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Scrittura

Carmen Lasorella

Verde e Zafferano

Una giornalista senza trucco

Copertina del libro Verde e Zafferano, a voce alta per la Birmania scritto dalla giornalista Carmen LasorellaCarmen Lasorella non ha certo bisogno di presentazioni. Nell’ambito del giornalismo nostrano, se ne distacca come figura seria e preparata, e forse proprio per questo, paradossalmente scomoda. In occasione della presentazione del suo ultimo lavoro, Verde e Zafferanoa voce alta per la Birmania, avvenuta a Pordenone il 27 maggio scorso, su invito dell’Associazione culturale di Via Montereale, siamo riusciti a intervistarla, approfondendo con lei sia i temi trattati nel suo libro, sia quelli più generali del giornalismo.

Anticipo per Chartacea alla recensione che calibreremo, nel prossimo numero di Fucine Mute, sul lavoro di quei giornalisti ancora fedeli a un senso etico della notizia più vicina possibile al vero (Verde e Zafferano si intreccerà con il Bilal di Fabrizio Gatti, recente vincitore del premio Terzani, e i primi Fantasmi — dispacci dalla Cambogia di Tiziano Terzani), nell’intervista che proponiamo, Carmen Lasorella fa scuola di giornalismo rivelando, senza trucco, interessanti retroscena di una sua recente traiettoria, che mette a nudo le iperealtà proprie del “piccolo” schermo.

PGM: Abbiamo l’enorme piacere di avere una donna e giornalista di notevole spessore, finalmente in rete.

CL: Sono un’amante della rete e, tra l’altro, ritengo che il giornalismo debba essere multimediale. I giornalisti devono un po’ rivisitare quello che è il loro modo di fare questo mestiere, perché oggi, fermo restando che bisogna sempre continuare a viverlo come un momento d’esperienza e di testimonianza, vi sono mille opportunità, mille fonti, mille voci, mille occhi che attraversano la blogosfera. Va detto che sarebbe ed è assolutamente stupido non utilizzarle, anche perché in tantissime circostanze, vedi i casi recenti legati per esempio al Tibet, piuttosto che alla Birmania di cui parlo nel mio libro, se non ci fossero stati gli occhi e le voci della blogosfera, noi non avremmo avuto il senso di quei momenti terribili che si sono vissuti lì nello scorso autunno. E invece hanno trovato forza, hanno coinvolto il mondo, costringendo le cancellerie ad intervenire, proprio perché c’erano state quelle testimonianze legate agli occhi, e alle immagini che avevano fatto il giro del pianeta, dando il senso di ciò che volesse dire il No a un regime.

PGM: Partiamo dalla fine del libro. Ce lo racconterà lei cos’è questo libro, nella speranza che la situazione della Birmania divenga nota a tutti: quarant’anni di regime militare che stanno soffocando uno dei paesi e uno dei popoli più sereni e cordiali al mondo. Il finale del libro, dicevo, mi ha colpito molto. In un passo della postfazione, scritta da Emma Bonino, l’onorevole ha colto perfettamente l’intreccio tra un lavoro di giornalismo molto accurato, il viaggio, e il rapporto tra due donne. Perché se è vero che il premio Nobel per la pace Suu Kyi è la protagonista principale del suo libro, è altrettanto vero che Carmen Lasorella gli dà un’impronta, offrendo di sé l’immagine di una giornalista seria, che dovrebbe essere valutata più di quello che a mio modesto parere è valutata.

CL: Non possiamo mai dare le cose per scontate. Voglio dire che questo libro, per certi versi, è anche un libro di servizio. Nel senso che l’ho inteso come un dovere da parte mia, avendo avuto la straordinaria opportunità d’incontrare Suu Kyi, una donna che da diciotto anni è agli arresti domiciliari, e quindi praticamente irraggiungibile, chiusa com’è dai muri di pietra della dittatura. Io sono riuscita a superarli, e allora, quando ci sono state le marce dello scorso autunno, ho sentito quello che credo di poter definire un dovere civico. Avendo avuto questa grande opportunità d’incontro e di conoscenza di quel paese, e alla luce delle moltissime informazioni recepite come troppo frammentarie, superficiali, che non davano il segno di quello che stava capitando, e soprattutto non lo contestualizzavano in maniera adeguata, ho sentito la necessità di fare questo lavoro.

Ed è stato fatto, anche perché, nel nostro incontro avvenuto dieci anni fa, un incontro rubato ma lunghissimo, lei ad un certo punto mi ha detto: parlane! Parlane ogni volta che puoi! E quale migliore occasione, davanti a questa protesta, di riprendere in mano queste carte, questi appunti, questa lunghissima intervista — che naturalmente era andata in onda in minima parte, per i tempi televisivi — e purtroppo trovarla drammaticamente attuale, come se dieci anni non fossero trascorsi, con il segno di una dittatura rimasta lì a chiudere fuori il mondo, escludendo il paese dal processo che stiamo vivendo tutti.

