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Percorsi

Appuntamento al Bar de Martes

Prosegue da Cuba, eremita in Habana Suite

Nel novembre del 1999, un mese di vagabondaggi tra Yucatan, Chiapas e Guatemala, non mi sradicano via un chiodo fisso: far ritorno a L’Avana. A Cancùn, raccordo di rotte intercontinentali, decido di chiudere il viaggio tra i vicoli di Habana Vieja, e raccogliere ancora.

Il Malecon de L'Avana

È un autunno che rimarrà nella memoria dei cubani come uno dei più rigidi. Il termometro non salirà mai sopra i quindici gradi, con i bollettini a segnalare lo zero assoluto a Santiago de Cuba: un record. Stavolta, però, per far festa con gli amici di Habana 326, non baderò a spese. Le bottiglie di tequila infilate nello zaino, e la cioccolata svizzera per Dayana che mi sono tirato dietro dall’Europa, sono solo un’overture.

Ogni luogo del mondo ha un suo odore, ma quello che emana l’aeroporto di L’Avana si riconoscerebbe anche senza sapere dove si è atterrati: mistura diabolica tra diesel, fiori fermentati e miele tostato. Attracco di notte, con Elvira e sua figlia Dayana che stentano a riconoscermi; la madre perché mi attendeva con i capelli lunghi mentre arrivo rasato a zero; l’adolescente perché ci presentiamo per la prima volta. È una ragazzina incantevole, accanto alla madre sembrano sorelle. La sensazione è di un ritorno a casa.

L’incanto notturno e un’assenza di ben tre anni contagiano il desiderio di vedere immediatamente Plaza de la Catedral e di sedere con Elvira ne El Patio. Sì, gli eterni Orishas sono sempre lì, tra le colonne barocche, a scrutarsi attorno e a dar linfa al movimento umano. Al tavolino accanto, noto la presenza di Francesca Neri, e del compagno Claudio Amendola, Jack Folla, si sa, da Alcatraz è soltanto una voce. I due attori sembrano annoiarsi mortalmente, forse sono solo stanchi. Mi chiedo come possa accadere, d’essere così belli e non vivere fino all’orlo, mentre gli Orishas ti proteggono le spalle. L’attrice è nata nella stessa città dove sono nato io, e per di più nello stesso anno, Trento — 1964, anno del drago.

Coincidenze che scivolano via quando mi ritrovo a ballare un cha cha cha con un’anziana pianista di settantacinque anni, che di stancarsi non ci pensa nemmeno. Mescoliamo assieme Danzon, Mambo, Son, Rumba, ironia, e l’atmosfera di gioia che la piazza infonde. Elvira fa il tifo! Molte cose sono cambiate da quel mio primo 1996. Dopo la visita di Wojtyła a Cuba, Castro ha dato un giro di vite al fenomeno della prostituzione, rendendo invisibile la sfilata tra argonauti e mulatte che intristisce le vie.

Locandina di Buena Vista Social Club Wenders ha girato a L’Avana, Buena Vista Social Club, resuscitando le meraviglie di Compay Segundo, Rubén Gonzales, Ibrahim Ferrer, Omara Portuondo, Manuel “Puntillita”, Licea “Cacahito” Lopez, oggi compagnia di notorietà mondiale, ma quel che più conta, personefinalmente resuscitate a nuova e dignitosa vita cubana. La loro musica, echeggia in ogni angolo dove esista uno strumento. Prima, nel 1996, pochi sapevano chi diavolo fossero questi terribili vecchietti; nella stessa Habana che li aveva inghiottiti e dimenticati assieme al Club dove suonavano in gioventù, disintegrato, per comune sorte d’un centinaio d’edifici storici…..

Ma è mai possibile che ci doveva pensare una produzione americana e un grande regista tedesco, a tirarli fuori dal buco? Primo concerto a New York, un film, e poi in giro per il mondo a suonare. Ma vi ricordate le lacrime di Ibrahim Ferrer tra i grattacieli della “grande mela”. Pensate che non gli sia venuto in mente che fino a pochi mesi prima, a L’Avana, tirava avanti a Negritos y Cristianos, ossia, riso e fagioli neri? Avrebbe saputo di un altro mondo prima di morire, senza l’aiuto di Wenders e Ry Cooder?
Eduardo Galeano, araldo uruguaiano del comunismo etico latinoamericano, afferma: Non ho mai confuso Cuba con il paradiso. Perché dovrei confonderla oggi con l’inferno? Io sono tra quelli che credono sia possibile amarla senza mentire e senza tacere. Io mi sento sulla stessa linea.

