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Scrittura

Marcello Fois

Campare di storie

Fucine Mute incontra Marcello Fois in occasione della presentazione a Trieste dell’antologia Crimini italiani, edita da Einaudi e contenente un suo racconto.

Marcello Fois

Oltre a Fois, sono presenti nel volume gli autori Massimo Carlotto, Diego De Silva, Giancarlo De Cataldo, Giorgio Faletti, Gianrico Carofiglio, Sandrone Dazieri, Loriano Macchiavelli, Giampaolo Simi, Carlo Lucarelli e Wu Ming. La serata di presentazione si conclude, dopo l’incontro con l’autore, con la proiezione del film Disegno di Sangue, per la regia di Gianfranco Cabiddu, tratto da un altro racconto di Fois, contenuto nella raccolta Crimini, pubblicata dallo stesso editore nel 2005.

Marcello Fois è affabulatore nato, e la presentazione del libro ha tenuto inchiodati i presenti, affascinati da spigolature sui retroscena delle numerose esperienze dell’autore, non soltanto nell’ambito del mondo editoriale ma anche in quello della produzione televisiva e cinematografica. Fois infatti, sin dall’inizio della sua carriera, ha lavorato moltissimo anche come sceneggiatore, collaborando sul set delle prime tre serie di Distretto di polizia per Mediaset e co-sceneggiando diverse pellicole, fra cui Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni di Ferdinando Vicentini Orgnani, Certi bambini dei fratelli Frazzi e L’ultima frontiera di Franco Bernini.

Beatrice Biggio (BB): Prendiamo spunto da un aneddoto che hai raccontato durante la presentazione di Crimini italiani. Tuo padre, a quanto pare, ti chiedeva, anche quando ormai la tua carriera aveva preso l’avvio, “che lavoro fai?”, e quando dicevi “lo scrittore”, la risposta era sempre “sì, ma per campare, che lavoro fai?”. Ti sei laureato nell’86, e il tuo primo libro, Ferro Recente, è stato pubblicato nel ’92. In tutto questo periodo, che cos’hai fatto per campare? E come è poi riuscito a diventare un mestiere, quello dello scrittore?

Marcello Fois (MF): Mi sono laureato, ho insegnato, ho lavorato come bibliotecario, poi ho lavorato all’Istituto dei Beni Culturali. Ero quindi un lavoratore, più o meno precario, e il mio curriculum è stato simile a quello di molta altra gente. La scrittura non era prevista, in verità; aveva ragione mio padre, in quella fase era veramente un hobby, e come tale la trattavo. Non ho mai nemmeno fatto niente di particolare per pubblicare. Ho pubblicato un po’ per forza, diciamo. Mi avevano chiesto un raccontino per una rivista che in quel periodo alcuni miei amici stavano fondando a Bologna, io mi schermivo dicendo che quello che scrivevo non mi sembrava pubblicabile, e così è iniziata, in maniera evidentemente poco tattica. In effetti, questo tipo di atteggiamento poi funziona, è stata la scrittura a cercare me, in fondo, io non ho cercato la scrittura più di tanto, a dire la verità.

BB: Però c’è un momento in cui si comincia a guadagnare scrivendo, e quindi a campare di questo lavoro…

Marcello FoisMF: Io ho passato molti anni di gavetta entusiasta e felice, perché l’idea di scrivere e poi di pubblicare un mio libro era quasi fine a se stessa, molto bella da un punto di vista anche narcisistico. Poi le cose sono cambiate nel ’98. In quell’anno uscì una recensione su Tutto Libri de La Stampa, di un libro molto piccolo che avevo scritto per una casa editrice locale, anche in questo caso senza nessun tipo di strategia, si intitolava Sempre caro. E da lì è partito tutto. Einaudi e Frassinelli fecero una lotta intestina per pubblicare i miei libri, alla fine fui diviso equamente fra le due, nel senso che Einaudi decise di pubblicare un certo tipo di miei libri e Frassinelli un altro. Così è iniziata, poi è venuta la collaborazione con la televisione, che rappresenta la reale fonte di sostentamento, e poi piano piano ho capito che si poteva fare.

