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Palcoscenico

Pier Paolo Bisleri

Pop art man

CF: Per Fucine Mute intervistiamo Pier Paolo Bisleri, direttore degli allestimenti per il Teatro Verdi di Trieste e scenografo dell’Iris andata in scena recentemente per la regia di Federico Tiezzi.

Pier Paolo Bisleri

Qual è stato il suo percorso formativo/professionale?

PPB: Come molti studenti triestini ho fatto un percorso piuttosto difficoltoso. Ero refrattario a qualsiasi forma di coercizione scolastica, però, da sempre mi piaceva disegnare. Ho quindi espresso ai miei genitori la mia propensione verso la scuola d’arte e naturalmente mi ci han subito portato perché non speravano che avessi intenzione di fare qualcosa nella vita, immaginavano che il mio percorso di studio sarebbe finito lì. Invece, dopo averne combinate di cotte e di crude i primi anni, ho trovato alla scuola d’arte degli insegnanti molto capaci e intelligenti che mi hanno spronato a lavorare. Mi son sentito spiazzato e incoraggiato accorgendomi che credevano in me e ho iniziato a impegnarmi seriamente, dando il meglio di me. In ambiente scolastico ho conosciuto altri studenti. Tra questi, Robeto Vidali che ha fondato la galleria e la rivista “Juliet”. Insieme abbiamo gestito per parecchi anni la galleria d’arte, ossia lo spazio dedicato alle arti visive, della Cappella Underground, che si è sempre occupata di cinema. Poi ci sono stati Piero Percavassi, Rosella Pisciotta, Cesare Piccotti, i vari responsabili della Cappella ci avevano dato questa opportunità e quindi abbiamo iniziato ad esporre i nostri lavori come artisti ma soprattutto ad occuparci di arte contemporanea, a studiarla, a portarla a Trieste esponendo lavori altrui.

Da lì il passo è stato verso un mio amore particolare per la body art, per la performance, e soprattutto per gli artisti dell’Azionismo Viennese, primo fra tutti, Hermann Nitsch. E dopo varie esperienze, tutte maturate nel ‘78, soprattutto con una grande performance di Nice a Trieste, ho fatto una sorta di salto qualitativo: mi sono interessato alla teatralizzazione dell’arte, ossia a questi artisti che mettono in gioco il proprio o l’altrui corpo in qualche modo manipolato dall’artista stesso.
Mio cugino era Giorgio Polacco, un famoso critico teatrale triestino e, grazie a lui, giovanissimo, ho avuto occasione di vedere Strehler mettere in scena i suoi spettacoli, da L’opera da 3 soldi a Vita di Galileo e tanti altri. Quindi c’era nell’aria di famiglia questa passione per il teatro… Avevo anche una zia con un grande amore per la lirica che, da piccolo, mi portò a vedere Il barbiere di Siviglia di Rossini. Credo che per un bambino sia un’esperienza curiosa, ti si apre un mondo di fantasia, di musica di gioco.

Scenografia della Norma di Pier Paolo Bisleri in costruzione

Spinto da queste prime esperienze, ho deciso di andare a studiare fuori Trieste. Non sono andato a Venezia perché è una città che mi mette a disagio… troppa acqua, troppi ponti, troppi canali!
Amando profondamente l’arte rinascimentale, Michelangelo, Brunelleschi, ho scelto Firenze, dove ho vissuto 7 anni. Ho frequentato l’Accademia di Belle Arti, mi sono diplomato in scenografia. Poi dal ‘70 al ‘78 sono rientrato a Trieste e per quella serie di situazioni che si incastrano, chiamiamole semplicemente “fortuna”, sono entrato al Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e lì sono rimasto fino al 96, quando ho dato le dimissioni per lavorare come libero professionista. Nel ‘91 c’è stato l’incontro con Federico Tiezzi, regista col quale tuttora collaboro più di frequente, ed è nato il progetto per la Norma, la famosa ultima opera andata in scena al Petruzzelli di Bari: la notte che hanno smontato la nostra scenografia per montare Le nozze di Figaro, il teatro è andato a fuoco. È stata un’opera che ha avuto molta fortuna, forse proprio perché essendo bruciata c’era tutta un’alleure attorno. Ed è iniziata una serie di spettacoli fatti con Tiezzi non solo nella lirica ma anche nella prosa. Sono stati diciassette anni di lavoro e di esperienze intense, che mi hanno portato, nel 1999- 2000, a dirigere gli allestimenti del Piccolo Teatro di Milano dopo la morte di Strehler. Chiaramente non potevo dir di no a Escobar, sovrintendente, anche perché all’epoca facevo su e giù: ero direttore degli allestimenti del teatro di prosa a Trieste e andavo anche a Milano a dirigere gli allestimenti di Strehler perché erano incarichi di grande prestigio.

