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Scrittura

Paolo Ghiotto Marin

Pretesto Forgiato Avana

Ero distesa sul pavimento, riordinando pagine di poesie scritte in periodi differenti e con differenti macchine da scrivere, russe, americane, tedesche; manoscritti dalle tinte differenti, differenti i formati e tipi di fogli, ritagli di articoli interessanti… Il pavimento rifletteva un labirinto di parole che non potevo ordinare in un attimo.

Elvira

Un pavimento di piastrelle di marmo senza lucentezza, bianchi e neri sgretolati dai calpestii di una porta sempre aperta. Non mi trovavo nel mio appartamento. Ero ospitata in un pian terreno, di fronte a casa mia, perché delle mie poesie non potevo vivere. Avevo affittato la mia casa a dei tedeschi che non parlavano inglese, ma bruciavano le mie palme da dattero e usavano le lenzuola bianche come tovaglia, accendendovi candele sopra. Io non parlavo ancora il tedesco. L’unica maniera per intendersi erano dei rapidissimi disegni che utilizzavamo per regolare i pagamenti o per limitare i flash che fotografavano l’edificio di fronte, in quanto anche questo era proibito. Tutto ciò che guadagnavo dall’affitto non mi era permesso e produceva un danno alla rivoluzione cubana.

Qualsiasi cosa poteva recar danno alla rivoluzione, e ancora così la pensano i miei. Ciononostante, in quei frangenti sono sempre stata ospitata in casa di Berta, una signora molto comunista che ci aiutava in qualsiasi frangente, e che io stessa aiutavo in quanto non poteva vivere con una pensione di quattro dollari mensili… Un uomo sereno, dallo sguardo luminoso e con l’ironia nel sorriso, si affacciò alla porta mentre tentavo di ricomporre il mio labirinto – uscire da un labirinto? – scorgendone soltanto l’ombra. Con voce forte, imbrigliato nelle sue parole, una malinconia italiano-spagnola, appoggiato allo stipite della porta aperta, mi chiedeva dove potesse trovarmi, perché gli avevano detto che ero lì. Raccolsi il mio rivolo di fogli e li portai al petto, pensierosa nel mio “labirinto di vita”, fissando la luce che dalla porta mi accecava riflettendosi sul marmo, ma senza allontanarli, né lui né i miei manoscritti. Accolsi Elvira, ma forse non la Elvira che cercava Paolo Ghiotto Marin.

Elvira Rodríguez Puerto (ERP): Cosa ti ispirò la visita di Cuba, in quale data arrivasti per la prima volta e quale fu il motivo che ti spinse a intraprendere il viaggio?

Paolo Ghiotto Marin (PGM): L’ispirazione nacque mentre mi trovavo sui bastioni di Cadice, in Andalusia, una città strana che materializza nella sua architettura il paradosso di costituire, all’unisono, una fortezza difensiva e una prigione. E in fondo difendersi, chiudersi di fronte a un oceano non è forse sinonimo di auto — esilio?

Paolo Ghiotto Marin

Immagina un vagabondo italiano, in piedi tra quelle mura mentre fissa le onde brumose! Vivendo come vivo in una città di mare, mi fu impossibile non ricordare un genovese che da quelle stesse lande andaluse salpò per incontrare le sue idee geniali. Quasi una conferma che un individuo è quello che pensa di essere e non quello che di lui pensano o vedono gli altri! Cristoforo Colombo regalò agli occhi della vecchia Europa l’idea di un nuovo mondo, inaugurando la più grande rivoluzione geopolitica che la storia dell’umanità avesse mai visto prima.

Fissando un mare grigio e immaginando l’ulissica distanza, già percorsa letterariamente dal cretese Nikos Kazantzakis, mi ritrovai a pensare a un continente, conosciuto fino ad allora, soltanto per averlo letto sui libri degli altri. Sin dalla prima giovinezza avevo scoperto la latitudine letteraria del realismo fantastico latinoamericano, le sue architetture barocche, gli ossimori d’un’analisi sociale obiettiva e naturale, miscela pura d’ebbrezze creative, di certe dimensioni oniriche in grado di convivere con una miseria polverizzata e seminata in giro da chissà quale oscuro e profumato semidio. Era letteratura che, lasciatasi alle spalle un’improbabile categoria di secondo piano, riempiva la mia anima colmando un vuoto determinato, malauguratamente, da un panorama culturale europeo balbettante valori smorti, non solo decadente, ma pure infelice, perennemente ancorato a conflitti imperituri, insanabili e che rifletteva, per forza di cose, la mia crisi personale. Il Sudamerica stava all’Europa, come una splendida donna di umili origini poteva stare ad una mummia riccamente conservata.

Guardando il mare tempestoso vidi comparire, sul mio orizzonte ideale, l’isola di Cuba come il più semplice attracco al continente latinoamericano, cosa che probabilmente era capitata, per caso, anche al buon Cristoforo. Inaugurai così i miei vagabondaggi nel Sud dell’America, approdando proprio sull’Isola grande. Correva l’anno domini (o di un oscuro semidio, a seconda di come lo si legga) 1996… ricordo ancora la luminosa mattinata di aprile in cui decisi di andare a vedere.

ERP: Che idea avevi del mondo cubano? E quale la tua prima impressione?

PGM: La mia conoscenza di Cuba, come credo sia capitato a diverse generazioni della gioventù europea, era legata a un totale atto d’amore idealistico. La causa di un tale sentimento derivava da letture appassionate capaci di rappresentare una sorta di Parnaso mitico che credeva e lottava per la realizzazione di una società più giusta e armoniosa. Su quell’isola, piccolo angolo del mondo, qualcuno riusciva ad opporre, all’imperante e dilagante senso comune del profitto e dell’interesse personale a qualsiasi costo, un eroismo d’altri tempi. Sembrava davvero che quell’isola potesse incarnare la speranza di una latitudine migliore, e non solo per chi viveva laggiù, ma di riflesso, per gli uomini d’altre terre…e si sa, per chi è affamato di valori, questa specie di ebbrezza sentimentale è inscalfibile, potente come un amore lontano, sicuro ed ingenuo perfino di fronte alle evidenze più imbarazzanti: è così importante credere e avere fede nella vita! Come pensare che si tratti soltanto di una chimera, o l’illusone d’inseguire il volo di un’araba fenice?

Per qualsiasi europeo che approdi sull’isola, credo che la prima impressione confermi proprio il sentimento che ognuno ha cullato per anni, secondo le rispettive convinzioni. Personalmente fu un’ebbrezza esaltante, anche se un seme, una traccia oscura, già m’infondeva il dilemma doloroso del dubbio.

ERP: Eri già un poeta prima di approdare a Cuba?

