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Cinema

Mulholland Drive di David Lynch

Una non-recensione per un non-film

Silenzio, non piangere

Locandina del film Mulholland DriveBetty che insegue il sogno rosa di Hollywood, Rita che fa della sua identità l’incarnazione di un sogno (lei, che sceglie di chiamarsi come un’attrice morta, piuttosto che come un personaggio immortale). La bionda, determinata e spietata, che vuole irrompere nella mente perduta del suo doppio (o)scuro. Lentamente, Betty che diventa attrice, Betty che si incarna in Rita, che riempie la sua vita (o la sua non-vita, non ancora morte) con un corpo senza memoria, con la memoria di un corpo ormai svuotato.
Burattini senza fili queste donne lynchiane, che parlano e parlano nei sogni, che cadono a terra, morte, mentre il loro playback continua ad esistere: una visione nuda, pornografica e orrorifica insieme, della realtà e del suo senso nascosto dietro l’apparire quotidiano, e oltre l’altrettanto quotidiana scomparsa dell’esistenza.

Mulholland Drive è una strada teatrale che penetra nel playback del vivere e morire, lo mostra nell’unico modo possibile: nascondendolo. La donna, unica, ma scissa in due corpi/visioni differenti, piange di fronte a questo disvelamento: il silencio come unica ragione.
Mulholland Drive come silenzio, visto e sentito. L’assenza silenziosa è l’unico senso che rimane sullo schermo, visibile nelle lacrime di Betty e Rita, perché è un senso che non può esistere senza il suo contrario, senza quell’illogicità che tuttavia lo nasconde.

Betty e Rita sono due spettatori che piangono per una voce che non ha corpo, per un corpo che non ha voce e che tuttavia canta, sembra cantare. Piangono la mistificazione del reale, piangono la sua rivelazione paurosa: l’unico teatro possibile per l’esistenza (di vita e morte insieme) è il sembrare che non è, la consapevolezza che l’essenza sarà sempre presente, ma silenziosa, quindi assente ma contemporaneamente sentita.

L’evidenza della morte

Di fronte all’evidenza della morte Rita cambia il proprio corpo, una parrucca bionda che la allontani dall’incubo di sapersi senza vita. E diventa allora un mescolarsi sempre più stretto di corpi e percezioni, un cambiarsi che la avvicina al suo altro, al suo identico opposto, che la porta a mascherarsi da bambola bionda, in realtà a lasciarsi spogliare, per mostrare la sua identità più vera, uguale ed opposta a quella di Betty.
Mulholland Drive come vertigine tra le identità viventi, che vivono, che stanno per rinascere, e morenti, che muoiono in eterno, che iniziano a morire.

Una scena del film Mulholland Drive

Di fronte all’evidenza della morte Betty, piccola stella già sul Viale del Tramonto (già morente prima di iniziare a vivere o in realtà una morta che gioca a vivere ancora), si appropria del corpo morto, con l’esigenza di incarnarsi più profondamente nell’altra se stessa, di prendere su di sé il senso di morte che le appartiene e per cedere una parte di vita affinché l’incubo si mantenga vivo: questo è l’istinto insopprimibile per cui la visione dell’assenza di vita porta a desiderare l’amore che genera vita. Che sembra generarlo: il sesso come reazione ad una morte non accettata.
Mulholland Drive è autoerotismo che nega vita e amore, che sa di sterilità e di incapacità procreativa, che si dipana attraverso un profondo senso di silenzio.

Recto — Verso

Il primo sogno, la prima visione che Lynch ci propone è già un mistero, una caccia alla scoperta dell’identità di una donna. Ma spaccare il film in due parti non aiuta certo a orientarsi tra i rimandi nascosti e le rime interne che continuamente si intuiscono, senza esplicitarsi mai.
Rime interne: Mulholland Drive è una strada percorsa sempre due volte in due sensi diversi, non sempre opposti ma sempre nuovi. Una Cadillac che si schianta in un terribile frontale per poi ritornare di nuovo a percorrere quella stessa strada, un cubo misterioso, blu, che sembra provenire dallo spazio, da un altro mondo, una sorta di monolito sempre presente, che ricompare, ancora blu, nei momenti fondamentali (subito, all’inizio, poi nel Teatro del Silenzio, nel momento centrale del film, alla fine tra le mani dell’uomo nero); una donna, mora, che risorge miracolosamente da un incidente mortale e che lentamente deve ricostruirsi, reinventarsi, vivere una seconda volta ad immagine e somiglianza di un’altra donna, questa volta bionda, per poi tornare, uguale e diversa da se stessa, ancora mora, ma con un nome ed un cognome definiti, Camilla Rodhes, e con un mestiere altrettanto definito ed evocativo: l’attrice.