Carmen Lasorella fotografata da Giulio Donini

Il libro è nato per questo motivo, ed è sicuramente un’operazione che ha mischiato tante cose, perché io l’ho attualizzata giustamente, per spiegare quello che stava capitando, però, ho voluto anche ritornare alle atmosfere, a quello che è stato un vissuto, proprio perché la testimonianza, torno a dire, è importante. Quindi mi sono avvalsa degli occhi e delle voci della rete, ho usato tantissimo internet, altrimenti non avrei potuto entrare nei meandri. Naturalmente ho fatto anche un lavoro bibliografico: ho cercato tutto quello che potevo sull’argomento — purtroppo — bibliografia prettamente in lingua inglese. Non c’era quasi nient’altro, se non testi in lingua inglese. Ho cercato in questo modo d’offrire, su un argomento di cui veramente si sa poco — e purtroppo l’ignoranza è nemica dell’attenzione e della condivisione —, delle chiavi di lettura in una maniera molto semplice, accessibile, perché questo non deve essere un discorso per specialisti. Nel momento in cui si ha attenzione alla causa democratica di un paese, si ha poi dentro di sé un’attenzione maggiore alla propria democrazia e, secondo me, c’è sempre bisogno di difenderla, in ogni occasione.

PGM: La Bonino dice che il suo libro è una lettura di fatti birmani, una riflessione sul mestiere di un inviato, e il racconto di un incontro. Mi hanno colpito le date, delle quali lei in parte ha appena parlato: 1998, 2007, e una chiusura nel 2008. Mi piacerebbe che ci raccontasse l’idea di questo lavoro, nata probabilmente senza pensare ad un libro, la genesi e il percorso di questa sorta di viaggio.

CL: Diciamo che il libro è nato in una sera di pioggia, perché poi c’è sempre un momento casuale in cui le cose accadono, no? Era una brutta serata di pioggia e avevo avuto uno scambio telefonico banale con una persona che non sapeva niente. Ero abbastanza urtata, allora…

In un momento come quello attuale, in cui noi giornalisti siamo pressati dalla fretta e tutto accade velocemente, paradossalmente, invece, il libro dà quegli spazi e quella condizione di libertà che altri strumenti danno sempre di meno. Il libro è un momento in cui ti metti lì, con tutto quello che riesci a raccogliere, con la tua conoscenza, con la tua umanità, con la tua sensibilità e cerchi di costruire un percorso. Quindi, ripeto, in me è nato questo desiderio di scrivere il libro, che stava maturando perché ero stata testimone di alcune immagini passate davanti alla televisione, e avevo visto, appunto, quanto su quel dettaglio bisognasse invece raccontare ed entrare. Avevo una tale rabbia perché non stavo lavorando; mi sarebbe piaciuto essere testimone d’una maggiore attenzione che non c’era. E allora, siccome Elisabetta Sgarbi mi chiedeva da tempo perché non scrivessi qualcosa per loro ed era passato parecchio tempo da quando me lo aveva chiesto, in quella sera di pioggia, in uno stato d’animo abbastanza contrariato e dopo aver visto quelle immagini, l’ho chiamata. Le ho chiesto se le interessava qualcosa sulla Birmania e lei mi ha risposto: Va bene! Quando me la dai? Dico, come quando te la do? Erano i primi di ottobre. Ce la fai per Natale?

Per Natale la vedo un po’ dura, anche perché non è che voglia fare un Istant-Book, o un libro intervista. Vorrei tentare qualcosa di più. Una riflessione, quindi, un percorso tra presente e passato, proiettandolo, naturalmente, su quelle che poi possono essere scenari, visioni…

E allora — se è vero che sono abbastanza rapida, perché il mio mestiere mi ha insegnato ad essere molto veloce, ed ho, tra l’altro, un’abitudine al lavoro per cui soltanto quando ho il mal di schiena mi rendo conto che sono rimasta seduta dieci o dodici ore e non me ne sono accorta — non ho mangiato, non sono andata in bagno… sono stata lì dodici ore! Mi son detta: anche se corro non ce la faccio, perché avrei dovuto consegnarlo a novembre. Eravamo ai primi di ottobre. Diventava un massacro e un’operazione poco seria. Quindi mi sono presa un po’ più di tempo, ma non molto, perché devo dire che questo libro è venuto via come una cosa in piena. Ho lavorato quasi diciotto ore al giorno, e l’ho scritto in due mesi.

Carmen Lasorella intervistata da Paolo Ghiotto Marin

PGM: Lo stile è molto asciutto, si vede la mano del giornalista esperto, nel senso che sa essere sintetico, frammisto di segnalazioni tratte da internet. Mi sono piaciuti i capoversi…

CL: Sì, sì, venivano dati come fonte, volendo dare l’oggettività di una fonte certa. Quello che io ho scritto si può andare utilmente a ritrovare, non sono quindi cose modificate o artefatte; anche perché l’enfasi dinnanzi a una cronaca così forte e così urgente, ma questo vale sempre, è assolutamente fuori misura, è stonata!

Penso che l’enfasi non debba proprio far parte del corredo di un giornalista, e quando si scrive un libro, a maggior ragione, perché su un libro fa premio la costruzione, sul libro c’è un potere evocativo, c’è il gusto della sosta, di potersi fermare da qualche parte e indugiare, con dettagli, con andate e ritorni, con personaggi; ha un tempo diverso, ovviamente, però, e lo torno a ripetere, in una condizione di estrema libertà.

Carmen Lasorella fotografata da Giulio Donini

Noi giornalisti, oramai, siamo vincolati da tante cose, dagli spazi, dai desideri a volte, dalle imposizioni degli editor, intesi come direttori di giornale, di quotidiano o foglio che sia, mentre invece in un libro c’è veramente una condizione di libertà. Credo, quindi, che sicuramente la vive chi lo scrive, ma può viverla meglio anche chi lo legge, perché in un racconto, specie su quelli che sono libri molto legati all’attualità, e quindi anche con uno scrupolo di correttezza delle notizie, può trovare utilmente delle letture che altrimenti sfuggono di fronte all’urgenza, alla frenesia e alla corsa.