PGM: Sinceramente penso di non esserlo nemmeno oggi. Il mio amico Gonzalo Rojas, insignito del premio Cervantes al pari del cubano Cabrera Infante, afferma che per essere un poeta é necessario vivere poeticamente, cosa che non credo mi riesca molto bene. Quando mi occupo di poesia mi sento una sorta di artigiano del verso che tenti di scardinare la dimensione razionale, perché avverte la presenza di una quarta dimensione onirica, spirituale, etica, in grado di salvare la vita a chi scrive come a chi legge… la poesia é un cammino lungo e appassionante. Credo che sia impossibile non fidarsi di quelle parole messe lì in modo strano, a volte così incomprensibili, che se ne vanno a capo senza arrivare sul bordo destro della pagina, saltando tutte le regole canoniche della sintassi. Uno può anche raccontare e raccontarsi un sacco di stupidaggini quando scrive, inconsapevolmente, con ingenuità, ma la poesia no! A lei succede esattamente l’opposto, dice la verità perché vive e si alimenta proprio di quell’essenza inconsapevole. Non ricordo chi abbia detto: non credere a me, credi invece ai miei versi”.

ERP: Che autori leggevi al tempo, quali gli influssi letterari?

PGM: Dieci anni fa, approfondivo le letture dell’universo latinoamericano come meglio potevo. Al di là della presenza costante di Jorge Amado, dietro l’amore esaurito e stanco per Gabriel Garcia Marquez scoprii Juan Rulfo, vero patriarca del realismo onirico. Seguendo nuove rotte nel primo Luis Sepulveda e nel sempre caleidoscopico Manuel Scorza, Il grande Sertaỗ di Guimares Rosa rimaneva il libro epico per antonomasia.

Lezama Lima

Cuba, per me, era soltanto Cabrera Infante assieme a Lezama Lima, pescati a furia di ricerche itineranti nelle librerie, dove i commessi alla richiesta di qualcosa di cubano, facevano gentilmente spallucce. Figurati che Carpentier per negligenza e ignoranza personale lo credevo statunitense, e pertanto tabù…che sciocchezze, se ci penso adesso!

Di Bruce Chatwin ho letto tutto, per il modo di trattare la Patagonia, il sud profondo che per un giovane europeo rappresenta la fine del mondo, luogo che un giorno dovrà assolutamente vedere, odorare, calpestare …l’idillio durò fino a quando non mi capitò tra le mani Francisco Coloane, e di fronte all’opera originale, tutto il resto si tramutò in patacca. Il totem della letteratura di viaggio italiana capace di aprire la porta orientale era composta da Fosco Maraini e Tiziano Terzani, al tempo poco conosciuto. L’allora esordiente Paolo Rumiz, triestino come me, mi intrigava con i lucidi e stringati resoconti sulla guerra dei Balcani, ma il padre spirituale ed etico sull’argomento del viaggio è sempre stato Kapuscinskj. Claudio Magris, mi fece respirare l’intellettualità profonda delle mie terre con il suo Danubio, ma la bellezza del romanzo, per me, aveva un solo nome: Maurizio Maggiani.

Reiner Maria RilkePer autori che mi influenzarono, credo che intendi i poeti, no? Quelli sì che ti contagiano veramente! Sul momento non li riconosci, ma lasciano tracce che si scoprono soltanto più avanti, e forse è una fortuna. Studiavo Giuseppe Ungaretti per empatia, Neruda per il fluido metaforico, Umberto Saba per affetto, Reiner Maria Rilke per incanto e architettura. Odisseas Elitis, con il suo“Il sole, il primo” inaugurò una feconda e ideale amicizia che dura ancor oggi, nonostante per più di quindici anni le sue opere fossero introvabili; lo considero, infatti, uno dei miei amici migliori.

ERP: C’è qualche poeta nella tua famiglia?

PGM: Non da un punto strettamente letterario, anche se nella vita — forse — sono più poetici di me. Il cognome di mia madre, Marin, mi illude circa l’esistenza di un qualche lontano legame con Biagio Marin, grande poeta del dialetto del verso e del senso civico italiano. La famiglia di mia madre é originaria di Capodistria che al pari dell’isola di Grado conserva un’impronta veneziana e austro-ungara, tipica della Venezia-Giulia, regione dove vivo, ma la cosa finisce lì. Poi ci sono quelli che pur non facendo parte della famiglia di sangue, lo diventano lungo il cammino della vita, convertendosi poi in fratelli, amici, maestri. In questo senso ho un cugino, Michele Stradi — pittore — un maestro, Sergio Vuskovic Rojo — filosofo — e un fratello, Juan Alfaro de Rosa -“pallador”- Pensavi davvero che mi fossi dimenticato di te? Non ci riuscirei mai, cara sorella, nemmeno se lo volessi… e c’è stato un tempo in cui ho desiderato dimenticarti ardentemente… Elvira Rodriguez Puerto.

ERP: Cos’è che ti è piaciuto di più di Cuba, e ciò che più ti ha offeso?

PGM: Di fronte ad una domanda che implica le forme verbali “piacere” ed “offendere”, potrei utilizzarle soltanto per dirti se mi piace il gelato al pistacchio piuttosto che quello alla fragola, perché è solo in questo tipo di scelta che il non eletto non si offenderebbe, mentre sarebbe davvero presuntuoso da parte mia ritenermi offeso dal comportamento di uno stato sovrano, come dall’ultimo dei suoi abitanti. Preferisco parlare semplicemente d’amore e di dolore, perché sono i termini che contraddistinguono i rapporti intimi e personali più veri, cosa che implica la sola responsabilità di chi li espone: dei propri sentimenti — infatti — uno parla quando crede, e ne dispone quando vuole. Amo l’impianto barocco di Lezama Lima, quel monumento vivente a 360 gradi che è Josè Martì, vera, unica ed eterna anima di Cuba. Amo la forza della sua gente, la vitalità geniale, quel loro fare dal niente e creare dal nulla, la capacità di mantenere il diritto alla gioia resistendo a non si sa che cosa. Il sincretismo della loro spiritualità, la capacità di viaggiare anche quando non è possibile.

Amo gli amici che ho conosciuto lì, quelli che sono rimasti e quelli che se ne sono andati in giro per il mondo perché qualsiasi esigenza è sacrosanta, e quindi degna di rispetto. Amo Habana Vieja in ogni ora del giorno, della notte e in qualsiasi stagione, “Venezia senz’acqua frantumata nei suoi barocchi” che riesce sempre a incantare con quel suo modo strano di miscelare gioia e malinconia all’unisono. Cuba mi provoca un dolore forse egoista, eppure lacerante più di ogni altro, per aver sgretolato con la realtà dei fatti, l’ebbrezza sentimentale che le mie letture avevano alimentato prima di approdarvi da vagabondo (anche se dovrei limitarmi a parlare di Habana Vieja, l’unico posto che posso dire di conoscere davvero…e comunque di non capire ancora a fondo). Una realtà che intendo incarnata nelle parole quotidiane dei molti che ho conosciuto sull’isola — soprattutto quelle dei più giovani — nelle loro confidenze sussurrate, testimoniate pure con il silenzio degli sguardi, delle cose dette o non dette. C’è poco da fare! La delusione si è allargata ad effetto forbice considerando quello che l’ideale di Cuba ha proposto e propone di sé, e quello che un singolo individuo realizza di se stesso laggiù.