Betty la bionda è qualsiasi personaggio del film e di film, giace sul divano come Grace Kelly, mostra nei suoi profili una strana somiglianza con Nicole Kidman, si cambia ancora diventando simile alla bionda Meg Ryan. Betty, che si addormenta risvegliandosi Diane, Betty attrice di talento e piena di speranza che si ritrova su Mulholland Drive, viaggiando in attesa dello schianto definitivo. E poi i provini, gli anni ‘50 che ci catapultano in un nuovo film solo per dichiararci ancora che, alla fine, è solo un film: il mondo di Hollywood da piccolo e idealista, pieno di sogni semplici ma ben congeniati, si trasforma in un ammasso di gente diversa, che si raccoglie tutta sulle colline attorno a Mulholland Drive, con quell’atmosfera lucida, ricca di lusso, in qualche modo sfacciatamente amorale e drammatica, come fosse l’Anniversary Party migliore di tutta Hollywood.

Una scena del film Mulholland Drive

E se questa macchina dei sogni funziona a pieno regime, nascondendo e mostrando intrighi e malignità, il teatro che al contrario non fa rumore, che è nascosto, un po’ fuori mano, molto più in basso, molto sotto la grande scritta bianca sulle colline, non produce la paradisiaca illusione della realtà, ma un più crudele e mefistofelico disvelamento dell’illusione: la realtà è che nulla esiste, che rimane solo il silenzio, nascosto sotto i sogni più verosimili.

Lungo le colline

Da una parte Betty, solare, vera, entusiasta, sognatrice. Sicuramente ci sospinge e ci attrae nella sua storia, ci fa credere tutto. Lei è il primo piano che si vede, ciò che la Vita manifesta e in cui siamo abituati a credere.
Betty è per noi una figura bianca, decisa e ben contornata, il punto di ancoraggio del film, il momento in cui tutto sembra cominciare ad avere senso.
Ma Betty chiama a sé il suo completamento, Rita: due donne che si incontrano e poi si cambiano a vicenda, l’una nell’altra trovano la risposta consolatoria allo scompenso creato dal senso di morte; insieme rappresentano il Sesso, in rima con la Vita, come reazione alla visione di se stesse morte nell’appartamento di Sunset Blv, come gesto generativo che neghi e allontani la morte.

E come chiusura del cerchio ecco il mondo di Hollywood, il Cinema, un mondo creato, costruito, che vende i sogni come fossero vita vera. Anch’esso come la Vita e il Sesso ha caratteristiche generatrici, pur macchinando un rumore disturbante, pur creando esistenze fittizie e incroci insensati tra l’apparire e l’esistere. Ma alla fine è così che deve essere: Vita Sesso e Cinema sono solo delle macchie in primo piano che nascondono il senso ultimo e lo rivelano, attraverso le quali i personaggi si spostano secondo una logica che va dal credere di esistere al bisogno di esistere fino all’illusione di esistere.

Da qui la svolta: l’allucinazione si fa visibile e proprio in questo punto emerge del tutto il senso di Morte così ostinatamente taciuto e celato. La Morte, come prima il Sesso, unisce le stesse due donne, ora cambiate ma sempre uguali: Diane e Camilla sono ciò che di nuovo è nato in Betty e Rita, ciò che esse stesse hanno generato insieme, ciò che il destino di morte ha reso manifesto. Entrambe sono ora strettamente legate ad una fine violenta, i toni si fanno allucinati e cupi, l’atmosfera diventa asfissiante e il Sesso non può più celare la Morte sempre più vicina.

Una scena del film Mulholland Drive

Allora, se Betty non può più esistere in un mondo che sta scoprendo l’inconsistenza della Vita, Diane è condannata all’Autoerotismo, un gesto solitario e disperato, che non ha futuro, ma che ha molto in comune con la perdita del contatto illusorio con la realtà, con l’impossibilità di generare. Masturbazione come gesto che decreta la sterilità più totale, che richiama direttamente la Morte, come prima il Sesso esprimeva l’esigenza di Vita.

