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Cinema

Audrius Stonys

Senza finzione alcuna

Audrius StonysFiglio d’arte, classe 1966, legato all’esperienza del Kinema, il collettivo di cineasti indipendenti nato in Lituania alla fine degli anni ‘80, dei suoi film Audrius Stonys è sia regista che produttore. L’occasione per conoscerlo è arrivata al NodoDocFest, Festival Internazionale del Documentario , dove è stato protagonista di una sezione a lui interamente dedicata, che lo ha premiato per aver portato avanti nella sua filmografia una grande libertà di espressione. “Conversazioni intime con spiriti affini”, questo il titolo della rassegna a cura di Manuela Buono e Giordano De Luca, ha presentato sei film della sua produzione, tra cui Earth of the Blind, Antigravitation, Harbour, Alone, fino al più recente Uku Ukai del 2006.

Si tratta di opere brevi, la cui durata oscilla tra i dieci e i trenta minuti, caratterizzate dall’assenza del parlato. Di estrema importanza è la scelta dell’ambientazione: dall’ospizio di Harbour alle palestre di Uku Ukai, attraverso la cronaca di una visita al carcere femminile di Alone, i film di Stonys esprimono il disagio della società contemporanea, dove gli individui più deboli, dai bambini agli anziani, appaiono reclusi nel ‘loro’ mondo, le loro abitazioni, le loro case, quasi per proteggersi di fronte all’avanzare di una realtà esterna sempre più aggressiva e tecnocrate. Come accade in Harbour, intenso documentario che, a partire dall’osservazione di un gruppo di pazienti e della loro vita all’interno di un sanatorio, si allarga ad una più ampia riflessione sulla presenza dei limiti e confini che ancora oggi condizionano la vita dell’uomo e minacciano la sua libertà.

In altri film, ad esempio negli occhi di una bambina in Alone, oppure nell’immagine di una vecchietta che in Antigravitation s’arrampica sulla cima di un campanile, un’unica voce sembra levarsi più forte di tutte. È quasi un grido che, con urgenza, chiede un segno di speranza per un ‘nuovo’ mondo, senza più tanti confini e divisioni, e per ‘nuove’ immagini in grado di rappresentarlo.

Sarah Gherbitz (SG): Pur appartenendo al cinema del reale, i suoi film sono attraversati da una forte componente irrazionale, onirica. Non sono due aspetti un po’ in contrasto?

Audrius Stonys (AS): Credo che al cinema il sogno e la realtà siano sempre uniti, cosicché è sempre molto difficile operare una netta distinzione tra le due cose. Penso che nessuno sia in grado di dire che cos’è esattamente la realtà e quanto sia distante dal sogno. La nostra illusione più grande è quello di cercare di trovare una forma di realtà oggettiva quando in realtà non c’è: la realtà oggettiva non esiste.

Il regista Audrius Stonys, intervistao per Fucine Mute al  Nododoc Festival Internazionale del documentario

SG: Forse anche per questo, guardando i suoi lavori, l’impressione è che non si riesca a comunicare, alla fine siamo soli…

AS: Sì, la solitudine, tema principale dei miei film precedenti, è qualcosa che ci portiamo dentro fin dal giorno della nostra nascita al momento della morte. È qualcosa da cui non si scappa, per questo diventa molto importante trovare un modo per riuscire a conviverci: di fatto nasciamo soli, moriamo soli.

In questo momento però sono anche molto preso dal concetto del tempo, m’interessa il modo in cui il tempo agisce su di noi, sui nostri corpi, sulla storia, su come le tradizioni e i ricordi cambino nel tempo, che così diventa un soggetto interessante anche per il cinema.

SG: Qual è il ruolo della musica?

AS: Nei miei film la musica è importantissima: il tempo che impiego per le riprese di un film e quello che dedico alla colonna sonora si equivalgono. Direi che il suono è importante quanto ciò che si vede. Anche la musica è molto importante, ma resta pur sempre uno fra i tanti elementi di un film. Non m’interessa che la musica prenda il sopravvento su ciò che si vede e diventi l’elemento centrale del film, oppure che faccia da commento per caricare l’immagine di un ulteriore significato. Quello che m’interessa è che il suono, la musica e l’immagine, tutti questi tre elementi, funzionino e lavorino insieme, questo è quello che intendo quando parlo di comunicazione tra questi tre media.

Nei miei film ho cambiato spesso operatori, ho girato in diversi studios, ma ho sempre lavorato con un solo direttore musicale, Viktoras Juzonis: perché riusciamo a capirci con mezza parola. Lui è una delle persone più importanti nel mio lavoro!

SG: Ritornando alla solitudine, Alone ci mostra un altro tema a lei caro, cioè la solitudine dell’infanzia, così come viene vissuta dai bambini. Com’è nata l’idea di questo film?