Foto scattata a Cuba da Paolo Ghiotto

Un’analisi approfondita di tutte le sfumature si rivelerebbe troppo lunga e complicata in questo ambito, và detto però che se questo è lo stato d’animo della gente che ci vive, indipendentemente da ragioni più o meno lecite, qualcosa che non và c’è di sicuro. Senza essere costretto ad allungare la fila dei sin troppi quaquaraquà, voglio dire che mi provoca dolore quell’assistere alla lenta disgregazione di un sogno senza che nessuno abbia mai mosso un dito o dato una mano a Cuba — con amore e solo per amore — in modo che capisse au-to-no-ma-men-te i suoi errori, consigliando correttivi, invece di imbalsamarsi su un eterno “giù le mani da Cuba” senza senso, che ha il sapore fin troppo amaro dello slogan. Purtroppo Cuba si è asserragliata come una fortezza di fronte all’oceano. Purtroppo non è successo quello che doveva succedere tra amici, e uno, ad un amico gli rompe le scatole se c’è qualcosa che non va, mica continua a dirgli che va tutto bene, no? La delusione e l’amarezza più profonda, fuori da Cuba, me l’hanno somministrata a piccole pillole proprio gli amici di sinistra, sempre dogmatici sulla questione, fedeli a principi che tanto somigliano, per paradosso, a quelli delle religioni più ottuse contro i quali lottano per fastidio. Ciò che mi ha restituito un po’ di respiro, è stata la notizia che alcuni giovani giornalisti di Buenos Aires mi hanno riferito un mese fa, per voce di un amico comune.

A Montevideo hanno intervistato Eduardo Galeano, uno che proprio di parte non è. All’interno dell’intervista, Galeano, spiega le ragioni di un suo precedente articolo, Cuba duele. Mi trovo d’accordo con lui, e spero con lui accomunato da una pena priva di equivoci, nel constatare come al di là di qualsiasi chiacchiera, e dopo cinquant’anni di sogno rivoluzionario, non esistano a Cuba libere elezioni, mentre risultano ben applicate e calcificate sia la censura ad ampio raggio, sia la pena di morte. Bizzarro è che lo stesso Galeano abbia poi chiesto ai giovani di Buenos Aires di non pubblicare la parte dell’intervista che riguardava Cuba duele. Perché l’ha fatto, mi chiedo? A me non resta che ringraziare i giovani giornalisti argentini (disubbidienti a causa di quel po’ di sano sangue italiano che gli scorre nelle vene), per aver preso una decisione, comunque difficile e scomoda, in nome della libertà e della verità.

Ritornando alle questioni che invece mi riguardano, mi chiedo come non si possa provare dolore quando dalla stessa latitudine che hai imparato ad amare, giunge la notizia che il sogno era soltanto una chimera, e che per quanto riguarda l’inseguimento in volo dell’araba fenice — forse — sarebbe meglio lasciar perdere. Chi è in grado di spiegarmelo? Come non riesco a spiegarmi perché dopo Alejo Carpentier (sublime cubano al di là delle mie prime ignoranze) Lezama Lima, Virgilio Pinera, Reinaldo Arenas, Cabrera Infante, si sappia poco o nulla di chi scrive a Cuba? Cuba ha perso forse la voce e la penna? Siccome scribacchio un po’ anch’io, allora mi chiedo, e stavolta senza pretendere alcuna risposta, se non sia per via di quel sogno tarpato che continua a darmi pena, tanto da farmi preoccupare.

ERP: Cos’è per te il sito di Elvira?

Calle Vieja

PGM: In primis il luogo dove l’ho conosciuta in Calle Avana, in Habana Vieja, quella “Casa Alta” dove spero che un giorno possa ritornare ed essere felice. C’è poi il suo sito web, una finestra aperta sul mondo che le dà la possibilità e la responsabilità di comunicare, sfumature tra tante, la sua peculiare cubanità, il suo essere donna, donna in versi, ed ora, cineasta.

ERP: Da quando hai cominciato a comprendere la situazione cubana? L’hai compresa anche grazie a Elvira?

PGM: Non credo di capirci ancora molto, anche perché — aderente a uno strano spirito socratico — sono convinto che più si conosce e più ce n’è da imparare…comunque sì, il mondo della “Casa Alta” di Elvira mi regalò un’opportunità invidiabile, quella di vivere e condividere la quotidianità di molti artisti di L’Avana, digerendo parecchi chiaroscuri. Per quanto riguarda il mio rapporto personale con Elvira, non nego di aver scorto nella sua anima e attraverso la sua vicenda, una parte di esistenza della città, e questo perché ogni individuo, a ben guardare, è un riflesso dell’universo in cui vive.

ERP: Ti senti italiano?

PGM: Di nascita, per questioni di radicamento con la donna e la terra che mi hanno partorito, madri entrambe. La questione italiana, a volerla affrontare seriamente, credo che potrebbe riservare belle sorprese e rompicapi lunghi notti intere. Sono nato a Trento e vivo a Trieste, due città così particolari da non sembrare nemmeno italiane; diverse anche per morfologia, la prima tra le montagne più impervie delle Alpi, la seconda affacciata dove l’Adriatico si è fermato, quando in tempi antichi veniva solcato dagli Argonauti e da mercanti d’ambra. Entrambe sono state “restituite” alla patria da meno di un secolo, dopo aver fatto parte dello stato più multietnico e liberale d’Europa. Incrociando le origini dei miei nonni, si possono scovare tracce veneziane e venete (che non sono la stessa cosa, perché comportano rapporti differenti con il territorio, l’una marinaresca commerciale, l’altra contadina stanziale), istriane, friulane e austriache. Se poi penso agli uomini che hanno marcato la cultura di Trieste, ce n’è da perdersi!

La splendida Cuba

Italo Svevo che si direbbe italianissimo considerando l’apparente pseudonimo, in realtà si chiamava Aron Hector Schmitz, e se non ci avesse pensato il suo amico James Joyce, che a Trieste ideò l’Ulisse, proponendolo a Parigi come il nuovo Proust italico, probabilmente avrebbe continuato a vendere le sue opere nella Giulia, finanziandole di tasca propria e con scarso successo perché osteggiato politicamente. E ancora le Elegie Duinesi di Rilke; lo Slataper del Mio Carso, “vociano irredentista” che si sacrificò per restituire all’Italia una città che sotto l’impero brillava di fama e benessere (avrebbe sopportato gli accadimenti del quarantennio successivo?); la presenza più antica di Stendhal; la residenza di un poeta che parlava in triestino e scriveva in italiano come Umberto Saba, di un altro, suo amico, che parlava in italiano e scriveva in triestino, Virgilio Giotti, e di un terzo che, monumento del senso civico, etico e intellettuale, inventò un microcosmo gradese in versi, Biagio Marin. Sono italiano? Ma cos’è l’Italia in effetti, se non un’aggregazione territoriale di entità comunali?

