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Scrittura

Enzo Minarelli

Scomposizioni semiotiche

Per fare l’intervista ad Enzo Minarelli rubiamo quasi tutto il tempo che l’artista ha a disposizione per provare il pezzo da presentare in scena, tra meno di un’ora, nello spettacolo Faber dei Fabbri, il giro di versi contaminati in immagini e suoni, che i poeti invitati all’Absolute Poetry dedicheranno all’opera di Fabrizio De Andrè.

Enzo Minarelli

Emiliano sanguigno che conserva ancora l’entusiasmo degli esordi, Minarelli rivela, in un rapido botta e risposta, la profonda dedizione e applicazione serbata alla poli-poesia, una tecnica tutta sua di proporre poetica, che riscuote, come ci racconta lui stesso, un notevole successo anche tra i banchi di scuola. La predisposizione alla performance traspare sin dalla video intervista che proponiamo, peculiarità che ribadirà con grande energia, di lì a poco, sul palco del teatro comunale di Monfalcone, nonostante il furto delle prove subite.

Paolo Ghiotto Marin (PGM): Nella tua opera di scompositore della parola — che quasi ne recupera un’ancestralità, che è come un’archeologia poetica — vorrei che ci raccontassi il rapporto che hai con la proiezione della parola in commistione con colori o sonorità che ti accompagna da quasi trent’anni.

Enzo Minarelli (EM): Ti ringrazio del termine“scompositore” che mi si addice molto di più del termine “compositore” e rimanda all’elemento musicale. All’inizio per me è stato un lavoro sulla parola, nel senso che mi sono avvicinato alla parola, l’ho un po’ annusata e ho visto, parlo di trent’anni fa, che era molto inflazionata. Allora ho cercato di andare alle origini, di andare quasi ad un livello pre-babelico, cercando anche una purezza della parola. Per fare questo non era possibile restare al livello della scrittura ma ho dovuto “uscire” nella vocalità e nell’oralità. È soltanto in quella situazione puramente acustica che vai a vedere la pulsione primigenia della parola.

Era una parola naturalmente pulita dalle scorie quotidiane, da quel suo essere inflazionata che in qualche modo riviveva nel mio lavoro. Per quanto riguarda poi il collegamento con gli altri media, hai citato una parola magica per me, ricordo il manifesto pubblicato nell’87 che è il Manifesto della Polipoesia, il quale teorizza, nel punto 6, la performance di poesie sonore. La parola di per sé resta sempre l’elemento più importante: una parola pulita, purificata, se vuoi anche una parola multiparola capace di ammaliarci e di espandersi.

Enzo MinarelliQuesta parola non è di per sé sufficiente perché deve relazionarsi al mondo dei media: quindi la musica, quindi l’immagine — che sia statica come una diapositiva o dinamica come un’immagine video, o anche l’immagine stessa che il poeta porta con sé sulla scena — intendo un abito, come diceva Balla nei tempi antichi: “l’abito non è mai neutrale”. Questa parola pura, questa parola multimedia, si relaziona con gli altri elementi tecnologici ma resta sempre una sorta di privilegiata; resta primadonna perché, se questo non dovesse capitare, ci si muoverebbe nel modo della performance d’arte, oppure sarebbe una canzone, sarebbe body art, comunque non sarebbe polipoesia. L’elemento vocale funge sempre da guida. Amo dire, appunto, “è primadonna”. Non è neanche primo inter pares, è proprio un concetto gerarchico. Penso che questo sia l’elemento chiave per comprendere cos’è la performance di poesia sonora.

PGM: Facciamo una sorta di “veronica inversa”: cos’è rimasto di Minarelli nella produzione “classica” della poesia sulla carta?

EM: Come tutti i poeti sonori anch’io sono nato come poeta lineare. Il mio primo libricino fu pubblicato dal compianto Adriano Spatola nel lontano ’79, si chiamava Obscuritas Obscenitas: era un lavoro sulla retorica, un libricino di circa quaranta pagine. Quel libricino mi diede, allora, una certa notorietà perché una sezione di quel libro venne inserita da Renato Barilli in un libro che lui allora stava realizzando che era La ricerca intraverbale — viaggio al termine della parola, edito dalla Feltrinelli. Come vedi sono nato come un poeta lineare.

PGM: E oggi?

EM: Oggi cosa resta… La scrittura è un po’ come il primo amore: tu lo tradisci, lo tradisci e lo tradisci però non lo dimentichi. Per quello che mi riguarda, ho fatto incursioni a più non posso nell’oralità e nel suono, ma ogni tanto ritorno nella poesia. Ad esempio, c’è questo libro appena uscito che s’intitola O’ grande ventre dell’onda, cui stasera attingerò nella mia performance, che è comunque poesia scritta; come vedi qualcosa è rimasto. Ma attenzione: nella poesia sonora, nella performance, di scrittura non c’è assolutamente nulla, nella performance l’elemento scritto non compare mai; il poeta ha memorizzato e introiettato il suo testo e lo esegue performando. Quando questa sera eseguirò la performance parlando del naufragio del London Valour, davanti non avrò nulla: quando depongo il libro vado vis-a-vis col pubblico.

PGM: So che c’è una parola che ti è molto cara; vorrei chiederti cosa ti dice “precipitevolissimevolmente” e vorrei che tu ci spiegassi il lavoro che hai compiuto attraverso questo amore per la destrutturazione della parola stessa.