PGM: In effetti c’è atemporalità in questo libro: il lettore si ritrova in una dimensione che è senza tempo, perché c’è la testimonianza diretta, c’è l’esposizione dei dati… ma quello che trovo meraviglioso è la grande sensibilità femminile. Non può che colpire questo parlarsi allo specchio tra lei e Suu Kyi. In questo contesto l’intervista si suddivide in tre parti…

CL: Anche più di tre, perché sono diversi i momenti, e ho scelto di intervallarla proprio perché l’idea non era assolutamente quella di un libro intervista. Ho voluto che una serie di temi si alternassero alla nostra conversazione — in parte registrata in un intervista televisiva, peraltro non andata tutta in onda a suo tempo — ma in gran parte, anzi la più parte, è stato un incontro, una chiacchierata, anche con alcuni momenti di confidenza che nel libro non ci sono perché erano momenti privati, e quindi non ho ritenuto corretto inserirli. Io ho soltanto riportato; ho un testo sbobbinato dal quale si può verificare la precisa corrispondenza di quanto lei ha dichiarato a quello che viene scritto nel libro.

Credo che questo sia proprio uno scrupolo legato all’opportunità del nostro mestiere, e io l’ho avuta, di fare scuola, e quindi in qualche modo di capire come lo si fa rispettandone le regole, di modo che, se quello è il suo pensiero, dev’essere quello, io non lo posso modificare affatto. Da parte mia è doveroso rispettare non soltanto il suo pensiero, ma anche il suo modo di comunicare; se quella frase io sarei portata magari a pronunciarla in un’altra maniera, sono fatti miei. Lei comunica in quel modo, e quindi il mio scrupolo dev’essere quello di rispettare l’interlocutore, quindi, da questo punto di vista non c’è stata nessuna operazione. L’operazione che, invece, ho fatto è stata quella di vivere continuamente questo lavoro tra un tempo presente e un tempo passato, come se in quel momento io stessi condividendo con i lettori quello che capitava. Era come se io dessi, seduta a fianco a uno davanti a un monitor o davanti a uno schermo, delle chiavi per dire ecco stai vedendo questo, ma lo sai perché è così?

Forse ha giocato molto anche la mia abitudine a un mestiere divulgativo, e quindi la necessità di non dare niente per scontato. Senza porsi in una posizione né didascalica né dogmatica, ma in una posizione anche molto umile perché, a mia volta, tante cose non le sapevo, e quindi le ho studiate. Ho studiato molto per scrivere questo libro perché non si è tuttologi. D’altra parte, io sono una persona che non si è dedicata nella sua vita — a vita — alla Birmania, e quindi quello che non sapevo sono andata a studiarlo su tanti testi, ho fatto verifiche incrociate perché credo che in un libro sia doveroso tentare di dire meno sciocchezze possibile e, possibilmente, di non dirle affatto.

PGM: È vero che l’intervista è suddivisa in più parti, però nelle prima spicca una fase che oserei definire dell’approccio, nel senso di un “prima del conoscere”, con tutti i dubbi, con tutte le ansie, con la voglia di studiare un approccio corretto a una persona estremamente valorosa…

CL: Valorosa, e soprattutto una persona obbligata per tanti anni alla prigione, per tanti anni in una condizione di libertà negata. Non è facile, trovare un linguaggio, esente dalle retoriche, dalle cose inutili che fanno perdere tempo, o che magari allontanano l’interlocutore perché non trova la sintonia, e quindi io ho cercato.
Interessante questa domanda, andiamo avanti, poi?

PGM: Poi c’è una seconda parte, nella quale si è sciolto qualcosa, e avviene l’incontro, l’empatia. Lì, il libro si dedica ai fatti birmani raccontati dalla stessa Suu Kyi, e poi c’è una terza parte dedicata alla speranza, dove sembra che abbia quasi più speranza lei, Suu Kyiintendo, piuttosto che Carmen Lasorella. Ciò che più mi ha colpito di questo incontro, però, è proprio l’aver notato due donne completamente lontane dalla retorica. Mi piacerebbe capire cosa ha colto in Suu Kyi di anti-retorico, e cosa significa per Carmen Lasorella essere anti-retorica?

CL: Suu Kyi sta pagando in contanti un prezzo altissimo, ed è un prezzo che lei considera un dovere, un dovere nei confronti del suo popolo. La vita l’aveva portata fuori dalla Birmania. Lei è vissuta in occidente fino all’età di quarantatre anni, con un destino che sembrava avesse preso un’altra strada. Sua madre, che era stata ambasciatrice birmana in India, aveva fatto di tutto per tenerla lontana dal suo paese, un paese, purtroppo, con un destino atroce non solo da che arrivò la dittatura golpista; nel passato c’era stato naturalmente il periodo coloniale, un periodo che aveva portato, per certi versi, anche delle accelerazioni — per esempio il voto alle donne, conseguito nello stesso anno in cui era stato concesso a quelle inglesi — ma che vide assieme, naturalmente, tanti altri disastri. Dopo quel periodo ci fu l’invasione giapponese, che era stata in un primo momento voluta, invece, proprio per cacciare i colonialisti; giapponesi che si trasformarono subito dopo in occupanti. Una storia tormentata, quindi, una storia lunga, la storia comunque di un paese che stava tradendo questo sogno fantastico del padre di Suu Kyi: Aung San, che è l’eroe nazionale e l’architetto dell’indipendenza birmana.

