mondo tentando una metaforica ridiscesa nel grembo materno: l’ombelico, come ogni altra cavità, rimanda alla simbologia uterina.

Fortificazione concentrica

La casa stessa, oltre a essere costruita nel punto più vicino al passaggio che conduce all’utero della Madre (Terra), è utero: «la capanna cinese, come la grotta preistorica, dove la sposa regna in comunicazione diretta col suo familiare, è una matrice, “il focolare stesso passa per femmina dove s’accende il fuoco, il maschio”. L’infemminirsi della casa, come quello della patria, è tradotto dal genere grammaticale femminile delle lingue indo-europee domus e patria latine, ê oikia greca. I neutri das Haus e das Vaterland non sono che accidentali indebolimenti, subito compensati da die Hütte e die Heimat. La psicoanalisi, più di ogni altra, è stata sensibile alla semiologia femminoide della dimora e all’antropomorfismo che ne risulta; camere, capanne, palazzi, templi e cappelle sono infemminite. In Francia il carattere della cappella è molto netto, spesso essa è “Notre-Dame”, quasi sempre è consacrata, almeno parzialmente, alla Vergine Madre»[3].

Stabilita l’impossibilità di fornire una definizione esauriente di spazio, abbiamo capito che esso non è un’entità geograficamente delimitabile e che le sue qualità fisiche si sovrappongono piuttosto alle qualità degli atti che in esso si compiono. Abbiamo poi visto che l’atto umano fondamentale all’interno dello spazio è la “fondazione”, cioè la ricerca di un centro che permetta di evitare lo smarrimento e l’angoscia dell’infinito (labirinto). Nel centro si colloca la casa o comunque il segno-origine di una civiltà (il gesto dell’aratro di Romolo e Remo). Tale centro corrisponde simbolicamente all’ombelico del mondo, il passaggio principale che porta al grembo della Grande Madre. La casa stessa, o il monumento sorto sopra il segno fondatore, è grembo nel quale rintanarsi e costruire il proprio ordine, ovvero — in definitiva — il proprio spazio. Lo spazio delimitato/addomesticato, contenente un ordine e un progetto, ponte verso la memoria del corpo (corpo dell’uomo, corpo del mondo) e verso l’Altro (l’Ospite) è luogo.
Ma l’uomo è ancora capace di fondare (nel)lo spazio? È capace di originare luoghi in cui costruire identità, relazioni, Storia, storie? Oppure, come suggerisce Augé, l’uomo contemporaneo si è/è stato trasformato in un consumatore, un fruitore di spazio inteso come contenitore algido, asettico nonluogo in cui non c’è memoria, né di sé, né dell’Altro?

Dodeskaden

Per rispondere, o perlomeno per abbozzare una risposta, dobbiamo fare un passo indietro. Visto che abitare/fondare lo spazio significa individuare un centro, logicamente si deve dedurre che per fermarsi in un punto e insediarsi, prima si debba andare in cerca di esso, e, dal momento che questa ricerca si articola nello spazio-caos, in mancanza di bussole o mappe, significa che è impossibile non perdersi. Il perdersi precede/accompagna il gesto fondativo, come rileva Vattimo: «la facoltà dell’abitare è anche, inscindibilmente la facoltà di perdersi, la capacità di spaesamento e dunque di autentica esperienza. Tradotto nei termini della riflessione ermeneutica sulla verità: la verità come appartenenza a un orizzonte, come esperienza di integrazione […] è inscindibile dalla possibilità dello spaesamento — quella che Heidegger ha cercato di cogliere nella nozione di angoscia (in Essere e tempo) e nell’analisi dell’esperienza estetica (dell’opera d’arte come “messa in opera della verità”) in termini di urto e di shock »[4].

Ma dove ci si perde? Ci può perdere nel labirinto oppure nel deserto, come narra Borges, in I due re e i due labirinti, un famoso racconto che riporto integralmente:

Narrano gli uomini di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a entrarvi, e chi vi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini. Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della semplicità del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch’egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a Dio piacendo, gliel’avrebbe fatto conoscere un giorno. Poi fece ritorno in Arabia, riunì i suoi capitani e guerrieri e devastò il regno di Babilonia con sì buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli, sgominò i suoi uomini e fece prigioniero lo stesso re. Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni, e gli disse: “Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo.” Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di sete. La gloria sia con Colui che non muore [5].

labirinto

Chi attraversa il labirinto deve oltre-passare gli intrichi e gli inganni dell’oscurità per vincere la morte: si tratta di un percorso iniziatico classico in cui l’uomo-eroe (Teseo) deve combattere con la propria parte oscura, l’irrazionale che è dentro di sé (il Minotauro) e per fare ciò, per uscirne cioè vincitore, deve imparare a dipanare il filo della propria coscienza (la parte chiara, razionale, l’intelletto).
Studiando i miti sul mondo degli eroi (vedi L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell) ci si accorge che ess