Pier Paolo BisleriPrima di me, c’era stato Franco Magrande, che già era stato chiamato a dirigere La Scala di Milano. Una coincidenza quindi stranissima, cioè due direttori degli allestimenti triestini si trovano assieme a Milano a dirigere due dei più grandi teatri nazionali, se non volgiamo dire di più, uno di prosa e l’altro di lirica. Sono stato lì due anni e mezzo e ho fatto debuttare Ronconi con due grandi spettacoli contemporaneamente, La vita è un sogn o e Sogno, a distanza di due giorni, perché chiaramente lui è fatto così, non può fare uno spettacolo alla volta… deve farne due nel giro di poche settimane! E poi sono stato chiamato a Trieste e ho accettato con piacere innanzitutto perché amo questo teatro e la città, poi perché sono stato chiamato come direttore degli allestimenti scenici e della scenografia tout cour, non perché sono triestino ma per la mia professionalità, ho voluto mettere in chiaro questo punto.

CF: Qual è il percorso canonico che consiglierebbe ad un giovane aspirante scenografo oggi?

Dal 2002 insegno alla facoltà di Scienze Multimediali presso l’Università di Udine e, per due anni, ho insegnato anche a Trieste. Lo faccio per passione, il lunedì, l’unico giorno nel quale sono libero perché tradizionalmente è il giorno di chiusura dei teatri. A questa domanda rispondo quindi molto spesso ai miei studenti. Innanzitutto, al di là del sacro fuoco dell’arte, uno certo deve amare il teatro ma non deve pensare di intraprendere questo tipo di scelta professionale perché crede dietro ci sia tutt’un mondo di felicità e fantasia, di semplicità, gioia, denaro… Anzi, il teatro oggi è in crisi, quindi ti deve piacere profondamente, ci devi credere. Quelli che arrivano ad un certo livello sono proprio quelli che ci mettono anima e corpo. Le possibilità, secondo me, ci sono ma solo per coloro che dimostrano di avere quella spinta, quell’energia necessarie per portare avanti una scelta drastica, molto forte e faticosa. Non esistono weekend, festività, pause… personalmente non so neppure quando contemplare l’idea di fare un banale vacanza. Si lavora sempre: d’inverno c’è la stagione d’opera, l’estate s’inventano il festival dell’operetta, poi ci sono i miei spettacoli da seguire fuori.

Oltre ad un normale proseguimento di studi superiori di base, che preferibilmente dovrebbero essere di matrice artistica anche se non è sempre detto che sia così, poi ci sono le varie accademie o alcune specifiche facoltà universitarie come il DAMS o IUAV di Venezia con poi un’eventuale preparazione ulteriore e più approfondita. Ciò che comunque resta fondamentale, però, è la capacità di “rubare con gli occhi”. È fondamentale andare a teatro, al cinema, frequentare il più possibile gallerie, mostre, musei, bisogna viaggiare, spostarsi. La nostra generazione era una generazione che ha girato l’Italia, nei primi anni Settanta si iniziava appena a muoversi. Oggi, invece, un qualsiasi studente ha estrema facilità a spostarsi e deve quindi pensare di fare i propri studi all’estero, di andare per esempio a Londra. È una città che supera per molti versi New York e certamente consiglierei di seguire la scena londinese. Certo di affacciano sempre più anche altre grandi identità culturali con le quali potersi confrontare. Io, ad esempio, amo molto il teatro giapponese. Capisco che uno non possa andarsene in Giappone a studiare teatro kabuki, però, non bisogna limitare mai le proprie esperienze.

Oggi è impensabile l’idea di crescere e morire nella stessa città senza mai spostarsi. Le esperienze fatte sono fondamentali perché poi l’imprinting sarà trasferito negli anni di lavoro a venire. Io lavoro molto di memoria visiva, di ciò che ho visto e che vedo ancora oggi, anche se ora muovermi e avere tempo da dedicare a questo tipo di esperienza è molto più difficoltoso. Ad esempio l’unico viaggio che mi sono concesso quest’anno sono stati due giorni a Parigi faticosissimi perché sono stato a vedere la mostra su David Lynch che mi interessava alla Fondazione Cartier, una mostra su Beckett al Pompidou, per concludere con una passeggiata in quella grande galleria del Louvre, dove fa sempre bene vedere qualche Mantegna o comunque la grande pittura italiana del Quattrocento e del Cinquecento…

PontormoCF: Vorrei approfondire il suo rapporto con la tradizione, un argomento che sembra starle molto a cuore: quali sono i suoi riferimenti artistici a livello professionale?

Quando Picasso è esploso con il cubismo, prima era passato attraverso un figurativismo rappresenta-to dai suoi periodi azzurro e rosa. Intendo dire che non puoi fare l’avanguardia se non hai negli occhi, nel cervello e nel cuore il passato. Se devo fare dei riferimenti, penso a tutta la pittura toscana e fiorentina del periodo rinascimentale, che, come ho già detto, amo molto. In particolare, penso a Piero della Francesca, Simone Martini, Pontormo o a Caravaggio per le luci e per il modo stesso che aveva di vivere, così come a Brunelleschi nell’architettura. Uno non può non stupirsi davanti a certe opere. Quando studiavo all’accademia di San Marco a Firenze, passavo ogni giorno davanti al Davide di Donatello… c’è gente che arriva dall’America, dalla Russia, da ogni dove per vedere ciò che io avevo sotto gli occhi almeno quattro o cinque volte al giorno. Abitavo in Borgo San Jacopo, in via dei Barbadori, dietro casa mia c’era la chiesa di San Felicita, entravo, inserivo le mie cento lire e si accendevano le luci sull’opera del Pontormo. Insomma, Firenze è così… noi italiani non ci rendiamo neppure conto di avere l’arte in casa, di esserne circondati.