Lei, in qualche modo, nonostante gli sforzi di sua madre nel tenerla lontana, quando è tornata nel 1988, ha avuto modo di vederlo da vicino quel paese, e rendendosi conto della sofferenza si è resa conto della grande fede che permeava la Birmania. A quel punto c’è stato poco da fare: era il suo appuntamento col destino, nonostante quarantatre anni spesi da un’altra parte, un marito inglese, due figli nati altrove, la sua vita di docente in università inglesi. Lei a quel punto ha lasciato tutto, tutto! Ha lasciato la sua vita per prenderne in mano un’altra.

Allora quando si fanno scelte così radicali, che vuol dire la parola retorica? Francamente non trovo un significato per la parola retorica. Lei, tra l’altro, è una donna che unisce due culture in una sintesi fantastica — la cultura occidentale e la cultura buddista, di cui è intrisa — a formare, però, non un’entità che è rimasta lì e che si è impregnata solo di questo: lei ha girato il mondo, ha studiato ed ha insegnato in lingua inglese, e quindi risulta piena anche di quell’altra cultura. È una donna molto avanti, tra l’altro lontanissima da questa dittatura che lascia indietro di chilometri, quanto un mondo molto chiuso, una dittatura feroce ed ottusa.

Carmen Lasorella fotografata da Giulio Donini

Le dittature sono iper conservatrici, non devono modificare l’esistente, essendo refrattarie a qualsiasi forma di cambiamento. Suu Kyi, invece, con la sua fragilità, con la sua intensità e con il suo coraggio, che considera e sente come cose normali, ha contribuito a rendere facile il mio parlare con lei. Dopo tutte le mie paure iniziali, in quanto si sapeva d’avere a disposizione una sola ora, in una situazione totalmente clandestina, nascosta, senza sapere se avrei trovato la sintonia, se ci saremmo piaciute, perché in condizioni simili è importante anche questo, altrimenti porti a casa una cosa che non vale niente. E invece, quando lei è entrata e mi è venuta incontro con un sorriso fin qua e mi ha teso la mano, è diventato tutto facile, immediatamente.

La nostra conversazione è andata avanti con facilità, e quando, dal punto di vista del lavoro, ho ritenuto che fosse sufficiente, a quel punto abbiamo continuato a chiacchierare lo stesso; abbiamo mangiato insieme, ci siamo sedute in poltrona, abbiamo avuto dei lunghi momenti di silenzio in cui stavamo quasi metabolizzando quello che avevamo vissuto. Magari solo per fermarlo, sapendo entrambe del chissà a quando una seconda volta. Per lei, tra l’altro, avere un contatto con un occidentale, e in particolar modo con una donna più giovane di lei ma affine per molte cose, è stato più facile; ha finito per farci condividere una certa passione e un certo entusiasmo.

Così ho finito per stimarla ancor di più di quanto potevo stimarla prima d’incontrarla. Molto di più, proprio perché persona autentica e che credo si possa definire la Nelson Mandeladell’Asia: come lui ha vissuto un lungo periodo d’isolamento legato a una prigionia, e come lui ha mantenuto questo rigore, questa serenità, questa semplicità. Invece, per quanto mi riguarda, la retorica penso di non averla mai in qualche modo accompagnata, neanche per un tratto piccolissimo di strada.

Carmen Lasorella alla presentazione del suo ultimo libro

PGM: Però ne vede.

CL: Sì, ne vedo tantissima, sono circondata dalla retorica! Purtroppo la retorica è una tragedia, assieme all’enfasi. Viviamo sempre sopra le righe, con il bisogno d’indossare abiti che non ci appartengono, il fatto stesso di proporsi come non si è, il fatto di sottolineare alcune cose che non c’è alcun bisogno di sottolineare. La retorica fa parte del nostro tempo, una retorica intesa anche in un senso non tradizionale, in quanto c’è una retorica dell’immagine, c’è una retorica dell’abito, anche nell’enfasi che a volte usiamo nel proporci con cose esagerate, con cose che perdono contatto. Anche se la retorica nasce con un valore positivo, perché il retore era colui che studiava una comunicazione efficace. Naturalmente tutto questo non c’è più, e quindi credo che oggi conti, e sia diventato un valore, cercare proprio di stare quanto più possibile aderenti alle cose e alla realtà, che è molto più forte di quanto la retorica della comunicazione spesso tenti di propinare. Forse la retorica a volte c’è sia per ignoranza e sia per paura, perché rispetto ai fatti non è facile rappresentarli per come sono. Richiedono una ricerca, richiedono un approfondimento e richiedono anche tanta conoscenza. Quando, invece, si va così veloci senza cercare questi elementi, la retorica forse semplifica e forse mette un celofan a una confezione che dentro ha magari un prodotto guasto.

PGM: Dalla coda del libro alla copertina. Il titolo è bellissimo.

CL: Il titolo mi è venuto in mente prima di scrivere il libro.

PGM: Bellissimo, ma ermetico.

CL: Poi però la scritta ce l’abbiamo messa: a voce alta per la Birmania.

PGM: Sì, però siccome ha utilizzato due parole bellissime, che soltanto alla fine conducono a un senso.