Mi sento un italiano mitteleuropeo in quanto attratto da ideali di bellezza, d’amore, e da quel senso etico per la vita che non deve avvantaggiare me a discapito degli altri, valori che perseguo a qualsiasi costo, ma come posso. Non mi sento italiano, ad esempio, se penso che la maggioranza dei partecipanti alla lotteria del turismo sessuale a Cuba è italiana. Mi sento italiano quando viaggio in giro per il mondo e mi sembra di comprendere al volo perfino le persone che non parlano la mia, o una lingua in comune; non lo sono quando mi tocca ammettere che il popolo italiano continua a perdere, giorno dopo giorno, quella fantasia che ha marcato epoche ben più luminose di quella odierna, o quando ci si rende conto che gli italiani hanno dimenticato l’intimo rapporto che li stringeva, un tempo, ai loro mari. Odio lo slogan italiani brava gente perché non lo siamo, perché non solo è un banale luogo comune, ma persino una patria comune che impedisce di pensare e progredire. Odio la mafia, la geografia di padroni e padrini ben diffusa in qualsiasi ambito, ben al di là delle geografie regionali, e mi da fastidio che sia una mentalità alla quale ci si è abituati senza nemmeno rendersene conto. Odio quelli che pitturano gli italiani a spaghetti e mandolino, mentre adoro ben altri pittori, la cui sfilza annoierebbe.

ERP: Di dove sei?

PGM: Mi viene in mente la frase rituale con la quale i tuareg del Niger, donano il talismano della croce ad ogni loro figlio, quando nasce. Figlio mio, ti dono i quattro angoli della terra, perché sappiamo dove nasciamo, ma non sappiamo dove moriremo…e un passo delle lettere milanesi di Reiner Maria Rilke, il poeta migratore: Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente.

Accompagnamento musicale durante una lettura pubblica di Pretesto Forgiato Avana di Paolo Ghiotto Marin

Sono realtà che credo valide per qualsiasi uomo pensante del mondo. Io parto dal principio che sono quello che penso di essere, e m’impegno per realizzarlo giorno per giorno, ma con metodo e volontà, mettendoci energia, passione, entusiasmo, ebbrezza mitica o mistica. Credo che valga la pena girare il mondo per rendersi conto di quante siano le cose belle che ogni cultura cura e conserva, e se esiste una minima empatia, tento di acquisirle. Così mi capita d’essere mongolo o tibetano, socratico, mapuche, un santo orishas, a seconda dei casi. É una cosa che trovo meravigliosamente naturale!

ERP: Cosa devi all’Italia? Ai colleghi di lavoro? Ai tuoi amici? Hai un debito con la vita?

PGM: Non è un tema che mi preoccupa molto. Non vivo pensando a ciò che devo o a ciò che non devo, mi calibro piuttosto verso un asintoto etico intimo. Preferisco pensare a quello che posso dare o fare. Quando esiste apertura, o per meglio intendersi “estroversione”, è facile che i canali del dare e del ricevere siano entrambi attivi, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi e in qualsiasi condizione. É la qualità di quello che esce o di quello che entra a fare la differenza, riuscendo a far star bene noi stessi e gli altri, anche se a volte lo scambio avviene in modo molto misterioso. Credo che l’importante, e di questo ne sono felice, sia dare e costruire, in sintonia con l’antico significato della poiesis greca, senza attendersi alcun risultato. In questo modo si vive con serenità, senza attendersi nulla in cambio, accettando successi e tracolli con la maggior tranquillità possibile. Io mi sento su questa strada, forse solo per fortuna e l’unico ringraziamento per essere stato baciato dalla fortuna non so a chi rivolgerlo.

ERP: Se fossi nato a Cuba, sotto il governo di Castro, saresti rimasto nel paese sopportando tutte le penurie del regime o denunciando le situazioni che vivono i cubani… oppure l’avresti lasciato per reinserirti in un altro mondo, dove le libertà hanno altre connotazioni?

Copertina del Simposio di PlatonePGM: Nell’ultima parte del Simposio o Banchetto di Platone, che il filosofo greco volle dedicare al principio dell’amore, Alcibiade, durante un’apologia dedicata a Socrate, sostiene che se c’è una cosa che non è possibile spiegare, o renderne conto, è quella che non contempla l’esperienza personale.

É molto complicato, per me, riuscire a decifrare con esattezza quello che farei se fossi un cubano, e probabilmente azzardare una risposta netta risulterebbe sciocco e ingiusto. E poi cos’è la cosa giusta, se non quello che l’anima di ognuno determina in una data situazione? Solo chi la vive, detiene la risposta, e a seconda dei casi potrebbero risultare perfette due o più scelte distinte. É l’armonia di ognuno che detta il tempo alla propria melodia, per quanto drammatica, rapsodica, dolce o allegra sia. Ogni individuo, in questo senso, non è soltanto uno strumento, ma un orchestra sinfonica con tanto di direttore sul podio. Chi potrebbe dire all’altro come suonare, e che pezzo scegliere? Se così fosse ne verrebbe fuori una baraonda, non musica.

Quello che posso invece offrirti è la mia opinione, determinata dalle impressioni limitate a quello che ho captato vivendo i miei periodi stanziali sull’isola. Non credo che tutti i cubani vivano male a Cuba, il problema sorge in proporzione al grado di cultura e alle aspettative che ogni cubano alimenta durante il corso della sua vita. Essendo il grado di cultura mediamente alto, ogni individuo, grazie anche al contatto con gli stranieri che approdano sull’isola, và scoprendo l’idea di nuovo mondo al contrario, esattamente il rovescio di quello scoperto da Colombo, “immaginando” che la vita fuori dal paese possa presentare opportunità migliori che sull’isola. Quello che mi ha sempre colpito rispetto al tema, è il luogo prescelto dal cubano per la cosiddetta fuga: è quasi sempre casuale, determinato da opportunità del tutto teoriche, per non dire azzardate. Per un europeo lo è alla stessa maniera, ma la differenza è abissale. L’europeo può pentirsi, tornare a casa e scegliere un’altra meta. Il cubano lascia tutto e si sradica per azzardo dove capita, molto spesso senza aver la possibilità di pentirsi, e nota bene, sarebbe un diritto sacrosanto sbagliare!