EM: Chi mi conosce sa che la parola che amo di più è “poema”, che è un classico del mio repertorio e che ormai ho eseguito in mezzo mondo. La parola che tu hai citato, “precipitevolissimevolmente”, mi è molto cara perché ho estrapolato dal lessico italiano quella che ritenevo fosse la parola più lunga. Ne è uscito un poema sonoro che si chiama Regina – regina tra le parole italiane — nel quale queste tre parole vengono scorporate: precipite, -volissime e -volmente. Come tu hai detto compio un’opera di destrutturazione; quando ascolterai il poema, vedrai che inizia con prrr, prrrrr, prrrrrrrrrrrrrr-rrre, rrre, rre… Regina, inizia in questo modo.

Su questo devo raccontare un piccolo aneddoto: a suo tempo, metà anni ’80, ho fatto un video con la bandiera italiana. Questo video venne selezionato per i mondiali di calcio del 1990, e tutta l’installazione con questo sonoro venne impiantata allo Stadio Olimpico di Roma. Nessuno sa che l’attuale amministratore delegato della Ferrari, ovvero Luca Cordero di Montezemolo, ascoltando questo prrr, prrrr, prrrrrr chiese: “ma chi è l’autore di questa pernacchia sulla parola italiana?”. Allora vennero a cercarmi dicendomi che c’era Luca di Montezemolo che mi voleva parlare e io gli diedi questa spiegazione: quel prrr iniziale non è una pernacchia ma è l’incipit di prrrrr-regina. Se poi lei percepisce questo prrr come una pernacchia è a suo uso e consumo; non c’è nessun rapporto tra la pernacchia e la bandiera italiana e, dulcis in fundo, si vada a rileggere quella lunga paginetta che il grande Totò ha scritto sulla pernacchia . La pernacchia non è uno sberleffo ma è un atto poetico. Montezemolo ha accettato questa cosa e l’installazione poi è andata, altrimenti avrei avuto dei problemi (ride, nda)

Enzo Minarelli

PGM: Questo debordare le latitudini della parola, del colore, della sonorità e della poesia e l’offrirlo per il godimento delle persone non rischia di minimizzare o di ridurre la platea che vi si può avvicinare?

EM: Non penso. Tu sai che il tasso di informazione aumenta con l’ambiguità; se io oggi dico “ti amo”, cosa dico?… ma se invece dico “qwkjkhjxoun” magari interessa di più la seconda informazione piuttosto che la prima. È un paradosso, figurati: se come dichiarazione dicessi “qwkjkhjxoun” mi direbbero “cosa stai dicendo?”. Per dire che l’informazione trascina con sé elementi di ambiguità che attirano.

Il nostro lavoro è molto basato sull’ambiguità e sulla ripetizione: sono elementi che catalizzano. Eseguo le mie performance in Messico, in Giappone, a New York, a Parigi, in Lettonia, in Israele e arrivano benissimo. Vuol dire che ho già abbattuto la barriera del linguaggio nazionale e sono ad un livello sopranazionale: entro direttamente in quel livello della comunicazione in cui sono ormai un oggetto semiotico. Non ho più bisogno dell’elemento linguistico italiano per poter comunicare a Tel Aviv o a Tokyo. Avrete visto nel video di Giacomo Verde (Poesia italiana in Giappone) quella performance: andava benissimo al pubblico, eppure facevo una cosa che era quasi in italiano, utilizzando però degli stilemi sonori tonali grazie ai quali il messaggio arrivava. Il pubblico accetta molto bene questo aspetto performativo perché lo sente come un oggetto di comunicazione.

PGM: Non intendevo proprio il rifiuto da parte del pubblico, quanto piuttosto il rischio di ridurre il grado di fruibilità.

EM: Fino a che punto è fruibile un testo di Saba piuttosto che un testo di Montale? Chi sa che il verso libero è la cosa più difficile da scrivere? Chi conosce il verso-respiro di Withman? È tutto difficile; è il mondo della poesia che di per sé è ostico. Quest’oggetto (semiotico, ndr) ha però l’elemento spettacolare che io trovo galvanizzi soprattutto i giovani. Tengo laboratori nei licei, nelle università e ho un contatto perenne con i giovani; proprio due sere fa a Parma ho concluso un laboratorio di polipoesia con sei ragazzi tra i quattordici e i sedici anni che hanno fatto delle performance polipoetiche. Vado in questi licei per tenere 30 ore di laboratorio, questo lo faccio a Parma — in realtà lo faccio molto di più all’estero, e alla fine è sempre una cosa che incontra. Bisogna sfatare il mito della difficoltà di queste cose; trovo che si debba coniugare la ricerca con l’aspetto comunicativo e tenere sempre presente che davanti si ha un pubblico che va rispettato.

PGM: Chiudiamo col motivo per il quale sei qua ad Absolute Poetry: partecipi a questo omaggio a De Andrè e stasera, nel tuo caso particolare, partendo dal testo di una canzone ritorni alla poesia, non è forse un’operazione diametralmente opposta rispetto a quello che fai di solito?

EM: Perché non hai ancora visto quello che faccio stasera! (ride, ndr). Non leggerò un testo di De Andrè, anzi, per 4 minuti e 55 secondi opero una destrutturazione e in qualche modo mi scateno su quel testo che si potrà riconoscere a fatica. Lo renderò più ambiguo: parto dal testo scritto ma resto nell’oralità, lo eseguo secondo la cifra di Enzo Minarelli.

Enzo Minarelli intervistato da Paolo Ghiotto Marin

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