CL: Ma si capiscono anche nell’introduzione, perché io do una chiave di lettura.

PGM: Io vorrei che spiegasse perché il verde e lo zafferano, così ha l’occasione di spiegare anche che cos’è il libro in questo contesto.

CL: Il titolo mi è venuto in mente, lo ripeto, prima. Non avevo ancora cominciato a scrivere il libro. Il titolo mi è venuto in mente appena ho deciso di scriverlo. La sera ho deciso di scrivere il libro, l’indomani mattina ho trovato il titolo. Mi è venuto proprio incontro. Ho scelto questo titolo, primo, perché mi piaceva, Verde e Zafferano, e poi perché sono due colori che esprimono la realtà birmana. Verde sono le uniformi del regime; quel verde che per noi è il colore importante e positivo della speranza, in quella realtà e tutto rovesciato. Il verde è la paura, il verde è la protervia, il sopruso. Zafferano per noi è un colore che non ci appartiene nemmeno troppo, perché gli diamo una dimensione un po’ orientale, no? Legato per esempio ai sapori e ai profumi, lo zafferano, invece, in quella realtà è diventato la speranza in quanto colore delle tonache dei monaci.

Tra l’altro, i birmani chiamano i loro telegiornali, i TG verdi e zafferano, perché chiuso il mondo completamente fuori, il telegiornale diventa un telegiornale celebrativo del regime che mostra continuamente parate e inaugurazioni di questa grande dittatura, che ci tiene ad apparire come se perseguisse il bene del proprio popolo, mettendo in mostra soprattutto generali e soldati; ma tra il verde delle divise si vedono anche i monaci, la casta che esprime l’autorità morale del paese. In questo telegiornale, quindi, si vede soprattutto verde e zafferano.

Ho voluto scegliere questo titolo anche perché questo rovesciare i significati dei colori e dei simboli è una caratteristica propria della Birmania. In Birmania questo regime lo potremmo definire orwelliano in quanto snatura, cambia, manipola come fa tipicamente un regime, e per giunta un regime come questo, che è autarchico in maniera assoluta, fuori da ogni cosa, perfino imbarazzante per la Cina. Il regime birmano è talmente esagerato che anche i cinesi non ne possono più di questa dittatura, benché, per tante ragioni, la Birmania sia strategica per la Cina, che ha sul territorio birmano basi militari con tanto di bandiera. La Cina attinge risorse dalla Birmania, bacino di gas naturale e di petrolio più ricco del Sud-est asiatico, o altre merci importanti come le pietre preziose o il tek.

Va fatto anche un discorso geopolitico: attraverso la Birmania la Cina può immediatamente arrivare sul Golfo del Bengala, e dal Bengala proseguire per le rotte orientate al medio e vicino oriente. Dal punto di vista strategico, quindi, quel filo di perle che avvicina sempre di più la Cina all’occidente, sommato all’elemento di stabilità riferito al paese Birmania, risulta fondamentale. Il problema è proprio questo: nel momento in cui non si creano più le condizioni per un’alternanza che allontani la dittatura, ecco che la Cina inevitabilmente diventa un sostenitore del regime birmano; se si creassero, invece, le condizioni per guardare, una volta caduto il regime, a una classe dirigente in grado di prendere in mano il paese, ecco che probabilmente la Cina di oggi cambierebbe idea. Ricordiamo che la Cina non è più la Cina di qualche anno fa. È una Cina che non ha solo cambiato i suoi vestiti, ma pure la sua mentalità, abbiamo visto tutti Hu Jintau avvicinarsi alla popolazione durante il terremoto, abbiamo visto una Cina che, adesso, nonostante tutte le polemiche, farà delle olimpiadi importanti perché punto di contatto tra mondi.

I cambiamenti intervengono anche per contaminazione, e quindi è importante che questi mondi si tocchino lì, e non solo quando loro vengono qui, ma proprio quando noi andremo lì, non come turisti, ma come persone che si avvicinano a quella realtà. Io credo, allora, che l’importante stia nel fatto che questo dossier Birmania non sia soltanto il problema di un popolo disgraziato, di un popolo lontano, ma diventi una questione internazionale importante, perché questo paese che fa da cuscino tra India e Cina, è comunque un paese che ci riguarda, come ci riguardano i diritti umani a qualunque latitudine.

PGM: Ha sottolineato più volte, nel libro, come la Birmania sia un paese che vive di contrasti, le notizie recenti lo hanno anche dimostrato: un paese dilaniato da un cataclisma con un regime che si preoccupa di indire un referendum a proprio tornaconto. Dei militari, quindi, abietti nel loro modo di fare, si trovano ad aver a che fare con una donna come Suu Kyi che non li considera neppure, e che propone la non-violenza come alternativa alla prevaricazione.

CL: È fantastico!

PGM: Altro contrasto: un popolo sottomesso che vive una miseria allucinante in un paese ricchissimo, e che riesce ancora a sorridere! Molti di coloro che ritornano dalla Birmania, portano la testimonianza di un paese gentile, sorridente e cordiale. Perché? Cosa ha colto Lei che potrebbe dare un significato a tutto questo?