Andy Warhol

I miei riferimenti, però, sono anche quelli venuti dopo: ho avuto la fortuna di lavorare con Andy Warhol, con Christo, che impacchettava i monumenti e con Boris, cito solo questi tre nomi per tutti. Allora quando lavoro con i tubi al neon, non posso pensare di non avere negli occhi i tubi al neon di Dan Flavin, quando faccio la scena qua intorno che vedete (siamo seduti sulle colonne e riproduzioni statuarie che comporranno la scenografia della Norma, nda) non penso al bianco marmoreo di Michelangelo ma piuttosto al bianco opaco di Segal, il famoso scultore della pop art americana che fa queste sculture rivestite di gesso e inserite in contesti urbani o particolari.

Probabilmente su una grande lastra di ferro che comporrà il pavimento della scena a teatro, ci sono Andrè Cadere o Naumann. Ci sono dei continui riferimenti in ciò che io faccio. Ho fatto uno Zio Vanja dove Astro, il medico che amava la natura e che la difendeva, al quale Cechov mette in bocca dei dialoghi meravigliosi in difesa della campagna russa, io l’ho immaginato Boris, con le sue teorie filosofiche in difesa della natura, degli animali, delle piante. Lui è stato il fondatore del movimento die grüne, dei verdi, che poi sono diventati movimento politico. La sua artisticità era questa ideologia umanitaria e politica che lo portava a parlare alla gente nelle gallerie, ad esporre le sue teorie. Scriveva alla lavagna, disegnava e poi rimaneva il feticcio, la rappresentazione che veniva messa in cornice e poi venduta, perché il mercato dell’arte portava avanti questo discorso. Quindi ho fatto Astro vestito proprio con il cappellaccio, i calzoni, la giacca da pescatore, cioè era una citazione, lui proprio Boris era in scena, seppure il personaggio era Astro.

C’è insomma questo divertimento che ci deve essere nel nostro mestiere. Anche nel caso della Iris di cui parlavamo prima, è uno spettacolo pieno di colori, di invenzioni, forse anche esagerato. Con Tiezzi poi tendiamo sempre a “ripulire e ripulire” le tante idee che abbiamo, eppure troviamo il giorno dopo la prima le recensioni sulla stampa che parlano della scene eteree e minimaliste di Pier Paolo Bisleri.. e meno male! Seppur togliendo, insomma, mi sembra sempre che ci sia ancora tanto, ma va bene, perché nel teatro, sia di prosa che di lirica, secondo me, devi stupire.

CF: Che differenza c’è dal suo punto di vista tra prosa e lirica? Che cosa cambia nel lavoro di uno scenografo?

PPB: Col tempo ho capito una cosa importante, ossia l’ho percepita prima e fatta profondamente mia in seguito: togliendo l’analisi del testo nella prosa che certamente è molto più approfondita rispetto alla lirica, perché un libretto lirico spesso ti fa rizzare il pelo! È molto più importante la musica piuttosto che la parte drammaturgica: il regista fa notoriamente più difficoltà a trovare una sua drammaturgia all’interno di un testo molte volte estremamente labile. Mentre nella prosa quando cominci a parlare di Shakespeare, di Pirandello, di Goldoni o di grandi altri autori chiaramente il testo la fa da padrone.

Dietro a un bel cambio di scena, però, dietro ad una tua idea nata e cresciuta, progettata, disegnata, attuata, ecc, molte volte c’è una grande mutazione musicale dietro, spesso un crescendo. Se ti immagini un cambio sarà spesso accompagnato da una grande eccitazione musicale. Io ho sempre considerato che un direttore d’orchestra può avere anche degli orgasmi dirigendo un’opera. Molti con i quali ho parlato mi hanno capito a han confermato ciò che intendo dire. Davvero c’è una tale eccitazione nel guidare un’orchestra di 120 elementi, magari in un’opera meravigliosa, che ti esplode in un crescendo dove c’è un brano musicale che tutti attendono, un’ora e mezza per sentire quei due minuti di partitura musicale… Beato lui che ha la bacchetta in mano e può comandare, ma anche tu, scenografo, hai la tua apparizione.

Ricordo un crescendo nel Barbiere di Siviglia, un istante finale che durerà 3 o 4 secondi, quando c’è l’esplosione finale. In quel preciso momento, la mia scenografia ruotava improvvisamente facendo apparire due grandi rose circondate da delle dalie. Era un omaggio a Gilbert & George, i due artisti della pop art inglese. Apparivano, quindi, queste due rose di circa 10 metri per sei di altezza su un fondale che era nero fino a un secondo prima: ti viene una botta di adrenalina emozionante!