Locandina di Buena Vista Social Club

Molte cose sono cambiate in questi tre anni, ma Elvira è sempre qui, anche se attende l’assegnazione d’una borsa di studio tedesca, frutto dell’interessamento degli amici e del moroso bavarese. Io, da quando ricevetti, come un messaggio in bottiglia, le dieci poesie che Elvira ha dedicato al nostro primo incontro, e alla sua vita a L’Avana, mi sono macerato in riflessioni e quesiti irrisolvibili. Teseo in un labirinto non suo: è giusto andarsene? Meglio restare? La risposta si è concentrata nello studio dei suoi versi, claustrofobici, magmatici, indefinibili nell’energia in movimento, criptici: Galene brillanti capaci di parlarmi fondi al cuore, nonostante la distanza. Li ho tradotti in italiano, li ho recensiti. Il lavoro ce l’ho con me per regalarlo alla sua Casa Alta.

A notte fonda è lì che approdiamo: in Habana 326. Un appartamento dai cubiti coloniali, con i terrazzi aperti sulla calle. Ancora la liturgia del dormire assieme, come fratelli ritrovati per mancata dispersione. Al mattino, le finestre danno sull’edificio di fronte; noto gli affreschi in disfacimento che arredano il nulla dignitoso di certe abitazioni simili a grotte nel barocco. Regge in corte dei miracoli. Il pieno di luce è circondato da una popolanità effervescente, mai doma. Caluca è la mami di casa, l’anziana che in ambienti cubani si occupa delle faccende domestiche, e all’occorrenza elargisce consigli. Dall’uscio di fronte sale anche Berta, impaziente d’abbracciarmi.

foto di Paolo Ghiotto MarinElvira è entusiasta del mio essere nuovamente a casa proprio in occasione dell’inaugurazione del suo Bar del Martes. Ogni martedì, ha deciso di riunire il parnaso d’amici per discutere d’arte e far festa. Che attendere, quindi, se avremo degli ospiti? Via con lei a spendere un centinaio di dollari: un tonno intero di sei chili, scampi, avocado, patate e banane, chili di carne per la gioia dei miei amici macellai del mercato central, riso e fagioli, yogurt, rhum Habana Club anejo e birra nera bucanero, sigari Choiba. Sembrano i preparativi per un matrimonio.

Ridendo da sola, Elvira mi racconta che Fidel ha modificato la legge che permetteva ai cubani di sposarsi e divorziare all’infinito. Dove sta l’inghippo? Semplice — risponde Elvira — siccome ad ogni novella sposa, il governo regalava un quantitativo cospicuo di generi alimentari, è successo che moltissime donne, alternando matrimoni combinati e divorzi a velocità vertiginosa, mettevano su empori del mercato nero, rivendendo la merce ricevuta in regalo dallo Stato. La nuova regola, ora, stabilisce soltanto tre matrimoni nella vita, e a distanza d’almeno tre anni l’uno dall’altro. Quasi come accade ai greci ortodossi!

Al ritorno in Casa Alta trovo Bandèra, un ragazzo mulatto di 23 anni, pronto ad insegnarmi i passi base della salsa e… come si pulisce un bonito di sei chili da cucinare in salsa barbacoa. Prima che arrivino gli ospiti, svelo il mio regalo a Elvira. Leggiamo assieme, ci commuoviamo per quell’empatia poetica. In lacrime, riesce a dirmi che ho capito le sue Galene più di quanto le abbia comprese lei. È felice d’aver trovato un traduttore italiano. Potente l’energia della poesia, quando crea coniugazioni.

Usciamo e Luis è già nel salone, con due bottiglie di Habana Club e una di spumante italiano. Per creare il Simposio, sostiene. Poi minaccia di cancellarmi dalla sua agenda, se la prossima volta non mi fermerò almeno una ventina di giorni. Ancora non sa che ho in progetto una sosta a L’Avana di un mese e mezzo, in modo da trovare spunti per un racconto di viaggio d’ampio respiro, da dedicare all’umanità invisibile di Habana Vieja, quella che nessuno racconta.