CL: Questo è un regime che ha creato una nuova capitale nella giungla, in quanto Rangoon era considerata in qualche modo attaccabile. Vive di mille sindromi, di mille contorcimenti, i militari hanno delle idee che sono il portato di superstizioni, di una visione distorta della realtà. Dicevo che hanno fatto una capitale nella giungla perché lontana dal rischio di un’invasione, ma in un luogo così lontano che non lo conosce nessuno, dove si sono dovuti inventare le strade per arrivarci. Hanno staccato ulteriormente il governo dal popolo, pensi che arrivare in questo posto è estremamente complicato, ci vogliono i lasciapassare.

Carmen Lasorella fotografata da Giulio Donini

Paradossalmente, in questo luogo dove hanno creato pure una silicon valley e una ciber city, vige un grande fratello che sta lì e vive anche se il corpo, il suo popolo e il suo paese, muore. Hanno creato un’entità che può continuare a vivere anche se il paese va male. Il ciclone, ad esempio, non ha toccato questa nuova capitale che si trova in una zona lontana dall’Irrawaddy, il grande fiume. I militari sono stati testimoni di ciò che è accaduto, e che ha sconvolto un paese con delle cifre da paura, parliamo di più di duecentomila tra morti e dispersi, oltre due milioni e mezzo di senza tetto, come se niente li avesse toccati. Sapevano in anticipo, eppure non hanno informato la popolazione, o hanno dato delle notizie superficiali in modo che nessuno pensasse ci fosse un reale pericolo. Dopo tutto quello che è accaduto, sono passati i giorni prima che qualcuno si degnasse di andare a vedere. Il capo della giunta, Than Shwe, si è recato sul posto quindici giorni dopo ed ha trovato i morti che galleggiavano sul grande fiume. È veramente una realtà paranoica. Per dare una spiegazione.

Purtroppo è un paese bellissimo, un popolo gentile, una donna meravigliosa che appunto, come diceva, ha scelto la non violenza per indire una lotta senza quartiere, e una lotta per la vita, perché lei mette in gioco tutta se stessa rinunciando alla sua dimensione umana, in quanto investita da questa missione, e per contro un regime che si clona, con una giunta che è cambiata nel frattempo: all’inizio c’era questo Ne Win, tra l’altro uomo di fiducia del papà di Suu Kyi, e poi, dopo di lui, questo strano triunviro, l’attuale Than Shwe, un altro che si chiama Maung Aye, e un altro ancora, Kyin Nyunt, che è stato fatto fuori a causa di faide e lotte interne. Il regime cambia e clona la nuova generazione, perché, tra l’altro, da Than Shwe a Maung Aye, sono tutti malati di cancro, e siccome avranno anche una vita breve, si stanno predisponendo in modo tale da lasciare il potere all’interno delle loro famiglie e dei loro sodali. È una realtà abnorme!

Copertina del libro 1984 scritto da George OrwellNon per niente dicono che Orwell si sia ispirato alla Birmania per scrivere 1984. Lui era stato in Birmania come ufficiale della polizia imperiale inglese e, nel suo libro Giorni in Birmania, scrive d’essere fuggito da quel paese perché, ben prima dell’avvento dei generali, aveva vissuto una sensazione di grande disagio, proprio a causa di questo mix di fede e di etnie, di superstizione. È un mondo intricato la Birmania.

PGM: Il contrasto che più ferisce, lei dice ad un certo punto: io ho scritto con grande dolore e anche voi lettori leggetelo

CL: No! Io non ho usato mai la parola dolore. Io l’ho scritto con grande passione, che è una cosa un po’ diversa. Non c’era dolore da parte mia. Da parte mia c’era molta rabbia dinnanzi alla superficialità, c’era rabbia dinnanzi al fatto che non esistesse solidarietà — solidarietà che poi per fortuna è venuta muovendo sensibilità, portando molti in piazza e che ha fatto condividere la situazione, a tal punto, che ad un certo momento si parlava solo di Birmania! Dal 1988 e per vent’anni non si è parlato di Birmania, e poi, improvvisamente, non si è parlato che della Birmania. Da parte mia, quindi, non c’era dolore ma c’era rabbia, c’era pena, se vogliamo, per la loro sofferenza, e quindi il contributo che può dare una persona che si cimenta con l’impegno di un libro è quello di essere quanto più possibile attenta, cercare una chiave narrativa che deve passare. Questo non è un lavoro per un analista, è un lavoro per qualcuno che sa già qualcosa, o non la sa affatto. Si rivolge, quindi, sia a chi non sa nulla, e lo accompagna per cercare di sapere qualcosa di più, e sia a chi sa già qualcosa e trovi delle conferme. Infatti mi è capitato, mentre lo sto presentando in giro, di sentire — ieri per esempio ero a Firenze — una persona che lavora con la Birmania e per la Birmania, tra l’altro con un incarico istituzionale. Questa persona mi ha detto d’aver percorso il libro di volata, trovando tutta una serie di situazioni che conosceva ma che magari non metteva in fila, che non conosceva in maniera organica o che non conosceva affatto; gli è servito da morire in quanto ha trovato tutta una serie di cose, magari solo intuite.

Evidentemente mi ha fatto piacere, perché ne parlava una persona che si occupa e ha contatti da anni con la Birmania, e che ne conosce certi oppositori politici. Un altro esempio mi è capitato ieri. Mi si avvicina una birmana di Yangoon, ma che vive in Italia perché ha sposato un italiano, e mi ha ringraziato in lacrime per le cose dette. Rivolgendosi al pubblico, ha dichiarato che erano tutte vere. È stato bellissimo e commovente!