Opera di Gilbert & George

Nella prosa difficilmente accade, a meno che il regista non abbia la necessità di sottolineare la commedia o momenti della commedia con musiche evocative, e quello con la scenografia è un rapporto più mentale, celebrale, freddo. Quando, invece, come avviene nel teatro lirico, hai una componente musicale estremamente forte, senti quella passione che non ritrovi nella prosa. Devo dir la verità che con Tiezzi, però, questa componente anche nella prosa c’è: è un regista che mette assieme molta musica, anche particolarmente interessante.

Nell’Amleto, per esempio, abbiamo inserito Bang Bang di Dalila mentre balla con Ofelia prima di pronunciare la famosa frase “vai in convento”. Nel momento topico “essere o non essere”, partiva la musica di Qui viva sempre compagno Che Guevara, nella Filopatras di Testori, finita l’opera partiva “I maschi” di Gianna Nannini. Ci sono delle botte allo stomaco che lui sente di dare e che ottengono sempre un buon successo di pubblico. Non tutti i registi hanno la disponibilità o si sentono di inserire una parte musicale abbastanza sostanziosa nella rappresentazione teatrale di prosa e quindi in genere difficilmente trovi la situazione che ho appena descritto.

In realtà, ciò non ha niente a che vedere con un giudizio sullo spettacolo o con la messinscena in senso lato, è proprio una mia preferenza personale. Quando vedo apparire un cambio scena o vedo all’apertura del sipario una mia immagine e questa è supportata da un sostegno musicale forte, certamente ne sono molto più felice. Ovviamente ho realizzato anche delle scenografie per la prosa senza la presenza di alcun brano musicale e comunque le sento mie e le amo, so che questo è il mio lavoro e so quello che il teatro di prosa mi può dare, con o senza la presenza della musica.

Lavorare nel teatro di prosa richiede una ricerca molto più approfondita da parte dello scenografo, nel senso di lavorare sul copione, di cercare nel copione il sottotesto. Ai miei studenti dico sempre di non fermarsi alle didascalie, anzi, di non leggerle neanche, mentre ho scoperto che molti miei colleghi insistono proprio sul contrario. Per me, la didascalia è assolutamente da eliminare, va riletta semmai in un secondo momento perché, ovviamente, se c’è un oggetto che viene citato ed è indispensabile utilizzarlo in scena, non può eliminarlo. Puoi semmai reinventarlo: nei Cavalieri di Ekebù di Zandonai si parlava di un caminetto che nella nostra scenografia non c’era perché non viene utilizzato, anche se il cantante ad un certo punto lo cita. Per contro, nel “libiam libiam nei lieti calici , quando nella Traviata non c’è la grande festa, non puoi non avere dei bicchieri in mano. Ci sono delle cose che devi leggere, sentire e mettere. Mentre nella prosa vai a leggere il sottotesto.

Una scena di Vita di Galileo progettata da Pier Paolo Bisleri

Prendiamo ad esempio Vita di Galieo di Brecht: se tu vai a leggere il copione con tutte le note che ci sono, volendo fare uno spettacolo legato alla tradizione, ci sarebbero una valanga di cambi di scena, sarebbe molto difficoltoso da rappresentare. Strehler stesso, che non vorrei neppure citare perché non posso certo fare paragoni pensando al grande spettacolo fatto con Buazzelli, con Damiani sulla scenografia ha cercato un contenitore nel quale inserire i vari elementi che indicassero il passare del tempo e citassero le epoche e gli ambienti del Galileo.

Dovendo affrontare questo testo, la mia idea di scena era questo grande palcoscenico con delle grandi assi, belle, pesanti: il palcoscenico le mondo, la concretezza della realtà, le basi su cui poggiano la scienza e la nostra cultura. Questo pavimento ellissoidale era leggermente sollevato da terra e appoggiato su delle grandi lastre di ardesia. Pochi elementi scenici — la scrivania di Galileo, un mappamondo, una sedia — ma dietro un gigantesco fondale dipinto con un enorme universo, 35 metri per dieci di altezza di universo, con una grande porta centrale. Era la porta della scienza, della fantasia, era la porta mentale di Galileo, quel varco, quello stargate diremmo oggi, che lo scienziato voleva attraversare, alla ricerca di nuove idea filosofiche e nuovi mondi. Questo era il sottotesto e così ho voluto rappresentarlo.

Una scena di Vita di Galileo progettata da Pier Paolo Bisleri

Sono stato molto soddisfatto di arrivare nella terna finale del premio UBU, il premio della critica teatrale italiana per la migliore scenografia, anche se naturalmente ha vinto Ronconi. L’anno prima era stato premiato Tiezzi con Gli uccelli di Aristofane come miglior spettacolo e, poiché penso che sia un premio a tutte le diverse componenti, diciamo che anch’io ho avuto la mia parte di gratificazione. Prima o poi mi piacerebbe vincerlo anche solamente per la scenografia ma non sono un salottiero e pago anche lo scotto di questo mondo.

