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Scrittura

Emiliano Gucci

Un’inquilina particolare

Sulle sponde della diversità

Copertina del libro Un'inquilina particolare di Emiliano GucciDopo Donne e topi e Sto da cani, è uscito nelle librerie il nuovo romanzo del fiorentino Emiliano Gucci: Un’inquilina particolare. Non solo l’inquilina, ma anche il tema trattato è di quelli tosti, rischiosi, da prendere con le molle: la transessualità, per di più legata a fattacci di piccola malavita. Il protagonista è nato Salvatore, ma ha successivamente deciso di cambiarsi il nome in Lù. Insieme al nome, ovviamente, sono cambiate la sua identità, la sua vita e in parte il suo corpo. Fisico da giocatore di rugby e indole facilmente “infiammabile”, Lù si ritrova a dover dividere due stanze con Giovanni, che sembra la sua copia in negativo: piccolo, timido, ordinario, fuori da qualsiasi giro losco. Eppure i due, apparentemente così diversi e distanti, inizieranno pian piano a conoscersi, a volersi bene e a condividere molto più di qualche metro quadrato di casa.

Simone Piazzesi (SP): Nel tuo ultimo libro tratti un tema molto delicato e particolare. Da dove è nato lo spunto per parlare delle problematiche legate alla transessualità?

Emiliano Gucci (EG): In realtà l’idea iniziale era solo quella di raccontare un incontro tra due persone molto diverse tra loro, almeno in apparenza: Giovanni, un ometto normale, modesto impiegato di provincia, abitudinario e insoddisfatto come ne conosco tanti, e Lù, che appunto è una transessuale con un trascorso molto duro fatto di tante difficoltà e sofferenze legate al suo percorso di transizione, che ha toccato l’illegalità, la prostituzione, la galera eccetera. Ecco, diciamo che indagare sul suo passato, e quindi sulle problematiche legate al mondo transessuale, è stata piuttosto un’esigenza per “scoprire” Lù e poterla raccontare correttamente.

SP: Un tuo racconto compare in una raccolta di Fernandel, La vita addosso , che tratta appunto di storie vere legate anche a vicende di transessuali. Ti ha influenzato questa esperienza nel preparare Un’inquilina particolare?

EG: Se ricordo bene la prima stesura di Un’inquilina particolare è della primavera 2005, comunque è di certo precedente all’incontro con il Ce.I.S. e al libro di cui parli. Tra l’altro quell’esperienza, molto bella, forte, prese poi forma con un laboratorio individuale, in cui cioè ogni autore lavorava singolarmente con uno dei ragazzi ospiti delle comunità, e non ebbi modo di conoscere direttamente persone transessuali. Però ti ringrazio di aver ricordato La vita addosso, a prescindere dall’utilità del progetto credo che ne sia uscito un bel libro, che ha avuto meno diffusione di ciò che meritava.

SP: Per chi non conosce quel mondo, il tuo libro è molto utile per far capire quali possono essere i dolori, le frustrazioni, le sofferenze di chi si trova a vivere con un corpo che non sente suo. Pensi che il tuo lavoro possa essere utile nella battaglia contro pregiudizi ancora molto radicati nella mente della gente comune?

EG: Adesso sì, un po’ lo spero, ma solo adesso, a lavoro compiuto, scrivendo non ho avevo certo intenzioni tanto pretenziose. Come al solito volevo raccontare una storia e far parlare i personaggi, con il loro passato appunto, il loro bagaglio e quindi la loro dignità. Forse proprio nell’aver trattato normalmente un soggetto così diverso, così al margine come è Lù, sta la chiave per poterla sentire più vicina, e in certi aspetti molto simile a chi legge. Nel dolore, credo, siamo molto simili, e anche nelle sofferenze dell’amore, in molte battaglie della vita tutta. “L’amore diverso rende uguali” ha titolato un giornale rispetto a questo libro. Ecco, io ci credo molto a questa cosa. Rispetto alla frustrazione di abitare un corpo alieno, non “in sintonia con l’anima” come direbbe Lù, leggendo testimonianze transessuali ho trovato certe analogie con disagi minori, più piccoli, che credo tutti prima o poi abbiamo vissuto. A chi non è successo di vedere nello specchio una pancia, un naso, un corpo che non ha mai sentito suo? Prendi Giovanni, per esempio, il co-protagonista, che soffre di psoriasi. Confrontandosi con Lù, con il suo disagio fisico, rifletterà anche sul proprio, su come lo ha affrontato fino ad oggi, e incontrerà delle sorprese.