Un gesto che si perde nel Silenzio, come proprio la mancanza di rumore fa da contrappasso al mondo chiassoso del Cinema: la rivelazione amara e insopportabile messa in scena dalla Compagnia del Silencio è la morte delle illusioni di Hollywood. Quando l’illusione dei sogni crolla non resta che il Silenzio.
Ed è curioso come Lynch abbia voluto tratteggiare Sunset Boulevard con toni chiari e verosimili, vitali, mentre abbia lasciato per Mulholland Drive le atmosfere più cupe e allucinanti, che lasciano sulla strada un inquietante senso di morte.
Come a dire che ciò che vediamo non è altro che l’illusione dell’esistere, già condannata inevitabilmente a perdersi sul viale del tramonto, mentre ciò che si attorciglia attorno alle verdi colline hollywoodiane non è altro che un incubo in odore di morte.

Mulholland Drive è l’ottavo film di David Lynch, premiato con la Palma d’Oro al festival di Cannes 2001 e candidato all’Oscar per la migliore regia nel 2002. Uscito nel 2001, l’opera ha creato una vera e propria bufera interpretativa: ricco si spunti simbolici e di involuzioni narrative, Mulholland Drive configura, insieme a Inland Empire del 2006 un superamento del cinema come racconto.
Il regista americano, nato il 20 gennaio del 1946 nel Montana, si formò in diverse scuole d’arte, dalla Corcoran School of Art a Washington, alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia dove, oltre ad accrescere il suo gusto per la pittura, iniziò anche a lavorare con la macchina da presa. Ma negli anni ‘70 iniziò a dedicarsi esclusivamente al cinema: si trasferì a Los Angeles dove frequentò il Conservatorio dell’American Film Institute, in cui iniziò a prendere vita il suo primo lungometraggio, Eraserhead (1977). Un film diventato ormai un cult dell’undergroud cinematografico, nel quale l’onirico, il perturbante e l’irrazionale emergono come elementi topici dello stile di Lynch.
Il regista è stato da sempre attratto dalle molteplici forme della comunicazione, arricchendo così il suo cinema di teatro e di televisione, di belle arti e di musica ricercata, rivolgendosi ai diversi generi riuscendo a farli propri. È il caso nel 1980 di Elephant man, un film basato sulla storia vera del deforme Joseph Merrick, che gli fu affidato da Mel Brooks e che trattava un tema drammatico e biografico allontanandosi dai percorsi tortuosi del precedente lavoro.
La sorte del film successivo, Dune, del 1984, fu alterata dai numerosi tagli in postproduzione operati dai produttori, tanto che il kolossal fantascientifico si rivelò un flop di pubblico e critica. Ma nel 1986 Lynch tornò con Velluto blu, uno dei suoi lavori più famosi, che gli valse la nomination all’Oscar come miglior regista, vinto poi da Martin Scorsese con Platoon.
Il 1990 è l’anno del grande successo di pubblico per Lynch, che firma la serie televisiva Twin Peaks, andata in onda per circa un anno. Ma lo stesso anno il regista vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes con Cuore selvaggio, road movie atipico, folle e violento interpretato da Nicholas Cage e Laura Dern. L’esperienza televisiva si riversò anche nel cinema con Fuoco cammina con me del 1992, una sorta di prequel di Twin Peaks che racconta gli ultimi sette giorni di vita di Laura Palmer.
Il successivo Strade perdute del 1997, controverso e tipicamente lynchiano nelle atmosfere e nella rappresentazione dei personaggi, continua il percorso sperimentale del regista, come passaggio concettuale dal precedente Velluto blu al successivo Mulholland Dr. del 2001. Ma nel mezzo, nel 1999, Lynch spiazza pubblico e critica con Una storia vera, una coproduzione Disney che sembra discostarsi dagli altri lavori. Una differenza stilistica superficiale, che però mantiene, nella storia semplice del contadino americano sulla falciatrice, il dubbio e l’ambiguità sulla rappresentazione della realtà.
Inland Empire del 2006 è l’ultimo capitolo del percorso di analisi dell’inconscio e della rappresentazione del regista americano: completamente girato in digitale, il film innova la messa in scena cinematografica e rivoluziona la diegesi narrativa. Un’esperienza sensitiva più che un tradizionale momento di cinema che, qualsiasi sia il giudizio personale, non può che non scioccare profondamente lo spettatore.

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