CF: Quali sono in concreto i passaggi, la metodologia di lavoro? Nel momento in ci si accetta una nuova sfida, che cosa sta dietro alla creazione? Quali passaggi si affrontano?

Pier Paolo BisleriPPB: Ho studiato all’accademia di scenografia e mi è stato insegnato un metodo che è quello di leggere il copione o la partitura musicale. Bisogna rispettare il testo, i tempi, quanto è scritto e su questo iniziare a creare uno spazio che deve tener conto delle diverse logiche coinvolte. Quando ero ragazzino si pensava allo spazio in senso lato, ai cambi di scena, non c’era l’esperienza pratica che arriva col tempo e insegna come dietro ad ogni idea ci siano dei problemi da risolvere.

Oggi ci sono problemi economici, per fare una scena bisogna già sapere che budget si ha a disposizione perché è inutile fare dei grandi voli di fantasia sa poi ti fan tornare con i piedi per terra con i vari limiti da affrontare. Ci sono tanti fattori da tenere in considerazione, anche al di là di chi gestisce o produce lo spettacolo, è importante sapere anche dove andrà, ci sono dei limiti di spazio in scena, di dimensioni, pesi, misure, bisogna sapere un ingranaggio chi lo muove, chi non lo muove, quanti macchinisti hai a disposizione, quanti soldi hai. All’interno di tutti questi limiti è importante far scaturire la propria fantasia che, chiaramente, più anni di esperienze hai, più ti sorregge nel riuscire a fare quello in cui credi. Per inciso, una volta pensavo che il cachet di uno scenografo fosse dovuto al 100% alla sua capacità di creazione artistica. Oggi ritengo, invece, che il 20% o meno sia dovuto alla creazione artistica, tutto il resto serve a compensare il lavoro che dovrai fare per difendere il tuo operato con le unghie e con i denti, per proporre ciò che intendi fare e riuscire a metterlo in scena.
Puoi affrontare la scenografia come fosse l’arredamento spaziale della scena, il luogo spaziale dell’azione scenica, più o meno colto. Ci sono scenografi che affrontano questo lavoro con meno attenzione, approfondendo meno il lavoro; magari sono bravi lo stesso ma li definirei piuttosto degli arredatori dello spazio.

Per contro c’è, invece, lo scenografo che affianca il regista e deve affiancarlo per raccontare attraverso la scena la concretezza dell’idea di regia che c’è dietro lo spettacolo. Il regista comunque resta al vertice, se uno vuole fare il signore e padrone deve scegliere la regia, uno scenografo è sempre un gradino più in basso.
Ciò che credo e tento di fare personalmente, difendendo sempre questa mia provenienza dall’arte figurativa, è pensare ai miei lavori come a delle installazioni artistiche. Dove posso farlo, perché certe opere te lo permettono, altre no, tento di trovare una linea particolare, un’attenzione, un minimalismo, un rigore, una geometria e chiaramente un rapporto con la musica e con ciò che si vuole rappresentare, sia nell’opera che nella prosa. In qualche modo spero sempre di andare un po’ oltre, di attingere alle idee che avevo quando facevo l’artista e riportarle nello spazio tridimensionale. Oggi accade che certi artisti lo facciano, va di moda. Tra poco debutta alla Fenice di Venezia un’opera con le scene di Hansel Kiefer, forse il più grande artista oggi vivente tedesco, ha preso il posto di Boris. Al San Carlo di Napoli, Federico Tiezzi ha diretto un Parsifal e una Valchiria con le scene di Paolini.

Scenografia della Norma di Pier Paolo Bisleri in costruzioneStiamo per mettere in scena la Norma di Bari che inaugurerà il Petruzzelli di Bari, sulla cui testa in questo momento siedo (l’intervista è stata fatto al laboratorio scenografico del Teatro Verdi di Trieste dove si stavano appunto preparando le scene per la Norma, ndr). La scenografia sarà affiancata da grandi fondali dipinti che Mario Schifano ci aveva dedicato. Lui è morto dieci anni fa, quest’anno ricorre il decimo anniversario, e c’è una grande attesa per quest’opera. Non solo perché è stata l’ultima rappresentazione che ha chiuso la prima vita del Petruzzelli di Bari, che oggi rinasce come la fenice dalla proprie ceneri nella gestione di Giandomenico Vaccari, l’attuale sovrintendente. L’opera debutterà a Bologna per poi esser rappresentata al Teatro Verdi di Trieste e, infine, celebrare la riapertura a Bari.
Non si tratta propriamente di un progetto scenografico firmato a due mani, la scena è mia ma tutti i fondali sono stati progettati assieme a Schifani. All’epoca gli abbiamo chiesto alcuni disegni e lui aveva preparato otto fondali per i diversi cambi di scena e che saranno riutilizzati per il nuovo allestimento anche in occasione di questa ricorrenza per ricordarlo. Uno dei più grandi artisti della pop art italiana negli anni Sessanta.