Poi ho scoperto che la moglie dell’ex dittatore Ne Win, colui che ha clonato gli attuali responsabili della giunta, vive in Italia! Ci sono delle cose strane che creano strani intrecci nel nostro paese, che non ha nella sua cultura simili situazioni, eppure, stranamente, anche qui si è creta una sensibilità, forse tardiva, verso quei problemi.

PGM: Un cenno soltanto sull’argomento del giornalismo. Come sta come giornalista? Una domanda che aggancio ad un’altra riflessione. Durante la guerra del Vietnam, a tutti i giornalisti accreditati veniva assegnato il grado di maggiore. Un fatto che comportava, ed era cartina tornasole di, un certo rispetto, e per la persona del giornalista, e per l’informazione. Al tempo, il governo degli Stati Uniti rispettava tutte le informazioni che giungevano dal Vietnam, anche se creavano notevoli problemi alle varie amministrazioni.

CL: E questo errore gli americani non lo hanno ripetuto più, nella prima Guerra del Golfo, soprattutto, e poi nella successiva, se ne son guardati bene. Hanno messo in piedi una news management assolutamente puntuale e rigorosa, dando solo le informazioni che volevano dare nei loro brifting della mattina e del pomeriggio. Quello che lei sta dicendo, e mi fa piacere che lo abbia colto, è che la notizia progressivamente, purtroppo, ha perso di rispetto.

PGM: Voglio farle una domanda. Giornalisti così, e rispetto per l’informazione non se ne vedono molti in circolazione, lei lo puntualizza spesso.

CL: Non spesso, però lo puntualizzo.

PGM: Ma si vede che ha una forza quando lo dice, e anche se solo lo scrive finisce per saltar fuori questa forza. Perché? È una domanda mostruosa, me ne rendo conto, ma cosa può fare un giornalista per riportare a galla, in auge, questa personalità, e soprattutto come sta lei come giornalista? Perché è “sparita”?

CL: Diciamo che il giornalismo, e lo dicevo all’inizio, è diventato multimediale. Comunque sia, oggi ci sono tanti modi, e un giornalista dev’essere capace di viverli, non dico tutti, ma dev’essere in grado di orientarsi attraverso questi vari strumenti e questi vari modi, e lì fare arrivare la comunicazione, e poi l’informazione dalla comunicazione. Il discorso qual è? Che questo mestiere si è molto strutturato, e questa struttura del mestiere è molto legata anche ai conflitti, ossia, i conflitti hanno accelerato determinate cose. Prima citava il Vietnam, dove addirittura i giornalisti ricevevano un uniforme con i gradi da maggiore, e quindi erano non solo tenuti in considerazione, ma erano in genere dei giornalisti che arrivavano lì non alle prime armi, non era gente che capitava lì per caso, era gente che comunque aveva un’esperienza, un’autorevolezza, e quindi si assumeva anche delle responsabilità dando delle informazioni che poi hanno mosso le opinioni pubbliche, hanno creato il fronte contro il Vietnam, hanno in qualche modo portato anche alla sconfitta. Non a caso in quell’occasione ci fu più d’uno che disse: temo più il Cronkite di turno piuttosto che un agguato dei Vietcong. Quindi, sicuramente quello è stato un momento in cui il giornalismo ha recitato questo suo ruolo in una condizione esaltante. Ci si è resi conto di quanto un’informazione non organizzata, anche da parte di coloro che erano vittime, soggetti e oggetto della notizia, potesse poi portare. Si è cominciato a capire che alla stampa, bisognava dare più informazioni, ma tutte orientate.

Carmen Lasorella fotografata da Giulio DoniniQuante volte ci sembra di essere tutti travolti dalle notizie… e invece, poi, vai a tirare le fila e vedi che arrivi ad una conseguenza che è proprio quella che loro volevano sin dall’origine. È quello che si chiama news management: l’organizzazione delle notizie. Ma si sono anche resi conto che, per esempio nella guerra del Golfo, potevano utilmente utilizzare la stampa per creare un consenso intorno alla guerra. Per esempio, nella prima Guerra del Golfo ricordate questi cieli verdi con i traccianti dove non si vedeva niente? C’erano solo questi brifting quali unica fonte di notizia.

Poi, invece, si è passati alla madre di tutte le battaglie e si è arrivati alla guerra di terra. Ebbene, a quel punto i giornalisti hanno cominciato ad andare sul territorio, però si è capito che dovevano andare sì, ma quasi intruppati, non dico embedded, che è un’altra cosa, ma attenti comunque alla loro sicurezza. Perché poi, quando si portano tutti i giornalisti come in una mandria, allora si parla anche di sicurezza dei giornalisti, si trova la scusa della sicurezza per i giornalisti.

PGM: Ma è una scusa? Una vita umana, un giornalista che perde la vita, può creare dei problemi, anche morali.

CL: 2007, ottobre, 87 giornalisti morti dall’inizio dell’anno, anzi 89 per l’esattezza. Quindi, oggi i giornalisti muoiono molto di più, perché, tra l’altro, si pretende di vedere. Muoiono molti più cameraman, molti più giornalisti che fanno news televisive o legati a strumenti video, fotoreporter e via discorrendo, perché sono più esposti. Oramai si vuole vedere il momento in cui gli si taglia la testa, si vuole vedere il momento in cui cade la statua, si vuole vedere quel momento e non altri. E quindi bisogna essere sul punto nel momento in cui accade la cosa. Per certi versi, in alcuni casi, si attende perfino che arrivino i giornalisti per far accadere quella cosa.