La voglia di andarsene, giusto per rendere le cose ancor più complicate, sembra sia qualcosa di indotto, perché una persona che non è mai uscita da Cuba — cosa molto triste — crea un proprio mondo di speranze estraendone i pezzi dalle opinioni altrui, così per sentito dire…e non lo trovi pazzesco? Chi assicura a quella persona che il luogo prescelto per una nuova vita, del tutto casualmente, sarà migliore di quella che lascia? Non lo può sapere. A me non và di mettermi ad analizzare il problema politico, in quanto — come ben sai — le variabili potrebbero essere infinite e non certe, proprio perché è la linea politica di Cuba ad avere l’aspetto di una continua improvvisazione, continuando a dibattersi, mentre annega, nei limiti di un’ideologia congelata da 50 anni. Chi potrebbe sapere quel che succede o accadrà in futuro? Chi ci capisce qualcosa? A me seriamente addolora tutto ciò, ma a cosa serve quel dolore? A cosa serve il tuo? Non sopporto invece chi ne dibatte per abitudine, senza provare un sentimento minimo, sia che si trovi da una parte o dall’altra della barricata (lotta stupida tra ideologie per un potere meno stupido, ma ugualmente ben ammaestrato). L’immobilismo a volte somiglia a un’attesa redditizia, dove non si aspetta altro che fare della pubblicità o contro-pubblicità alle disgrazie altrui. Sto divagando e mi rendo conto di voler rientrare e concludere:

Insomma, il cubano, o per lo meno la gente di L’Avana (che non è Cuba), che si sente dibattuto tra il volersene andare e la voglia di restare, vivrà per sempre questa tragica dicotomia. Se rimane conserverà una curiosità, una voglia, un bisogno impellente di andarsene a seconda dei gradi di sensibilità(?), ma se và, vivrà tenacemente una profonda nostalgia per ciò che lascia. Io mi chiedo come si possano cambiare le cose lottando da dentro, restando altrettanto perplesso nel chiedermi cosa si ottiene lottando da fuori, se il sistema è immobile, congelato e statico da più di mezzo secolo. La mia sensazione, anche qui dolorosa, è che il potere sia mero potere, totalmente disinteressato della sorte di chi vive dentro, o di coloro che si chiamano fuori: 11 milioni dentro, 11 milioni d’anime fuori… ma è forse diverso il rapporto con il potere (molto più incentivante nelle democrazie così dette “reali”) nelle altre parti del mondo?

Per quanto riguarda Cuba, basterebbe che le persone fossero libere di andare e venire, cosa molto semplice sulla carta, ma non nella pratica, e purtroppo…val più la pratica della grammatica. A proposito, nello stesso Simposio Platone fa dire a Diotima che l’amore è figlio dell’abbondanza e della miseria, e che non se ne ricaverebbe nulla volendolo carpire con un atto di forza atto soltanto a sgualcire il velo misterioso che lo occulta. Non pensi che sia un bell’enigma per l’intera umanità questo affare?

Foto scattata a Cuba da Paolo Ghiotto

ERP: Ci sono differenze tra il mare che si respira a Trieste e il mare che si odora a L’Avana?

PGM: Il loro odore è completamente differente… A Trieste il mare, come nel sostantivo castellano, è decisamente femminile e si profuma con fragranze differenti a seconda dei momenti: essendo donna ha un odore più intenso, d’aspra salsedine, che in ciclo di bassa marea diviene cupo, fondo e abbagliante, quasi sorprendente per come riesce ad infilarsi in città con la voglia di trovarti, sembra quasi un odore parlante, che chiama. Se tira scirocco, invece, s’impregna di sudore pengio, ma sensuale, quasi caramellato. Quando tira il vento di bora, che a Trieste chiamano con nome da donna mentre in realtà è lo sposo del mare, prende su l’aroma degli innamorati, quell’odore indefinibile che sa d’abbondanza e di miseria, che sa di tutto e di niente. In quei frangenti, la bora e il mare non badano più a nessuno, e nessuno bada ai loro odori in quanto è la bora forte a proteggerli e a disperderli, attirando l’attenzione su di se, e sulle proprie sferzate.
A l’Avana il mare è un uomo immenso, potente che porta dentro un profumo terroso di alghe meno salate. Accerchia con sapori di lontananze e più che profumare, parla di alisei.

ERP: Dopo il tuo Pretesto Forgiato Avana, hai scritto qualche altro libro?

PGM: Sì. Due romanzi ancora inediti che necessitano ampie revisioni. Il primo è L’ultimo esilio di Quetzacoatl ad oriente, la cui trama caracolla tra Trieste e le Alpi carniche, si amplia sugli ampi spazi desertici del confine messicano-statunitense, per poi scendere verso il sud dello Yucatan e del Chiapas con uno strano viaggio spazio-temporale. Il cerchio si chiude con il ritorno, dell’ultimo esilio, a Trieste.

Copertina di Pretexto Horjado Habana (Pretesto Forgiato Avana) di Paolo Ghiotto MarinLa Casa alta di Elvira, si potrebbe definire una sorta di proseguio di Pretesto forgiato Avana, ma su un piano più terreno, meno onirico. Mi spiego: l’opera artigiana del mio forgiare l’Avana, utilizza 10 poesie di Elvira Rodriguez Puerto come un pretesto. Le 10 Galene costituiscono la potente ouverture d’un lirico omaggio all’intera femminilità del quartiere di Habana Vieja. Attraverso un linguaggio quasi musicale, come quello lirico, ho creato un paesaggio letterario che tenta l’aderenza con quello reale attraverso l’emozionalità di un incontro.

La Casa alta, invece,si apre e plana verso un parnaso d’artisti di Habana Vieja il cui punto nevralgico di riferimento è appunto la casa di Elvira nel suo quartiere di L’Avana. É un racconto di chiaroscuri, contraddizioni, quotidianità mirabolanti — un romanzo — e quindi più realistico. Potrei definirlo la lettura o la vista posata su di un gruppo di giovani, che senza rendersene conto, ruotano non solo attorno a Calle Habana, ma pure alla colonna vertebrale di Josè Martì, personaggio che si rivelerà come l’autentica anima di Cuba, forse l’unica invulnerabile, e che nella sua eternità riassume quelle di tutte le altre, passate, presenti, future.

ERP: Qual è il posto che più ti manca?

PGM: Non provo la mancanza di luoghi dove mi sono trovato o persone con le quali ho vissuto esperienze bellissime, come non ho mai pensato di andare a vivere in un’altra latitudine che con fosse quella di Trieste, almeno fino ad oggi. Le persone incontrate e i luoghi di viaggio che ho avuto la fortuna di conoscere in giro per il mondo, sono parte di me e della mia crescita personale, e nutro la speranza che dal mio intimo seminato, se non si è impigliato da qualche parte, sia germogliato qualcosa. Appartengo ai luoghi e alle persone come loro appartengono a me, e questo esclude qualsivoglia malinconia, perché nella dimensione del valore e della condivisione non esiste abbandono, né oblio. Provo malinconia, piuttosto, per un mondo che non avendo conosciuto, vi ci protendo con tutte le mie energie, a volte mi capita di captarne delle tracce — qua e là — simili a folgorazioni. Avverto quindi un tipo di malinconia per un mondo alla cui realizzazione mi piacerebbe contribuire, e che a volte mi capita d’intravedere al di là dei miei limiti personali, al di là dei confini della realtà oggettiva. Può capitarmi, mentre ascolto una melodia, leggo un verso o mi trovi assorbito da un intenso aspetto della natura, cogliendo l’espressione di un volto, qualcosa di detto o scritto altrimenti perduto. Credo fermamente che la terra e gli uomini che la abitano, possano divenire più belli. É esattamente per questa dimensione che provo malinconia, per un futuro utopico reale e realizzabile, e se mi si concede un azzardo, sono più che convinto che la possibilità di un allaccio con questo livello divino, possa avvenire per amore, per dialogo e confronto, o tramite l’avvicinamento ad uno stato di poesia.