CF: Abbiamo accennato al rapporto “gerarchico” con il regista, come avviene l’interazione con le altre professionalità coinvolte? C’è indipendenza?

PPB: Ci deve essere da parte del regista l’intelligenza di dare allo scenografo la sua libertà creativa. D’altro canto lo scenografo non può andare contro un’idea di regia, deve fare il suo lavoro e aiutare a rendere visibili certe fantasie e ispirazioni del regista, che il più delle volte non ha la capacità di visualizzare esattamente ciò che vuole. La difficoltà maggiore di uno scenografo è proprio far capire al regista che cosa ci sarà sul palcoscenico una volta montata la scena. Un regista spesso non ha le capacità visive necessarie ad svolgere praticamente il nostro lavoro, altrimenti farebbero gli artisti, i pittori, o gli scultori. Non hanno gli strumenti per capire con precisione le dimensioni, la prospettiva, la profondità, le misure di una scena. È meglio fare dei modellini tridimensionali inserendo anche l’essere umano in modo da far capire esattamente i volumi.

Molto spesso gli scontri che ci sono tra regista e scenografo sono proprio quelli sugli spazi liberi che un regista sperava di avere mentre, invece, si trova con degli spazi più limitati. Da parte dello scenografo, anche in base al livello di esperienza, credo ci sia la piena consapevolezza di ciò che sta per fare, cosa che avviene anche per il regista nel suo lavoro. Ha la sua idea di regia e sa cosa vorrà dare, segue la sua idea mentale di spettacolo cercando di renderla visibile al pubblico. Il mio lavoro tutto sommato è lo stesso.

Diceva Onkawara, un artista contemporaneo: “art as action of an idea”, l’arte intesa appunto come agire un’idea. Il momento artistico nasce quando nel tuo cervello si sviluppa l’idea creativa di ciò che devi fare. Spesso io sono affezionato anche a dei piccoli bozzetti disegnati su dei fogliettini qualsiasi di carta, sul retro di un biglietto, sulla salviettina del ristorante dove hai parlato con il regista. Quella è l’idea fondamentale e, artisticamente, vale più quella di tutti gli altri bozzetti o modelli che uno può fare dopo, perché ciò che viene in seguito non è altro che disegnare per gli altri l’idea che tu hai in testa. Tu già la vedi la tua scena, con le sue luci, i colori, i movimenti ma devi disegnarla, fare dei bozzetti e dei disegni tecnici da dare ai laboratori che realizzeranno ciò che tu hai pensato. La base è questa, le fasi successive sono relative. Lo scenografo, nel momento in cui parla con il regista e poi legge il testo, ha l’ispirazione, dopo devi solo realizzarla.

Pier Paolo Bisleri

Certo la cosa migliore è avere tra regista e scenografo una rapporto di sintonia, di affinità elettive, certo non bisognerebbe remare contro al lavoro dell’altro. Alcune volte bisognerebbe anche avere la capacità di dire “quest’opera non è adatta a me quindi non la faccio”, anche se poi, personalmente, sono il primo incapace di farlo. Alla fine c’è sempre la voglia sempre di sfidare, di cimentarsi, di mettersi alla prova. Certe cose poi ti riescono meglio ed altre meno, bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, di essere onesti e capire che magari quella determinata commedia non fa per te e fare un passo indietro.

CF: Su che base sceglie i propri lavori?

PPB: Non scelgo, me li propongono. In genere, se il regista è anche il produttore di se stesso, vuole mettere in scena uno spettacolo e pensa alla persona più adatta a rappresentare figurativamente la sua idea. Poi ognuno di noi ha le sue determinate caratteristiche e ci si conosce. Se nasce un rapporto che prosegue negli anni, con il regista si crea un sodalizio basato sulle reciproche affinità, e sai già che assieme si lavora bene. Spesso ci sono proprio dei binomi collaudati tra regista e scenografo. Quando uno fa il nome di Margherita Palli, pensa immediatamente a Ronconi; Daminai e Frigerio erano i due scenografi di Strehler, che ha lavorato anche con altri, come Svoboda e Bregni, ma non erano loro a fare la differenza. Alle fine, quando tu vedi uno spettacolo strehleriano, indipendentemente da chi sia stato lo scenografo, con difficoltà riconosci l’uno o l’altro. Il peso di un grande regista, in questo caso Strehler, rendeva la richiesta fatta allo scenografo molto vincolante sulla creatività, quindi il prodotto finito rimaneva uno spettacolo strehleriano, i grandi registi plasmano a loro uso e consumo anche la grande personalità creativa di alcuni tra i professionisti più grandi del secolo scorso, non stiamo parlando di personaggi di secondo piano. Lo dimostra il fatto che poi abbiano trovato la loro libertà espressiva lavorando con altri registi o per conto loro: molti sono diventati registi.

CF: Ripensando alla sua carriera e ai suoi lavori, ce n’è uno che la rappresenta più degli altri?

