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Scrittura

Michele Cinque

Il suono della fabbrica

Michele CinquePresentato al Teatro Comunale di Monfalcone in occasione del Centenario del Cantiere Navale, LavoroLiquido di Michele Cinque è il primo di una serie di eventi che il Festival Absolute Poetry ha voluto dedicare quest’anno al tema del lavoro. Si tratta di un documentario musicale che attraversa la preparazione dello spettacolo Makina curato da Luigi Cinque, ne incontra i protagonisti, li interroga sulle loro personali esperienze con il lavoro.

Il personaggio che ci accompagna lungo questo viaggio è l’operaio tipico, l’ispiratore di Vogliamo Tutto di Nanni Balestrini (1970): Alfonso ha fatto tutti i lavori, è emigrato dal Sud, protagonista delle lotte del ’69 alla Fiat, è oggi un artigiano e intaglia il legno a Salerno, costruisce giocattoli per bambini, ma è prima di tutto un uomo che non ha mai smesso di interrogarsi sulle dinamiche sociali. Proprio questi racconti conducono il film attraverso il mondo del lavoro: dall’Italia del Boom economico alla precarietà contemporanea, attraverso il progressivo ed inesorabile declino del ruolo della fabbrica. La musica e la poesia sono la naturale colonna sonora di questo viaggio, dove allo spoken word di Lello Voce si affiancano la tradizione popolare di Lucilla Galeazzi, la tromba di Michael Gross (collaboratore, fra gli altri, di Frank Zappa), le musiche di frontiera del Balanescu Quartet, le invenzioni poetiche di Aldo Nove e quelle ritmate di Raiz.

Sarah Gherbitz (SG): Com’è nata l’idea di LavoroLiquido?

Michele Cinque (MC): LavoroLiquido nasce all’interno di Makina, progetto che è stato fatto per il Multimedia Labor Festival a Bologna: un’opera-poesia che spazia tra musica, videoarte e, appunto, poesia e che si è tenuta nel 2006 al Link, uno spazio alla periferia di Bologna.

Sono stato chiamato a fare la regia di quello che all’inizio doveva essere un documentario su questo concerto. Ma poi, piano, piano, il progetto si è evoluto, mi sono documentato io stesso leggendo anche molti libri, visto l’argomento talmente enorme per un ragazzo della mia età, e così mi sono confrontato con cose di cui avevo solamente sentito parlare attraverso i racconti di quello che era il lavoro passato. Ho pensato allora di incominciare proprio da lì: tutta la prima parte del film cerca di tracciare all’interno delle storie dei protagonisti quella che è stata la storia del lavoro in Italia; anche perché sia il documentario, sia il concerto-evento, dovevano parlare dei cento anni del lavoro e del centenario della Cgil, e quindi dell’evoluzione del mondo del lavoro italiano.

SG: Ci sono molte immagini di repertorio, come le hai scelte?

MC: Per la parte storica mi sono appoggiato al grande materiale dell’Archivio del Movimento Operaio e Democratico. Ho visionato un centinaio di ore di vecchi film, di documentari degli anni ‘50 e ‘60 sul lavoro e ho iniziato a schedarmi tutti i materiali, cercando delle immagini che fossero delle immagini ‘concetto’, cioè che rappresentassero quello che era l’Italia in quel momento: quindi da un’Italia ‘affamata’, quella prima del Boom economico, intorno agli anni ’30 e ’40, dove si sussisteva solamente grazie all’agricoltura, e quindi con un tipo di economia basata sul lavoro dei campi, sulle mondine, su un tipo di sfruttamento legato alla terra… per poi passare al Boom economico, con il cambiamento che tutti conosciamo.
Un cambiamento repentino e drastico, perché ha rivoluzionato completamente il modo di lavorare in Italia, in maniera molto più veloce che in altri paesi, fino a portarci a quella che, come direbbe Zygmunt Bauman, è la liquidità, la modernità liquida.

SG: Come ti sei avvicinato alle teorie di Bauman?

MC: L’incontro con Bauman è stato decisivo soprattutto per trovare questo titolo e anche in qualche modo per trovare una chiave nel raccontare la precarietà contemporanea. L’ho incontrato strada facendo, ma diciamo che tutto il progetto è stato un work in progress: la regia è stata fatta a prescindere da quelle due o tre idee che ho avuto lì sul momento, è stata sviluppata poi, durante il montaggio, guardando le immagini e leggendo dei libri.

Bauman rappresenta la precarietà contemporanea in una maniera super partes: questo perché la liquidità non è né negativa, né positiva, è uno stato della materia. I fluidi sono qualcosa che non si può bloccare in un posto fisso e che quindi sono in continuo movimento. Infatti, quando descrive ‘l’uomo liquido’, Bauman dice che le abitudini di lavoro cambiano prima che l’uomo si possa adattare a queste, al modo di lavorare, e quindi è un continuo essere in ritardo, un continuo inseguire un lavoro che c’è mentre è il salario che sta quasi scomparendo: in Italia il lavoro c’è, ma non c’è più quasi il salario.