ERP: Qual è la tua opinione nei confronti del termine “appartenenza”: appartenere a un partito, a una famiglia, o a un amore?

PGM: Si appartiene a qualsiasi dimensione che sia in armonia con la propria intimità. É chiaro che le vibrazioni di questa armonia dipendono dall’essenza di ogni intimità, e dai valori — che nel profondo — essa trattiene in sé. Per me questi valori sono l’amore, la verità e il senso etico del comportamento, di conseguenza, mi capita di appartenere facilmente alle persone che amo e che mi amano, al mondo dell’arte, o a certe culture, anche se lontane. Mi risulta più complicato appartenere ad un partito perché non ne trovo uno che vibri secondo i miei valori naturali. Appartengo alla mia famiglia quando condivido situazioni equilibrate, un po’ meno quando questo non succede, e la stessa cosa vale per la mia patria o quella di qualcun altro. Ad ogni modo l’appartenere non ha nulla a che vedere con il possesso. Non si può possedere una donna, un’idea, un valore, perché se così fosse entrerebbe in gioco l’egoismo del potere che non è nient’altro che un disequilibrio e una mancanza di condivisione.

I principali problemi della nostra epoca, l’incomunicabilità e l’egoismo sfrenato che costituiscono barriere invalicabili, nonostante esistano intelligenza, sviluppo economico e mezzi, si verificano proprio a causa di questa confusione tra i concetti di potere ed appartenenza. Il primo implica l’avere, il controllo, la mancanza d’interesse e d’attenzione verso il diverso, mentre la seconda concepisce l’amore, la condivisione, la sensibilità nei confronti degli altri, l’essere se stessi piuttosto che bramare cose, persone, beni, denari ed idee proprie in modo da consolidare un benessere effimero. Quando si ama non esistono più né limiti né confini, proprio a causa di una intima espansione, e a quel punto non ci si preoccupa più né del perché né del dove, e il fine di questa dilatazione, per assurdo, non assume alcuna importanza. Avviene perché si è cosi, punto.

ERP: Quali cambiamenti si sono verificati in te? Credevi in qualcosa che adesso non credi più? Qualcosa in cui ora credi e che prima non ti convinceva?

Paolo Ghiotto accompagnato al pianoforte durante una lettura di poesiePGM: La vita stessa è movimento e pertanto implica cambi continui, Eraclito insegna. Non credo che sia possibile credere a lungo in un’idea, o in un pacchetto d’idee preconfezionate, perché la cosa implicherebbe una staticità innaturale. Quello che invece mi capita è sentire che la capacità di credere cresce in potenza, mano a mano che si avanza nella vita. É il credere il perno fondamentale dell’esistenza, perché si crede nei valori e non nelle idee, anzi, probabilmente le idee sono solo delle tappe intermedie tese all’avvicinamento del valore e della sua essenza. Le idee sono degli arnesi che uno utilizza per costruire, per creare opere d’arte e lo stesso individuo và considerato un’opera d’arte, qualsiasi individuo. Se uno riflette soltanto a ciò che gli ruota attorno, si renderà perfettamente conto di quante idee siano nate, vissute e morte. Le idee di uno stato, l’idea di un amore, l’idea di se stessi, il fatto che siano morte non significa mica che il soggetto alle quali erano rivolte non esita più? Oggi, ad esempio, ho idee di me stesso che dieci anni fa nemmeno immaginavo di avere, tanto da sembrare una continua scoperta tesa all’infinito, e chissà che non lo sia, visto che in questo momento non ne abbiamo un’idea o una prova sicura.

Il mare di Cuba

ERP: Qual è il tuo lavoro attuale? E ti piace?

PGM: Etimologicamente, il termine lavoro (ma è molto più evidente nelle lingue spagnola e francese) implica un travaglio, una sofferenza, un costo. La nostra società, purtroppo, ha sposato questo significato riuscendo addirittura ad incarnarlo, incatenando a vita gli uomini al lavoro. Il mio lavoro non è molto diverso da tanti altri, proprio perché i sistemi produttivi moderni lo considerano in tal senso. Gli obiettivi sono i risultati mirati da un’oligarchia manageriale che da l’impressione di essere sempre più sterile dal punto di vista umano ed automatizzata grazie al tecnicismo. Il profitto puro, il taglio delle spese, l’attenzione ad un’immagine formale è quello che importa. L’anti-eticità, sta nel fatto che questo sistema, di cui siamo tutti più o meno consapevoli partecipanti, mostra di sé una faccia pulita o per lo meno gradevole. Prova pensare alle pubblicità televisive, sono così irreali da toccare il limite della truffa e dell’inganno…eppure sono piacevoli!

A una qualità formale corrisponde sempre meno una migliore qualità della vita…ma non è un paradosso? L’individuo vi si trova macinato dentro, senza aver la possibilità d’incidere con la propria personalità, che non viene nemmeno considerata da macrosistemi lavorativi ben programmati. Si lavora, come salariati (questo è il mio caso) e, con l’aggiunta di un termine che potrebbe risultare piuttosto duro, ma purtroppo ben reale: prostituiti. E a cosa serve il denaro per le masse? Ad entrare in una sorta di paese dei balocchi, dove l’accelerazione dello scambio é talmente frenetica da riuscire ad anestetizzare la capacità di pensare. Tutto questo avallato dalle istituzioni politiche, ovviamente. Si lavora non per vivere, ma per partecipare a questo tipo di lotteria. Ecco perché al lavoro odierno si contrappone il creare, ma a quel punto la storia cambia. Chi crea lavorando ha la possibilità di uscire da un circuito chiuso e recuperare un senso etico dell’attività individuale. É molto probabile che la mia attività artistica sia il risultato di una contrapposizione al lavoro prostituito, ma a questo punto — nel mio caso — come non potrei considerarlo fondamentale? Non lo amo, certo, ma mi serve e serve a quelli che me lo danno…vedi? Servire, dare e avere, in contrapposizione ad amare e creare, mondi opposti, un chiaroscuro mescolato assieme fino a confondersi con la realtà delle nostre stesse vite e non credo che questo stato di cose sia completamente confutabile, credo sia invece molto più saggio, cercare di fare il massimo, ognuno nel suo ambito — sia nel lavoro prostituito che in quello creativo — in modo da spostare l’ago della bilancia verso la creatività, questo si che è un sacrosanto matrimonio tra dovere e diritto personale!

ERP: Quanti libri o progetti ti piacerebbe realizzare, o scrivere.