È un fatto normale più di quanto si creda. Allora si è capito che la stampa da una parte denuncia, ma dall’altra amplifica, e inevitabilmente ci sono dei fior di esperti che nel caso dei conflitti si occupano, tra le altre cose, di gestire l’informazione. L’informazione, a sua volta, e questo è un modo per essere anche meno gestita, soprattutto da parte dei grandi canali, delle Old News e così via, porta sul territorio un bello staff, per cui ho un bel studio centrale con un responsabile, e poi tanti giornalisti che vanno in giro, una serie di collaboratori e freelance. Questa è stata quasi una risposta a quella sorta di News Management originale.

A me è capitato una volta in Medio Oriente, di trovarmi per caso in un posto, e stranamente, di vedere appostata una truppe della CNN dietro i sacchi di sabbia, senza capire quel che stessero facendo. Un attimo dopo è scoppiata una bomba. Allora, voglio dire, io ero lì per caso, e per fortuna non è successo niente né a me né all’operatore, ma loro erano lì e lo sapevano.

Carmen Lasorella fotografata da Giulio Donini

È un discorso complesso. Sicuramente, oggi più di ieri, la macchina delle informazioni è una macchina che, soprattutto nelle Old News, è molto bene organizzata, e questo fa la differenza, perché offre un ventaglio e quindi — apparentemente, e in molti casi anche realmente — una possibilità di tante informazioni e, di conseguenza, una certa libertà nell’informazione. Intendo dire che le tante voci, come sempre, sono in qualche modo una garanzia per avere una maggior aderenza ai fatti. D’altra parte, quel giornalismo fatto d’individualità è un giornalismo che può e deve continuare con alle spalle un’organizzazione. Diciamo che la differenza tra il giornalismo in Italia e quello che si fa all’estero, sta forse nel fatto che i colleghi stranieri hanno alle spalle molta organizzazione ma poca personalità, mentre da noi avviene il contrario, esistono giornalisti che hanno voglia di emergere, ma che magari si limitano a una mera proiezione d’individualità per mancanza di forza, però c’è pochissima organizzazione. Per parlare del giornalismo nostrano legato ai grandi eventi, io credo che ci debba essere una maggiore organizzazione, distinguendo sempre chi scrive e chi racconta, perché essendo testimone della notizia, a quel punto se ne assume la responsabilità. Un informazione che fosse soltanto legata ai mezzi rimanendo anonima, è un’informazione meno responsabile e quindi meno attendibile.

PGM: E lei, come sta? Vorrebbe fare qualcosa che non fa? Perché una giornalista della sua caratura risulta defilata, relegata ad incarichi marginali. La gente, io credo, vorrebbe vederla raccontare di più.

CL: Ma guardi, io sono rimasta fuori dal mio mestiere in televisione per quattro anni, mentre per il resto ho continuato a fare tantissime cose. Non ho potuto lavorare in televisione per logiche legate alla politica, dove si pretende l’apparentamento e l’appartenenza. E, invece, siccome io no ho parenti, né appartengo, questo è venuto in superficie creando il gap. Ho sempre fatto programmi, ma anche lì c’è un problema di logica chiusa, legata alle varie società che vendono format, e quindi, paradossalmente, un autore — perché uno che fa programmi è anche autore — non riesce a portare un qualcosa di suo a costo zero rispetto agli standard venduti da queste società, essendo anche quello un mercato. Quindi, da una parte gli interessi economici, da un’altra gli interessi politici, ed ecco che uno rimane chiuso nel mezzo!

PGM: Però, io ho sentito giusto ieri alla TV, in un programma che non ricordo, lagnarsi che i programmi format d’opinione, tipo Matrix o compagnia bella, siano condotti solo da uomini, mentre manca una figura femminile di spessore. E ho pensato a lei. Allora mi chiedo, se dalla televisione arriva questo segnale, perché non arriviamo a Carmen Lasorella?

CL: Probabilmente Carmen Lasorella domani, e intendo in senso reale — non so quando va questa intervista — domani 28 di maggio, probabilmente riceverà un incarico. Incarico che arriva in seguito a una mia azione legale nei confronti dell’azienda, perché non riuscendo a sbloccare questa situazione, praticamente sono arrivata a far causa, detta in maniera semplice.

PGM: Da buon avvocato quale lei è.

CL: Sì, in precedenza facevo quel mestiere, e comunque, a seguito di questo contenzioso aperto con la mia azienda, ho ricevuto — come sempre in questi casi ci sono dei tentativi di conciliazione — delle proposte, alcune irricevibili che ho rispedito al mittente. Su una, però, mi sono convinta che valesse la pena di accedere ad una transazione, perché l’alternativa era quella di affrontare il ‘rischio’ di vincere una causa — e di portare a casa tanti soldi, che peraltro sono sempre soldi degli italiani, e quindi non fa neanche piacere fare una cosa del genere perché uno i soldi li vuole guadagnare e non averli come risarcimento — ma probabilmente non avrei ripreso a lavorare. Siccome lavorare nel proprio mestiere è indispensabile — ripeto, io faccio tante cose e ho tanti interessi, ma portare avanti il mio lavoro è sicuramente diverso — ho raggiunto questo accordo e domani, 28 di maggio, probabilmente il consiglio di amministrazione varerà una nomina che mi riguarda.

Carmen Lasorella fotografata da Giulio Donini

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