Dayana è un angelo affamato che ormai mi ha adottato come uno zio d’America. Alla spicciolata giungono tutti gli invitati al bar di Marte; Giselle, tremenda mulatta dell’accademia di salsa, Yonhatan, un giovane considerato tra i migliori pittori di Cuba, Jasmine, poetessa come Elvira. Nel frattempo Luis si è messo a leggere il mio lavoro in italiano su Galene, e ogni tanto mi lancia sguardi dardeggianti. Com’ è possibile che tu sia riuscito ad arrivare così a fondo, in così breve tempo… senza sapere se sia un bene o un male. Dopo un po’ giunge Ariel, bello quanto un figlio di Delon, un ragazzo che, secondo Elvira, tira fuori magie fotografiche da una Nikon antidiluviana; poi uno scrittore di fantascienza politica, un apneista amico di Pipin; quindi Eramis, un chitarrista amante del Flamenco, e Damian, l’angelo lucifero di L’Avana: un uomo carismatico dal volto cristico, magrissimo e con i capelli corvini ben oltre le spalle.

Damian, foto di Paolo Ghiotto Marin

Caluca accoglie ancora gente, senza capire se sia lì perché davvero si svolgerà un simposio artistico, o perché nel quartiere si è sparsa la voce di tutto quel ben di Dio da mangiare.

Elvira e sua figlia Dayana, foto di Paolo Ghiotto Marin

Le amiche di Elvira, d’ogni gradazione e colore, chiedono del viaggiatore, dell’amante dell’America Latina approdato in Casa Alta. Epiteti che mi fanno arrossire. Le bottiglie di tequila iniziano a girare con i Cuba-Libre. Ad un segnale di Bandèra, parte la musica de Los Van Van e una decina di coppie inizia a volteggiare formando intrecci che uniscono assieme tutti i ballerini. La Rueda de Casino: una caleidoscopica quadriglia della salsa che, mastro Bandèra, guida negli scambi di coppia.

Esattamente a questo punto, scoppia il nubifragio su L’Avana, con fulmini e saette che sembrano unirsi alla musica e alle danze in un tutt’uno d’energia in movimento. Senti? — mi fa notare Luiscome la coreografia frenetica ruota attorno al perno invisibile dove l’orisha Shangò, padrone dei fulmini, abbraccia Barbara di Bitinia, Santa e guerriera? È in questa visione illuminante d’un professore di matematica, ridotto a maitre del Sevilla, che si riassume lo spirito sincretico della festa al bar di Marte? Bizzarro, come il termine Martes, in lingua castigliana, assuma il contemporaneo significato di martedì e di Dio della guerra. Solo una coincidenza? Come esimersi dal pensare che la vita quotidiana di questa gente, arte inclusa, è una guerra continua? Non per niente, Manolin il medico della salsa, altro esponente del gota musicale moderno, sprona la propria gente al ballo al grido …a la batailla!

Quanta meno estasi è presente nella quotidianità profonda degli habaneros a dispetto d’un’apparente giovialità, colta dagli argonauti stranieri perché fermi in superficie. Mi convinco sempre più che sia il senso dell’umorismo a salvare la vita, quaggiù. Ironia che arricchisce come una speciale spezie, anche la cena che si consuma tra battute e risate, dopo il ballo d’apertura. Poi Elvira decide di leggere il mio lavoro su Galene, in italiano, commentandolo nella sua lingua madre. Il parnaso è concentrato e allibito da tanta profondità. È il segnale di una speranza, d’un possibile dialogo tra mondi distanti, al di là dei luoghi comuni abbandonati alla deriva. Le questioni politiche sembrano distanze siderali, fantascienza di uno scrittore riccioluto che la usa per denunciare tramite l’insito simbolismo, realtà che la censura non ammetterebbe.