PGM: Non esiste un palinsesto, e nemmeno un ritmo da seguire premeditatamente. Sai benissimo che non credo sia possibile, soprattutto in letteratura, produrre continuamente, poi è ovvio che ognuno segua la propria natura, la sua predisposizione. I miei romanzi hanno un tempo generativo di circa quattro anni, ma ho la sensazione che ne servirebbero molti di più, proprio per il principio del Panta Rei di Eraclito che accennavo prima. Posso raccontarti i progetti attuali. Sono molto preso dallo studio della poesia, perché penso di aver trovato quella chiave intima che permetta di varcarne la soglia, ed imprimere un cambio di rotta tra il versificare e il poetare. Sono molto contento di questo lavoro, ed è probabile che la Comunità Greca di Trieste finanzi un insieme di versi che ho scritto in settembre a Creta, “I Portolani cretesi”, appunto. Il libro dovrebbe uscire in italiano con greco a fronte.

Copertina di Pretesto Forgiato Avana di Paolo GhiottoProcede l’idea di creare con il mio editore “Edizioni del leone” una collana dedicata ad autori latinoamericani, finanziati per il momento con i diritti di autore di “Pretesto forgiato Avana, uscito sia in Italia che in Cile e Argentina. Il primo libro, che sto traducendo dallo spagnolo all’italiano, sarà “Breviario di Platone” di Sergio Vuskovic Rojo, il mio maestro cileno, soprattutto di etica. Con i Mapuche cileni, e grazie al lavoro dell’Associazione culturale “Via Montereale” di Pordenone”,abbiamo programmato la pubblicazione un “quaderno” dedicato ad un’antologia poetica in italiano, castellano e mapugundun.

Sempre con la collaborazione della medesima Associazione, spero di poter viaggiare con un mio amico, lo straordinario fotografo tedesco Udo Koeler, nel deserto sahariano assieme ai Tuareg, anche se la situazione di belligeranza attuale renda la zona in notevole fermento. Il problema è sempre il medesimo, mancanza di fondi e di tempo a disposizione. Dove sono finiti i mecenati? L’obiettivo, comunque, è la produzione di un libro di viaggio e fotografia che sia un pretesto per raccontare la storia di questa antichissima e gloriosa cultura. I proventi del libro verrebbero incanalati per finanziare costruzioni di pozzi d’acqua e scuole nella zona di Agadez, nel Niger, il secondo paese più povero dell’Africa. Come ultima cosa, vorrei tentare di iniziare il mio nuovo romanzo. Se centrassi tutti gli obiettivi, credo che passerei davvero un felice 2007.

ERP: Qualche progetto di vita?

PGM: Smettere di fumare sigarette, vizio che ostacola — dicono — l’elevazione spirituale, anche se La coscienza di Zeno dimostrerebbe il contrario, recuperando sigari — rigorosamente cubani — e tabacco da pipa. Vorrei dedicarmi sempre più ai molteplici ed eterogenei aspetti della scrittura, ma più d’ogni altra cosa, rendere più semplice il mio modo di vivere, in quanto credo che la vita stessa, essendo un’opera d’arte paragonabile alla scultura, diventi sublime quando si toglie e non quando si aggiunge. Adorerei un casa vaccinata dai qualunquismi del mondo, e dei figli con Marina che siano proiezione ed essenza di un amore completo ed equilibrato.

ERP: Come accadde che conoscesti Elvira?

PGM: Conobbi Elvira durante il primo viaggio a Cuba, quello che inaugurò i miei vagabondaggi solitari nel Sud dell’America. Pur considerandomi un viaggiatore estremamente lento, in quell’occasione il viaggio fu rapidissimo, quasi conseguenza di un’urgenza. Prima di partire, un amico mi chiese di portare i suoi saluti ad una poetessa cubana di Habana Vieja che aveva conosciuto l’anno precedente; io avrei fatto sicuramente tappa a L’Avana con un castellano claudicante che misto all’italiano mi permetteva di comunicare in espaliano. Cercando Calle Habana 326, dove viveva Elvira, pensai che mi sarei fermato da lei soltanto un paio d’ore, giusto per un caffé o un tè, e per assolvere ad una visita di cortesia. In casa di Berta e non nella sua Casa alta, affittata ad ospiti tedeschi, mi trovai di fronte una donna minuta dagli occhi a mandorla simili ai miei, perduta dentro dei fogli di carta tra i quali si raccapezzava di tanto in tanto.

Paolo Ghiotto Marin ed Elvira Rodriguez Puerto

Mi fermai ad osservarla non visto, per alcuni minuti, appoggiato allo stipite di un uscio aperto. Quando la salutai sembrò non essere totalmente presente, o per lo meno non si trovava esattamente lì dove la vedevo io. Quella donna seduta su una sedia a dondolo era forse Elvira , la stessa Elvira che cercavo io? Di caffé o tè, non ce n’era, né in casa di Berta né in Casa alta…eppure…fu lì che mi fermai, proprio in Calle Habana 326, senza più riuscire a proseguire il viaggio secondo i programmi prefissati.

Non conobbi nient’altro di Cuba in quell’occasione, soltanto la Casa alta di Elvira, punto di riferimento per un nugolo di artisti dispersi nel mare dell’antica capitale barocca. Habana Vieja si trasformò in una fata morgana capace di imprigionarmi in una sorta d’incanto, sia allora, sia nei due viaggi successivi e consecutivi. Ricordo che i primi giorni li passammo assieme senza nemmeno dormire, o quasi. I barocchi della città vecchia, il Malecon con il suo mare, le notti passate su un lettino messo in un antro della casa di Berta, dove condividemmo i voli pindarici della poesia e delle cucarachas. Fu un’esperienza intensa che segnò entrambi, tanto che decidemmo di adottarci come fratelli.

ERP: I suoi amici furono i tuoi amici?

PGM: Per uno straniero che approda a L’Avana, stringere amicizie non è questione così semplice, a causa di varianti psicologiche molto complesse. Solo con Elvira, ad esempio, tramite un rapporto del tutto speciale e grazie a una costanza che sfiora il misterioso, è fiorita con gli anni un’amicizia tanto coinvolgente da tramutarsi in fratellanza sincera. Chissà se questo ci è stato reso possibile dal minimo comune denominatore della poesia? Nel contempo, però, mi sono spesso reso conto quanto la mia presenza finisse per complicare le relazioni tra gli stessi artisti della Casa Alta.

Ritratto cubanoUno straniero, in effetti, può spostare e modificare certi equilibri, in quanto, agli occhi di un cubano non è soltanto un amico, ma un’opportunità, un tesoro che può aiutarti a vivere meglio, un gancio in mezzo al cielo, addirittura una via d’uscita dall’isola se decidesse d’invitarti nel suo paese. É un’energia assoluta, una dinamica esterna che può creare effetti inaspettati, e in fin dei conti totalmente ingiusti. La stessa Elvira, nel corso degli anni, ha manifestato forti gelosie nei miei confronti, a causa di altre persone con le quali approfondivo la conoscenza, sia si trattasse d’artisti ristretti al suo giro, sia persone conosciute per mio conto, sia nei confronti dell’unica donna che ho amato in Habana Vieja, e che continua ad essere sua amica, ringraziando il cielo.