AS: Ho girato Alone otto anni fa, in quel momento volevo girare senza far sentire l’intervento del regista, non volevo che la regia cambiasse qualcosa: in questo senso lo definirei un vero documentario. M’interessava semplicemente seguire la visita della bambina alla madre in prigione e seguirla anche nel ritorno. Sapevo in quale situazione si trovava perché mio padre per un periodo aveva lavorato con i bambini, li accompagnava a trovare i genitori in carcere e poi li riportava a casa. Alcune volte l’ho seguito e capivo che ogni volta c’era una storia differente alle spalle.

Nel momento in cui decisi d’incominciare a girare Alone, non sapevo ancora che cosa ne sarebbe uscito, come la bambina avrebbe reagito messa di fronte alla macchina da presa e come si sarebbe comportata durante il viaggio. Tutto il film è stato girato nell’arco di un giorno. Dopo tre mesi la madre venne rilasciata e si incontrarono soltanto per un quarto d’ora: lo avevo intuito, così lo intitolai Alone, in qualche modo significava che avevo visto giusto, che la solitudine di questa bambina era scritta nel suo destino.

Immagine tratta da Alone del regista Audrius Stonys, film in concorso al  Nododoc Festival Internazionale del documentario

SG: Più volte ha dichiarato apertamente il suo riconoscimento verso due grandi cineasti, Andrei Tarkovskij e Sergej Paradjanov, in qualche modo entrambi ‘irriducibili’ ad una precisa categorizzazione, che di fronte all’ostilità delle autorità sovietiche e alla minaccia della censura si trovarono costretti ad iniziare una nuova vita in occidente. In quale misura l’hanno influenzata?

AS: Ho sempre riconosciuto le influenze, non credo sia possibile essere assolutamente ‘unici al mondo’, perché quando leggiamo, guardiamo un film, o ascoltiamo musica, tutti questi elementi finiscono con l’influenzarci, anche nel nostro modo di recepire quello che stiamo vivendo. Nel mio caso, i film che mi hanno colpito di più, che all’inizio sono stati per me lo stimolo più forte, sono quelli di Andrei Tarkovskij, Sergej Paradjanov e Werner Herzog: tutti loro sono stati dei registi formidabili, e questo è al tempo stesso il motivo per cui non è possibile limitarsi a rifare i loro film. Non credo esistano film più belli di quelli di Tarkovskij, è come se ogni volta sentissi la sua ombra, il fantasma del suo cinema, e così la sua influenza c’è sia nei contenuti sia nella scelta del linguaggio. Comunque a questi tre nomi aggiungerei anche quelli di Ingmar Bergman e Bela Tarr, mi è davvero difficile citarli tutti quanti!

SG: Cosa le è rimasto dell’esperienza come attore nel film Three Days di Sarunas Bartas?

AS: È stata la più brutta esperienza della mia vita! (ride, nda). I miei genitori erano attori ma ho sempre odiato questo mestiere… Gli attori mi fanno pena, e mi dispiace per loro che devono stare alle dipendenze del regista, è davvero una faticaccia!

SG: Quindi non reciterà mai più…

AS: No, non reciterò più, e se qualcuno me lo propone, rifiuto! (ride, nda).

SG: Quali sono le difficoltà oggi nel fare cinema in Lituania?

AS: Premesso che in ogni paese fare film significa combattere per quello che è un diritto, perché questo dev’essere un diritto, posso dire che oggi la situazione produttiva in Lituania non è poi così male. Naturalmente dobbiamo sempre lottare per ottenere maggiori finanziamenti, ma allo stesso tempo dobbiamo ancora capire che il cinema, e in particolare il cinema documentario, è una priorità, e che il linguaggio cinematografico va protetto. Inoltre, bisogna dire che nel mio paese il cinema viene visto come qualcosa di legato all’arte: un film non viene ancora considerato come un prodotto commerciale. Così siamo nella situazione privilegiata di girare come vogliamo, siamo liberi di esprimere le cose come le vediamo, non abbiamo bisogno di pensare a quello che potrebbe succedere se non incassiamo. Certo, ci sono ancora un sacco di registi che si lamentano, non è una novità, però io ci vivo: e non credo siano poi così tanti i registi che oggi riescono a vivere con il documentario.

SG: Prossimi progetti? Ha mai pensato di girare un film di pura finzione?

Il regista Audrius Stonys, intervistao per Fucine Mute al  Nododoc Festival Internazionale del documentario

AS: Non posso parlare del mio prossimo progetto perché sono molto superstizioso! (ride, nda). Naturalmente il progetto c’è, anzi, non è soltanto un progetto, è già un film, mi manca una sola settimana per riunire un po’ le cose… forse potrei dire il titolo: Four steps. Ecco, ora basta, di più non posso dire (sorride, nda).

In effetti sono in molti a chiedermi quando farò un film di pura finzione. Il fatto è che m’interessa di più il genere documentario, decisamente di più. È proprio il processo di lavoro del documentario che è più interessante perché ti consente di lavorare con maggior libertà, sia nella fase d’inizio delle riprese che alla fine vera e propria. Non è come nel film, che ti ritrovi ‘incastrato’ dalla sceneggiatura, bisogna scendere a patti col produttore, e via dicendo: meglio i documentari, meglio la libertà.

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