SP: Come è stato accolto il tuo libro nella comunità trans-gender? Hai già avuto commenti in merito?

Emiliano Gucci

EG: Non ho avuto contatti né risposte dirette, questo no, ma ho visto che è stato segnalato in alcuni siti Internet, so che è stato richiesto da riviste vicine all’ambiente e ad alcune persone l’ho fatto inviare io, direttamente. Spero bene, se non altro che esca forte e chiaro il mio rispetto e la mia lealtà nell’approcciare argomenti che talvolta sono lontani dalle mie conoscenze. C’è un altro rischio che ho corso, scrivendo: quello di raccontare Lù in modo stereotipato e banale, la trans che batte il marciapiede e che si droga eccetera, come purtroppo, però, capita a molti transessuali. Avessi scelto una intellettuale inserita e sorprendentemente pulita, che so, o una trans operaia sposata con un uomo che la ama, forse sarebbe stato più facile accattivarsi le simpatie di chi non ne può più di certe semplificazioni. Però sta anche qua la mia sfida: non semplificare, andare oltre, scavare la buccia e scoprire l’anima di Lù. Far avvicinare, capire e voler bene proprio a una come lei.

SP: Una curiosità: il protagonista si chiama Salvatore, ma il suo nome “acquisito” è Lù. Il libro non dice l’origine di questo strano nome, ma la curiosità nel lettore rimane. Lo hai inventato di sana pianta tu o ha una sua “ragione”?

EG: Lù si è scelta un nome nuovo che non sia una correzione del vecchio, né un’abbreviazione, un adeguamento. Si è piuttosto trovata un suono, una sigla che le piaccia e che non le ricordi affatto di essere quel Salvatore là, quella persona che lei non è più. Tutto qui, almeno che io sappia.

SP: Dopo i primi due romanzi con Lain-Fazi, sei passato a Guanda. Una sorta di “salto di qualità”. Puoi raccontarci qualcosa di questo passaggio?

EG: Con Guanda avevo pubblicato due racconti in delle antologie curate da Marco Vichi, Città in nero e Delitti in provincia, che per fortuna sono piaciuti molto. Quando ho avuto questo libro pronto, lo hanno letto ed eccoci qua. Sì, sono molto contento di questo passaggio, per svariati motivi. Tra l’altro Simone Caltabellota, l’anima di Lain nel periodo in cui sono usciti i miei romanzi, cioè la persona che li ha voluti e curati, adesso non lavora più per Fazi, e con lui si è un po’ sfaldato il gruppo che mi seguiva. Siamo rimasti in contatto, questo sì, anzi siamo amici.

SP: In questo romanzo torni alla prima persona, ma ho apprezzato il fatto che il libro sia il meno autobiografico dei tre che hai scritto. Anzi, questo forse è totalmente “altro” da te. Non è mai facile staccarsi dal proprio vissuto, quindi la considero un’evoluzione importante. Tu come la pensi?

EG: Che ogni romanzo faccia storia per conto suo. Rimanere vicino alle tematiche che più si conoscono, che fanno parte della propria realtà, che siano autobiografiche o meno, è certo più facile e in questo senso sì, stavolta ho sentito l’esigenza di allontanarmi un po’. Non escludo però di tornare a parlare di faccende a me più vicine, più simili alle mie. Non so che storia aggancerò domani, m’incuriosiscono cose molto diverse tra loro, trovo che ognuna abbia la sua forza, la sua dignità, e credo che ogni singola voce possa in realtà raccontare di molte esistenze, toccare persone lontane anche se parte da qui, dall’orto di casa mia.

SP: C’è una novità anche nella struttura narrativa. Stavolta usi due punti di vista diversi, che poi alla fine si danno un rapido botta e risposta epistolare. Da dove è nata questa idea, o ti sei ispirato a qualche autore che l’aveva già usata?

EG: È venuto scrivendo, da sé, e poi correggendo ho solo aggiustato il tiro, i toni delle due voci. A un certo punto diventava necessario dare voce a Lù, ai suoi occhi e alla sua testa, perché da lì in poi sarebbe stata lei ad accompagnarci nel suo mondo, nel suo passato. Fino a quel momento era come ospite, intrusa nella quotidianità di Giovanni, nella seconda parte le posizioni si ribaltano.