Ad ogni modo, quel tipo di gelosia non l’ho più avvertito in Elvira da quando vive in Germania, perché? Qual è il motivo? Ripeto, non sono cose semplici, sono difficilmente giudicabili e proprio per questo ho sempre evitato di partorire giudizi inopportuni, anche se quelli che mi sono stati appioppati hanno causato una personale rottura, pur solo momentanea con l’isola intera. Il fatto, ad esempio, che non avessi relazioni con donne cubane, mi convertiva in un omosessuale, e più di qualche amico mi ha guardato con sospetto per il timore che lo fossi davvero! Era uno scherzo forse? Io, ad essere sincero, non l’ho mai capito. Quando, invece, una relazione con una donna l’ho avuta sul serio, il rapporto ha creato gelosie, sia all’interno di quel microcosmo maschile che mi ha facilmente etichettato come lo straniero in grado di permettersi quell’amore a loro non concesso, sia nella stessa Elvira. Abbastanza sconcertante la cosa, se la si vive seriamente. La stessa donna che ho amato, al tempo poco più che ventenne, mi confessò di non desiderare alcun rapporto con uomini cubani….o si trattava di stranieri, o nulla. Ha sposato uno straniero e se n’è andata…o forse è successo il contrario? E poi cose occultate, sincerità poco aperte…segreti nascosti e scoperti. Gli amici di Elvira, quindi, erano anche i miei amici? É difficile capire se all’interno del microcosmo che ruota attorno a un argonauta straniero approdato a l’Avana, si celi o meno l’amicizia più genuina, come è difficile rendersi conto se il viaggiatore si comporti da vero amico.

Gli amici di Elvira, sono stati miei amici per i brevi ed intensi momenti condivisi, ma poi una volta rientrato in Europa, la difficoltà delle comunicazioni da una parte, e l’oblio dall’altra, hanno ridotto quegli amici a figurine mitiche, sorta di sogni inconclusi, sentimenti frantumati dal tempo, io stesso chissà come sbriciolato nei sentimenti di qualcuno. Non ho avuto più alcuna notizia di loro, al di fuori di Elvira, o di loro tramite Elvira. Dopo cinque anni di latitanza da Cuba, l’anno scorso sono ritornato a l’Habana Vieja, provenendo da Santiago del Cile e concludendo quel giro dell’isola che avevo tentato già dieci anni prima. A L’Avana, dei tanti ragazzi che frequentavano la Casa alta (circa una ventina) ne ho rintracciati soltanto due, dopo varie peripezie durate giornate intere. Gli altri se ne sono andati tutti, mi ha detto chi è rimasto, e uno di loro non vede l’ora di partire, ma questa è un’altra storia.

L’amicizia, essendo un valore tra i più profondi, è legato a quelle sintonie armoniche di cui parlavo poco fa. La vita in movimento può crearle e frantumarle, ma quella vera penso che sia inalienabile. Un amico è un universo con il quale ti trovi in sintonia, anche a distanza di anni, con il quale si comunica pure in silenzio. Non è legato ai canali del dare o dell’avere, ma alla diluizione dei confini, un’espansione reciproca che si amalgama su una dimensione comune. Il tempo, lo spazio e le distanze che comporta non ne determinano né il grado d’intensità né l’essenza. Gli arnesi che la costruiscono sono l’empatia, l’appartenenza e la condivisione, valori basilari per qualsiasi rapporto altamente qualitativo dal punto di vista umano, amore compreso, se inteso come rapporto di coppia.

ERP: Quale “Galena” ti è rimasta dentro?

Collage cubanoPGM: Le dieci Galene che ricevetti con una lettera di Elvira nel 1999, sono poesie che mi hanno marcato profondamente, e che mi ritrovo ad amare ogni giorno di più. Questi versi caleidoscopici sono un universo denso ed importante. Non si tratta soltanto di poesie scritte da una donna di Habana Vieja, ma l’opportunità che il caso fortuito mi ha concesso per intraprendere un viaggio personale e misterioso nell’intera femminilità del quartiere più antico della Capital de Cuba. I versi trattengono un peso ed una leggerezza uniti dalla forza creativa, gli stessi termini che mi sono ritrovato ad assorbire in qualsiasi calle di L’Avana durante i miei vagabondaggi. Non ho solo letto Galene, ma le ho anche sviscerate. Incarnandosi nella mia anima sono diventate parte di me, permettendo la nascita o la resurrezione dell’araldico demon che salpando da quelle galene ha rivisitato oniricamente il mondo di Habana Vieja.

É stato un viaggio di chiaroscuri, di ebbrezze e dolori personali, di transustanzia a mia volta creativa. Dentro Galene e con le galene dentro, mi sono sentito anch’io cubano e in quella cubanità indotta ho partorito una visione folgorante che nel bene e nel male, è il sunto di un incontro di anime, di terre e culture differenti, di sentimenti e sensazioni convertiti in lettere. Il mio matrimonio mistico con Galene è un racconto libero da vincoli di qualsiasi tipo, che tentando la profondità della cose senza giudicarle, si è reso testimone dell’essenza dell’anima, probabilmente l’atto più puro che mi sia capitato di vivere da un punto di vista letterario. In questo atto ho adoperato gli arnesi ancestrali che l’uomo conosce da sempre e con il quale forgia l’esistenza delle parole, aprendo una dimensione, quel tentativo di poesia, che spesso ci salva la vita.

Segue con L’Avana, macero del turista

Pretesto Forgiato Avana è un percorso lirico nato dai viaggi di Paolo Ghiotto Marin a L’Avana. I Canti di un argonauta mitteleuropeo che ha usato come pretesto di partenza i versi della poetessa cubana Elvira Rodriguez Puerto, conosciuta nel quartiere di Habana Vieja nel 1996. L’opera, canto e contro-canto a due voci, è stata pubblicata in Italia (Edizioni del Leone), Cile e Argentina (RIL Editoriales) nel 2006. Da qui l’idea e il progetto di Ghiotto Marin: rinunciare ai suoi diritti d’autore per finanziare opere letterarie di autori latinoamericani, disposti, a loro volta, a partecipare all’ideale catena virtuosa. In Italia, assieme al compositore cubano Ramis Marin Aguilla (pianoforte), Ghiotto Marin propone un recital di Pretesto nell’intento di raccogliere fondi per il suo progetto. Un primo risultato nel maggio del 2007: vede la luce Breviario di Platone (Edizioni del Leone) del filosofo cileno Sergio Vuskovic Rojo, sindaco di Valparaiso al momento del golpe militare di Pinochet, amico di Neruda e collaboratore di Salvador Allende. (presentato nell’ambito del premio Terzani 2007).

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