PPB: Sono affezionato a tutti gli spettacoli fatti. L’ultimo comunque ha dentro di sé tutti gli altri, anche perché il mio è un modo di lavorare piuttosto curioso: mi diverto a mettere nell’ultimo spettacolo qualcosa di quello precedente e, allo stesso tempo, in questo già c’è qualcosa di ciò che farò nel prossimo. C’è sempre questa sorte di gioco di rimandi, di incastri di una vita…

Una scena di Iris progettata da Pier Paolo Bisleri

Nella lirica certamente questa Iris, il precedente Don Quichotte, quel Barbiere di Siviglia del quale ti parlavo prima e una Butterfly fatta, sono quelli che mi stanno più a cuore. C’è stato anche un Didone e Enea molto bello. Nella prosa Amleto e Galileo sono stati importanti per me. È duro scegliere perché ogni scenografia è un parto, è come un figlio, è difficile rifiutarle. Sono venute più o meno bene, magari tutte bene per te ma hanno avuto un rapporto diverso con il pubblico. A volte lo spettacolo più apprezzato non è necessariamente il migliore.
Il primo anno che abbiamo fatto La Sonnambula a Firenze, ad esempio, proprio nella città che tanto amo, siamo stati fischiati e io sono stato malissimo per questo. Anche se 2500 persone applaudono ma 30 no, tu senti ovviamente quelli che fischiano e ti ferisce. Poi ho scoperto, invece, che i fischi erano per il direttore d’orchestra che era molto contestato anche a Firenze. All’inizio non ci credevo ma, quando dopo cinque anni, hanno deciso di rifare quella stessa opera con un altro direttore d’orchestra, pur non essendo stato chiamato, sono andato alla prima a Firenze perché non potevo abbandonare il regista che con me aveva condiviso i fischi. Ero agitatissimo, mi tremavano le gambe e mi aspettavo il peggio. Invece, abbiamo ricevuto applausi a non finire. La stessa opera è stata poi rappresentata con successo e varie repliche anche nello splendido teatro di Bilbao, negli Stati Uniti, a Baltimora, e la RAI ha fatto anche un DVD tuttora in commercio. Se uno acquista oggi La Sonnambula di Bellini trova quindi le mie scenografie, i costumi della Bellucci, premio oscar per L’età degli innocenti, e regia di Federico Tiezzi. Quello stesso spettacolo che mi aveva amareggiato cinque anni prima è diventato quindi un successo con tournée internazionali, dvd, e grandi riconoscimenti.

CF: Spesso può essere una questione di tempo e di sensibilità…

PPB: è vero che certe volte il pubblico in quel momento non è pronto per quell’interpretazione. Per la Iris che ha debuttato pochi giorni fa abbiamo ricevuto grandissimi consensi, nonostante l’opera non sia una delle più riuscite di Mascagni. La nostra interpretazione e il nostro lavoro sono stati, però, apprezzati e ci ha fatto molto piacere ricevere il consenso del pubblico, soprattutto qui a Trieste, la mia città. La stessa nipote di Mascagni era entusiasta, era contenta che finalmente avessimo dato forza e visibilità a una delle opere di suo nonno effettivamente “minori” per così dire. Anche l’articolo uscito su Repubblica elogia la messinscena e il nostro lavoro ma distrugge la partitura musicale; il critico si chiede addirittura perché ci sia bisogno di metter in scena ancora Iris, definita una delle più brutte opere di Mascagni. Secondo me, è un’esagerazione, quando ci lavori dentro la senti tante, tante volte e la apprezzi in modo diverso. Certo ha dei momenti più lenti, più noiosi, però ha dei momenti davvero stupendi, come ad esempio L’inno al sole iniziale.

CF: Avete fatto indubbiamente un lavoro notevole dal punto di vista estetico, la componente visiva e formale viene percepita in maniera molto forte e positiva dallo spettatore, c’è grande suggestione e alcuni momenti sono estremamente poetici…

Una scena dell'Iris progettata da Pier Paolo Bisleri

PPB: L’intelligenza è stata immaginare la storia addirittura come un fumetto, perché in quest’opera così come nella Butterfly, le protagoniste sono delle ragazzine. Le storie nei libretti lirici hanno delle incongruenze incredibili, è difficile per noi pensarle in chiave realistica. Nelle partiture e nei libretti ci sono delle indicazioni a dir poco strane. Quindi abbiamo avuto quest’idea della purezza e innocenza di questa bambina, Iris, attraverso un mondo di fumetti, di giochi, e l’abbiamo portata ai giorni nostri. Nel primo atto solo la statuetta manga di Goku ti dà un’identità d’epoca. Chi ha avuto la fortuna di andare in Giappone, sa che per strada oggi si possono incontrare scenari affini a quelli di un primo atto di Iris quando è stata scritta, proprio perché la gente ancora veste il kimono, va in giro abbigliata in un certo modo, con acconciature come i lottatori di sumo, magari a Sybuja, nel mezzo di Tokyo. Sono gli abiti che si usavano anche quattrocento anni fa, ossia la moda del kimono non è cambiata dal 1600 a oggi, quindi puoi rappresenti la Iris di Mascagni, scritta a fine ‘800, tranquillamente nel Giappone odierno.