Dopo la lettura della mia hermanita, Damian, in onore di questo pao-lo-pa-so-li-ni-d’A-va-na, inizia a recitar versi a memoria di Campana, in italiano, di Majakovskij, in russo, di Elvira e di Angel Escobar, in castellano: L’atto d’un lucifero — portatore di luce — vibrante. Segue i versi, come se li leggesse tra le fughe dei lastroni marmorei della sala. Accompagnato dalle note al flamenco della chitarra di Eramis, li insegue e li stana quasi fossero formiche. Non ho mai visto, e non vedrò mai più in vita mia, un recital di poesia di tale intensità. Un’esperienza che, anche a volerla fotografare, non renderà mai l’idea a chi non l’ha vissuta, e che preferisce, di Cuba, bei paesaggi patinati in carta Kodak.

Foto di Paolo Ghiotto Marin

Damian è un poeta che non scrive una riga, la poesia la incarna d’amore intimo. Vive di poesie, e sopravvive rubando libri agli amici e rivendendoli in Plaza de Armas — mi confida Elvira. — Quando lo invito a casa mia, devo sempre tenerlo d’occhio, e allontanarlo dalla libreria – ride felice — È l’amico più caro che ho, un guerriero con una storia incredibile portata sulle spalle.

Adozioni cubane

Non si pensi che l’adozione fraterna tra me e Elvira costituisca un mero atto estetico, un romanticismo da telenovela, nonostante l’appuntamento televisivo pomeridiano sia una ritualità che cadenza la vita popolare di L’Avana, soprattutto tra gli anziani, piazzati davanti al televisore dopo aver acceso l’immancabile sigaro. La frantumazione dei matrimoni crea, di fatto, formazioni di famiglie allargate che non necessitano di un’ufficialità per ritenersi comunque ben salde. In particolar modo, la vita dei bambini trova il patrimonio di più genitori, e un pout pourrì di nonni che non li dimenticano. In ogni caso, non esistono orfani abbandonati ed Elvira ne costituisce un esempio perfetto. Orfana d’entrambi i genitori, è stata adottata da un amico del padre, Gustavo, che la ama come una figlia naturale. Vive in una casetta nel Vedado, ed Elvira mi ci porta.

È un quartiere di L’Avana che, da antico polmone agricolo della città, venne trasformato, ai tempi di Batista, nella zona residenziale degli statunitensi a L’Avana. Ecco spiegata la tipica struttura di villette a schiera e giardini, oggi cimitero a cielo aperto delle favolose automobili americane anni cinquanta. Le vedi arenate dappertutto. Per ironia della sorte, quando raggiungiamo la casa di Gustavo, l’anziano è seduto di fuori su una sedia a dondolo, con lo sguardo fisso sulla frenetica attività di tre meccanici che sembrano operare a cuore aperto nel cofano di una Pontiac del 58, la sua Pontiac azzurra del 58. Don Gustavo, mi sa proprio che non c’è più nulla da fare.

foto di Paolo Ghiotto Marin

Ci sediamo accanto al padre adottivo d’Elvira, visibilmente commosso. Ascoltiamo quell’uomo dal tenero sorriso, nonostante sia afflitto dai primi segni tremolanti del Parkinson: con quella macchina se ne và un lungo pezzo della mia vita, forse il più importante, ben quarantun anni. Nel 58 lavoravo in una fabbrica di vernici di produzione americana, come contabile delle vendite. Già a quel tempo si aveva sentore che la rivoluzione avrebbe cambiato tutto, e così, assieme al mio amico e capo ufficio, Josè Larras, decidemmo l’operazione che mi ha evitato un’ardua sopravvivenza, assieme alla mia molteplice famiglia: sottrarre dal deposito dell’azienda, giorno per giorno, vasi da dieci chili di vernice bianca e, con la Pontiac di Josè, trasportali nella mia cantina. In un anno riuscimmo a fare ben 25.000 vasi, duecentocinquanta tonnellate.

Poi Josè fu ucciso da una pallottola vagante, sparata da qualche esaltato che festeggiava l’entrata dei barbudos a L’Avana, e lasciò in eredità a me sia la Pontiac che la vernice. Vendendo a centellini quella vernice, per quarant’anni ho mantenuto i figli, i figli dei miei figli, e quelli degli amici che ho adottato, Elvira compresa.