SG: Come sei entrato, invece, in contatto con poeti e scrittori?

Michele Cinque

MC: Io personalmente sono cresciuto fin da piccolo in un ambiente di festival, mia madre scrive, quindi la poesia è sempre stata in qualche modo vicina. L’incontro con i poeti che parlano e recitano in LavoroLiquido, c osì come con gli altri artisti e musicisti, è avvenuto al Link. Abbiamo creato una soundtrack elettronica appositamente quasi per rappare i testi di Aldo Nove, per renderli quasi ossessivi.

Aldo Nove è quello che io definirei un grande filosofo contemporaneo per il suo libro Mi chiamo Roberta, ho 40 anni e guadagno 250 euro al mese. Questa parte è stata più difficile, perché la poesia ha altri tempi rispetto all’immagine, una poesia è una cosa lenta, la dovresti fare scorrere. La difficoltà maggiore è stata proprio quella di ridurla ai tempi cinematografici, al fatto di trovare un concetto e cercare di esprimerlo in maniera univoca e… come potrei dire?, subitanea. Però penso che la parola poetica all’interno di questo documentario sia molto importante, perché rende concreti tutta una serie di immaginari e di sogni: come dice Lello Voce, “bisogna che le labbra siano taglienti come i denti”, cioè bisogna parlare se si vuole ricominciare in qualche modo a unirsi per poi lottare.

SG: Perché la scelta di utilizzare i rumori della fabbrica?

MC: Makina è nato dai suoni della fabbrica, ho accompagnato i protagonisti con la telecamera in varie fabbriche a registrare i suoni dei saldatori automatici, delle catene di montaggio totalmente automatizzate che poi sono stati portati sulla scena.

Nel film c’è proprio la convinzione che il suono rappresenta l’anima dei luoghi, o che comunque veicoli tutta una serie di emozioni, di suggestioni di quello che è il lavoro, quindi nel momento in cui c’è un rumore di una catena di montaggio è come stare lì…

Il rapporto di LavoroLiquido con il suono della fabbrica è in continua evoluzione, nel senso che all’inizio parte con delle riprese in una fabbrica altamente automatizzata del Nord, e poi finisce con una fabbrica ‘morta’ che è l’ex Ilva di Bagnoli, il più grande sito di archeologia industriale italiano. E in Italia c’è stata proprio quest’evoluzione: negli anni ’80 la gran parte delle fabbriche hanno chiuso, e con la globalizzazione si sono spostate in luoghi in cui la forza lavoro costava meno. E quindi si parte dal suono dei saldatori, così perfetti e precisi, per arrivare al suono degli uccelli che nidificano dentro l’ex Ilva di Bagnoli e che rappresentano un lavoro che è ormai morto, ma anche una natura che si riprende questi luoghi che sono altamente contaminati.

SG: Al tempo stesso il film è anche un’indagine nella comunità degli immigrati…

MC: Il lavoro con gli immigrati è stato una delle parti più belle del film. Ho seguito Badara Seck (musicista senegalese della tradizione ‘griot’, nda) nel centro che è stato abbattuto l’anno scorso da Veltroni, e dove lui ha vissuto per dieci anni: si chiamava Roma Residence, un casermone gigante completamente fatiscente, in cui viveva la più grande comunità senegalese romana. L’incontro con loro è stato commovente, sono stati subito disponibilissimi a parlare e a raccontarmi che cosa vuol dire vendere cd musicali per strada quando sei un artista.

E quindi vivere la conseguente perdita dell’identità, la paura di essere arrestati o rispediti a casa e di non poter rimandare ogni giorno dieci euro a casa: quei dieci euro che garantiscono alla loro famiglia di passarsela bene in Senegal così come in Costa d’Avorio, o in qualsiasi altro posto…

Penso che siano una grandissima fonte di ricchezza anche per parlare di lavoro, per cercare di costruire un lavoro che dia la possibilità ai giovani di progettarsi un futuro, di costruire qualcosa, di non vedersi sempre sfuggire tra le mani e vedersi ‘liquefare’ i lavori, gli impieghi, i salari.

Michele Cinque

SG: Questo è il tuo secondo documentario, pensi che possa essere la strada del tuo futuro?

MC: Il documentario è un’ ‘arma’ contemporanea, perché ti mette davanti a un problema etico, che è quello di dover rappresentare non dei personaggi che tu costruisci ma delle persone che ci sono realmente, senza tradire quello che loro ti dicono: quindi già in sé ti dà una coscienza etica. Seguo i festival di documentari già da anni, per esempio, uno tra tutti, l’IDFA di Amsterdam: forse il più importante festival di documentari in Europa, in cui le sale sono sempre piene di pubblico, non trovi mai biglietti, perché è evidente che la gente ha voglia di sentire le cose come stanno, qui o lontano. In qualche modo il documentario è un’arma molto tagliente, quindi la risposta è… sì, mi piace questo tipo di linguaggio! Non so ancora cosa voglio fare esattamente, però sicuramente, per ora, è un modo molto forte di dire le cose.

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