L’ambientazione può essere magari fredda, schematica, razionale ma è quella. Il sole, le passerelle nere del teatro kabuki giapponese, il cui nome, letteralmente tradotto significa “sentiero dei fiori”. Iris fiori teatro kabuki, giardino di fiori di lei. Nel primo atto quindi non hai indicazioni precise sull’epoca di riferimento della rappresentazione se non fosse per il suo giocattolo manga messo lì, che ti permette di cambiare l’epoca. Tutto il resto è perfettamente coerente col 1600. La grande principessa della fioritura che scende sul fondo, è un disegno di epoca edo giapponese, 1640-1800, ma i fiori sembrano quelli della pop art americana, i fiori sembrano quelli di Andy Warhol, lo schematismo dei fiori è geometrico, non hanno quelle morbidezze. Pensiamo a che cosa si disegnava in Italia nello stesso periodo. Quindi anche lì il pubblico è spiazzato, non ha riferimenti precisi. Nel secondo atto, si intuisce il periodo storico solo quando parte il video manga che mi ha fatto una ragazzina diciassettenne di Trieste. Ho chiesto in giro e mi è stata proposta questa studentessa della scuola d’arte, Antilena Nikolizas, di orgin greca, bravissima. In questo fumetto manga volevo fare dei riferimenti ai Kill Bill di Tarantino e quando gliene parlavo sentivo che non mi dava risposte, solo poi ho capito che non avendo ancora diciott’anni e non poteva vedere i film vietati ai minori. Invece poi mi ha compreso benissimo e ha fatto un lavoro meraviglioso.

Una scena dell'Iris progettata da Pier Paolo Bisleri

Dopo il video, salgono i fondali e si apre la famosa scena della lap dance, che ovviamente ti porta ad un epoca attuale, dove i personaggi sono vestiti con abiti che citano Arancia Meccanica di Kubrick. Sono tagliati su stoffe giapponesi però trasformate in stile optical art, molto anni Settanta. Sono stoffe particolari della Marimeko, finlandese che ha portato la costumista Giovanna Buzzi ha tagliato sulla forma dei kimono giapponesi ma ispirandosi agli abiti del film. Infatti Osaka appare con un paltò nero, un cappotto reversibile con inserti chiari che è la citazione di Alex, quando vanno nella prima casa a violentare la vecchia signora con la scultura del grande fallo, ecc ecc. Quindi c’è questo riferimento anche alla decadenza, violento, provocatorio, degli anni Settanta, dell’epoca di Kubrick. Tutto il coro che canta nello Yoshiwara, nel bordello giapponese con le due ballerine, sono vestiti con le bombette, con i parapalle e citano appunto Arancia Meccanica.

Il terzo atto rappresenta la poesia assoluta, c’è un altro ribaltamento temporale, siamo nella discarica, è buio e appaiono le anime nere, i tre personaggi che hanno portato alla morte di Iris e devono espiare le proprie colpe, così lei può rigenerarsi e rinasce in un fiore che porta il suo nome. Solo alla fine quando appaiono questi strani personaggi tra questi ciliegi scolpiti, come fossero un fumetto scultoreo per il quale ho preso ispirazione da una scena finale molto bella del film The Cell, in un deserto di sabbia. Alla fine scende l’ultimo tulle con questo grande profilo di Iris manga che chiude l’opera in poesia, quindi c’è non solo questo continuo gioco di immagini ma anche una coerenza nel portare avanti quest’ambiguità d’epoca. Come avviene in Giappone così in India, dove c’è il sari o i vestiti da uomo che si usavano anche due-trecento anni fa, quindi se tu non li vedessi accanto ad una motocicletta o ad un grattacielo di Bombay, non potresti contestualizzarli in una determinata epoca.

Una scena dell'Iris progettata da Pier Paolo Bisleri

CF: Abbiamo parlato del passato, del presente, di questa Norma che si farà, ma, nel futuro, c’è un progetto che si augurerebbe di poter portare avanti?

PPB: Nel teatro si dice sempre che non bisogna parlare di progetti futuri perché porta sfortuna! Negli ultimi anni personalmente, ho imparato a non partire mai per la tangente quando ti dicono che qualcosa si farà perché poi uno si fa prendere, parte con la fantasia, s’innamora e se non lo puoi più fare ci soffri. Però ad esempio la scenografia di un Mercante di Venezia di Shakespeare, per esempio, mi piacerebbe nella prosa. Nella lirica, invece, mi piacerebbe rifare Parcel oppure il teatro barocco. Abbiamo fatto Didone e Enea e ci sono tante cose da inventare. È più facile affrontare dei testi poco noti dove far viaggiare la fantasia, cosa più difficile se fai un Rigoletto, una Norma, una Traviata, un’Aida. Ecco, questi sono proprio quel tipo di testi che dovrei aver il coraggio di rifiutare, di rendermi conto che non fanno più per me.

Si ringrazia l’ufficio stampa del Teatro Verdi di Trieste per la cortese disponibilità

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