In casa mi presentano il figlio di Gustavo, Valenciano, che vive assieme alle due mogli e ai due figli, avuti dall’una e dall’altra. Valenciano ha perso un braccio in un incidente di lavoro, e percepisce una pensione che gli fa il solletico. La sorella di Valenciano, Rosamalva, ha due figlie dell’età di Dayana. Nonna Maria, moglie di Gustavo, prepara caffè e dolcetti per tutti: la convivenza degli affetti, al di là delle prove che la vita impone, sono un dovere e una felicità sacrosante. Lisa, la prima moglie di Valenciano, lo abbandonò con un figlio quando perse il braccio, poi si pentì e ritornò ma, nel frattempo, mio figlio aveva conosciuto Analuna. Non sapeva dove andare, e allora io e Gustavo, d’accordo con Valenciano, le abbiamo chiesto di restare con noi.

Gustavo, mi mostra con orgoglio il primo libro pubblicato da Elvira: Frammenti per amare D’ kàtrine. Mi piace questa copertina, questa donna grassissima che non si capisce se riposi o si cucini in quel letto d’erica, sistemato dentro un’enorme padella. É uno dei simboli più belli che ho visto in tanta letteratura cubana. L’Avana è così, come questa donna poetica. E i versi di Elvira, mi chiedi? Ha il dono della parola, una parola carica, puntata come un’arma alla tempia di chi legge. So del lavoro in italiano che hai compiuto su Galene. Un altro nipote approdato nel Vedado?

Idiosincrasie dentro e fuori L’Avana

foto di Paolo Ghiotto MarinDi ritorno alla Casa Alta, scopriamo che la tazza del cesso di Elvira è saltata in mille pezzi, un problema; se per pisciare si può cercare di fare centro nel buco di quel che ne rimane, per altri bisogni si è costretti a dirottare il via vai in casa di Berta. Elvira è affranta, quasi stufa della sua città. Una tazza nuova costa 90 dollari, un’enormità qui, ma la si può trovare anche di seconda mano, per soli 35. Una tazza di seconda mano, ho capito bene? Certo, ed Elvira sguinzaglia Bandèra, sorta di factotum della Casa Alta, a cercarne una.

90 dollari, ti rendi conto? Neanche ne pretendessi una d’oro! Ecco il trono della mia poesia: una bella tazza del cesso tutta d’oro, se la ride Elvira ricorrendo all’ironia. Non credo d’aver guadagnato novanta dollari, se considero tutti i libri di versi che ho venduto in vita mia.

Per distrarla, ce ne andiamo in Habana Vieja, perlustrando i caffè e le sale da tè con i giardini interni. In calle Obispo, improvvisamente si accende un putiferio, una folla incredibile si scaglia contro un ragazzo di vent’anni. Arriva un blindato della polizia e non si capisce se lo salvi dal probabile linciaggio della gente o se lo arresti. Si svela il mistero: sembra che il giovane, eccitato dalla bellezza di certe commesse di un negozio, abbia incominciato a masturbarsi proprio di fronte alla vetrina.

Passato il guazzabuglio, i commenti di chi ne vede il lato comico si frammista a chi, invece, è imbestialito per tale smoderatezza. Obispo diviene il centro del pettegolezzo.

foto di Paolo Ghiotto Marin

Bandèra ci raggiunge foriero di cattive notizie, si possono comprare soltanto tazze nuove e, naturalmente, divento il mecenate unico di un nuovo trono poetico. Attraversiamo il centro coloniale ingentilito da un calar del sole che sembra una carezza. A tramonto inoltrato, passando di fronte al Campidoglio, riconosco la musica di Manolin, il medico della salsa che mette in note l’orgoglio cubano. Ci vorrei andare, ma Elvira e Bandèra mi dissuadono, avvertendomi che ai concerti di Manolin i cubani non gradiscono la presenza degli stranieri. Rischierei un linciaggio ben peggiore di quello dedicato in Obispo ad occasionali masturbanti.

La sera della partenza Habana 326 si ritrova per l’ennesima volta in black out. Le candele trasformano la Casa Alta di Elvira in un altare della Santeria. Bandèra, già nero di suo, mi confida che, di fronte agli stranieri, i mulatti si sentono persone invisibili. I bianchi turisti sono entità divine, che non si capisce da dove vengano e dove vadano. Arrivano e offrono alle nostre donne molto più di quello che potrebbero immaginare. Tre sue amiche hanno capito l’antifona. Studiano all’università e mantengono la famiglia prostituendosi per 150 dollari a sera. Se ti capitasse di conoscerle, mi dice, non le scambieresti per prostitute, bensì per figlie di qualche facoltoso cubano. Questo è l’unico modo per uscire dall’invisibilità e aderire alla divinità dei bianchi, altro che Santeria.