SP: Sei molto bravo nel tratteggiare in pochi schizzi efficaci i volti e le caratteristiche dei vari personaggi. Forse in questo ti aiuta il tuo passato da fumettista?

EG: Chi può dirlo, magari sì. Di certo apprezzo e ricerco la sintesi, anche in questo ambito. Cerco di affidare a pochi tratti il compito di disegnare una persona intera, e voglio che il ritratto sia netto ma allo stesso tempo interpretabile, soggettivo. È importante che il lettore ne afferri un’idea, magari riconducendo a individui simili che conosce, aggiungendo altri tratti da sé, mettendo a fuoco come più preferisce, come gli viene. Non importa che la sua Lù sia in ogni particolare identica a quella che vedo io, l’importante è che sia vera, credibile e presente nella sua anima. L’importante è sentirla per quello che è, ecco, non visualizzarne ogni singolo dettaglio.

SP: Nella pagina dei ringraziamenti accenni al fatto che il libro all’inizio “si chiamava in altro modo e passava da strade diverse”. Si può sapere il primo titolo e come sono cambiate le strade da cui passava? Giusto per curiosità filologica.

EG: Il primo titolo per questo romanzo era Di cotte e di crude, ma non mi ha mai convinto fino in fondo. Il romanzo era più lungo, ma anche più povero, specie il carattere di Lù credo che adesso esca molto meglio. La struttura di base era più o meno la stessa, ho lavorato soprattutto per differenziare i toni tra le due voci narranti, non tanto nella lingua quanto nel carattere, appunto, nella diversa maniera di approcciare i fatti, e pure i dialoghi che hanno Giovanni e Lù. Comunque, per le eventuali curiosità filologiche, tendo a conservare ogni versione di ogni mio romanzo…

SP: Hai pubblicato molti racconti in antologie e riviste. Non pensi di raccoglierli in un unico volume? O hai già in cantiere un nuovo romanzo?

EG: Un romanzo nuovo è già abbozzato, come no, resta da capire che strada prenderà, adesso è bene che decanti un po’ e poi dovrò rivederlo con più distacco, tra qualche tempo. I racconti in effetti cominciano a essere un bel mucchietto, tra editi e inediti, e a me non dispiacerebbe radunarli in un unico libro, prima o poi. Non credo che succederà presto, l’editoria guarda sempre con sospetto alle raccolte di racconti, e anche il pubblico, ahimè, e poi resta il fatto che molti di quei racconti sono già acquisiti da editori diversi, per diversi anni.

SP: Ti trovi più a tuo agio nella forma-racconto o nella forma-romanzo? E che differenze trovi (a livello di impegno che richiedono e di piacere nello scrivere) fra l’una e l’altra?

Emiliano GucciEG: Mi diverto, quando scrivo, sempre, che sia un racconto, un romanzo, un articolo per il giornale, una e-mail, qualsiasi cosa, pure la lista della spesa. Una delle differenze che percepisco, adesso, dopo aver scritto un bel po’ di cose brevi, racconti e articoli “su misura”, è che quando mi ritrovo a farlo so fin dall’inizio quale passo prendere, come partire per rientrare in un certo numero di caratteri, e ti assicuro che ormai sbaglio di poco. È come dosare le energie durante una camminata, o una corsa, quando sai prima di partire che saranno cento metri piuttosto che tre chilometri, e sai di poter sparare tutto lì, di dover dare il massimo. Questo, in teoria, quando scrivi un romanzo non succede, ovvio, hai la percezione della libertà totale, di poter camminare e faticare e godere quanto diavolo ti pare anche se poi non è vero: ogni storia, ogni passaggio, merita ed esige il suo spazio, la sua lunghezza, e alla fine i conti devono tornare. C’è una verità, una quadratura che prescinde dalla volontà dell’autore anche nell’economia di un romanzo, nei suoi equilibri interni. Ne va del rapporto con i lettori, della vita stessa di ciò che si scrive. A dirle così queste sembrano tutte gabbie, costrizioni, ma non è così, anzi: possono e devono diventare trampolini di lancio, strumenti di libertà, che come diceva Gaber — e senti un po’ come mi gioco la prima e unica citazione dell’intervista — non è star sopra un albero e non è neanche il volo di un moscone, ma partecipazione, appunto, condivisione. E così è la scrittura. Un romanzo è di chi lo legge, soprattutto, e di certo chi lo scrive non può farne ciò che gli pare.

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