Sull’aereo che mi restituisce all’Europa, rileggendo gli appunti del mio Moleskine, trovo una nota di Elvira. Tu non te ne andrai come una pagina qualsiasi di un libro che non si apre. Io ho aperto il libro e mi fermo a leggerlo quotidianamente. Amare non è occupare il posto di qualcuno, ma creare un luogo che non sia occupato da nessuno. A Madrid, cerca Maite Pacheco, in Calle Paseo de l’Habana. È una madrilena che ha lavorato a Cuba, ti dirà cose interessanti. L’ho avvertita che andrai a trovarla, ti aspetta.

Maite, laureata in economia, figlia di uno degli albergatori andalusi più importanti di Spagna, ha rinunciato ai favori che la posizione di papà le avrebbe garantito, offrendo il suo contributo in America Latina per conto dell’UNICEF. A L’Avana è vissuta un anno, portando avanti un progetto studiato per i bambini cubani, incentrato sui temi dell’educazione alla democrazia e dell’interscambio tra i popoli.

L'Avana, foto di Paolo Ghiotto MarinImmagina le difficoltà che si possano affrontare sull’isola di Fidel con un programma del genere. Ho svolto la mia attività con il fiato sul collo e l’alito pesante della sicurezza rivoluzionaria, poco propensa a sopportare intrusioni straniere, soprattutto su questioni di carattere sociale così delicate. Facevo lezione ai bambini sotto lo sguardo delle telecamere e registrata dai microfoni. Con la consapevolezza di dover seminare un messaggio tra le righe a una gioventù poco abituata al rapporto concreto con la verità e la libertà.

Maite è testimone di un’esperienza negativa, anche dal punto di vista umano. Non mi è piaciuto vivere a L’Avana. Maite considera che la caratteristica principale del popolo della Capital è la falsità, pochi davvero sono gli onesti. La corruzione e la falsità che li opprime, portano la gente sull’orlo di un suicidio etico che è latente. Probabilmente perché soffocata dal modello che il regime ha impresso sulla psicologia collettiva. Personalmente, ho subito cinque furti, tre per strada e due in casa, dove hanno svaligiato tutto. Le chiavi dell’appartamento erano in possesso di persone fidate, coloro che credevo amici.

Pur non condividendo il suo modo di vedere, un’esperienza così diversa dalla mia, diventa un controcanto vertiginoso che spalanca dubbi e vuoti, impossibili da risolvere facilmente. Quel che Maite afferma, io l’ho vissuto a L’Avana, solo in sensazioni momentanee quanto capogiri. Di una cosa sono certa, a Cuba non ritornerò mai più, preferisco lavorare in Bolivia o in Colombia. Anche qui si ha a che fare con la chiusura mentale della gente, ma non è lo stesso.

La comunità Europea stanzia finanziamenti stratosferici, che non trovano, però, un’applicazione concreta. Questo non vale solo per Cuba, ma pure per Croazia, Bosnia e Serbia, poco intente a sedersi attorno a un tavolo e collaborare. Castro è uguale. Dopo la visita del Papa, aveva dato l’impressione di aprire la stretta, ma poi, vistosi soprassedere in certe linee di politica interna, ha battuto i pugni sul tavolo e, riprese le redini in mano, ha dato un bel giro di vite alla politica economica dello stato. A quel punto non c’è stato più nulla da fare. Non ha capito che le diplomazie straniere, e in particolar modo quelle europee, s’impegnano soltanto per creare autocoscienza, e che, senza obiettivi programmati, ci si sveglia al mattino e ci si lascia andare in giro per le strade senza sapere come impiegare il proprio tempo, racimolando soltanto spiccioli, qualsiasi metodo, lecito o illecito, si utilizzi.

Segue con Anima Avana Duemila

L'Avana, foto di Paolo Ghiotto Marin

Foto di Paolo Ghiotto Marin ©

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