BB: Sempre caro è il primo libro di una trilogia che a breve diventerà tetralogia — ci risulta che l’ultima parte verrà pubblicata a breve — in cui il protagonista è un personaggio realmente esistito nella storia della Sardegna, Sebastiano Satta, avvocato, giornalista, poeta. Tu ne hai fatto un investigatore, e hai creato per lui delle trame noir calate nella realtà del tempo in cui Satta ha vissuto. Come ti è venuta quest’idea e quanto è importante la città di Nuoro in questo senso? Nuoro è anche la tua città, l’hai definita “Entità inventata e inesistente. Vita nel sottosuolo. Lentezza esasperante delle cose. Velocità irrazionale dell’intuito. Senso della storia. Storia di nonsense”. Quanto sono importanti nell’ambientazione dei romanzi queste caratteristiche uniche di cui parli?

MF: Sono caratteristiche uniche ma comuni, sotto certi aspetti. Nuoro è una città che ha più letteratura che senso civico. E, incredibilmente, quanto è assente Cagliari dall’idea letteraria di Sardegna, tanto è presente Nuoro, pur essendo piccolissima. È una città stranissima, ha una quantità di letteratura propria che forse nemmeno Trieste ha. E questo è un dato strano. Per le mie storie di Bustianu ho inventato davvero molto poco, anche l’investigazione allora era un compito che gli avvocati difensori svolgevano regolarmente. Credo, fra l’altro, che recentemente la possibilità per gli avvocati di svolgere le indagini sia stata di nuovo introdotta nel nostro ordinamento.

Sebastiano Satta era fra le altre cose anche un poeta, quindi io non ho cambiato quasi nulla del personaggio. Ho semplicemente attuato una regola che mi sembra fondamentale, e cioè quella di scrivere di ciò che si conosce. Se tu inizi a scrivere di ciò che conosci o cerchi di conoscere molto bene quello di cui scrivi, il rapporto con il lettore cambia. Esiste un rapporto di fiducia, che dipende dal fatto che il lettore capisce che non lo prendi in giro. Nuoro è stata quindi l’idea di scrivere di qualcosa che io conoscevo bene, sostanzialmente, e Bustianu era un personaggio già fatto, e quindi non avevo bisogno di inventarlo. Questi sono i pilastri teorici, se vogliamo, tutto il resto lo fa la storia.

BB: Questa regola — scrivere di ciò che si conosce — ci riporta all’errore di credere allo stereotipo dello scrittore ispirato e distante dalla realtà che lo circonda, stereotipo cui ti opponi fortemente. M’interessa sapere se credi che ci sia un ritorno da parte degli scrittori contemporanei alla scrittura su commissione, per così dire. Mi riferisco per esempio al fatto che per le raccolte di Einaudi è stato chiesto agli scrittori di ambientare le loro storie in un certo luogo e di trattare determinate tematiche, oppure allo scrivere per il cinema o la televisione, dove spesso le storie e le ambientazioni sono determinate da esigenze di produzione e di audience. Come succedeva ai tempi in cui i mecenati commissionavano opere d’arte; se la scrittura è un mestiere, e non soltanto ispirazione, scrivere su richiesta non è certamente un limite alla produzione artistica.

Marcello FoisMF: La scrittura è anche ispirazione… ma il punto è un altro. Noi viviamo in un Paese che ha il 90% dei beni culturali del mondo. Di questo 90%, almeno l’85% è stato realizzato su commissione. Questo significa che non è detto che la commissione uccida il talento. Se il talento non c’è, c’è poco da commissionare, anzi, il talento si esprime proprio sfuggendo alle maglie della commissione. Del resto, il talento dello sciatore è quello di non toccare i paletti quando scia, e quello dell’artista deve essere quello di fare un percorso netto senza lasciarsi bloccare dai paletti che gli vengono imposti. Sotto certi aspetti, quindi, la commissione è auspicabile, dal mio punto di vista. Non mi è mai interessata la libertà, come dire, teorica, perché è finta. Se andiamo a vedere, anche gli artisti che hanno teorizzato la libertà assoluta del fare arte, scopriamo che hanno un curriculum pazzesco, rigoroso, che hanno frequentato tutte le accademie. A guardare i primi quadri di Picasso ti viene un colpo, ti rendi conto che era un pittore iperrealista con una mano strepitosa, non diresti mai che ha poi finito per rifare il primitivo, per intenderci.

Le strade che gli artisti seguono sono molto diverse, non c’è una linearità nell’atteggiamento artistico. Però ci sono alcuni punti fissi. Se tu non hai una base, il tuo talento non ti serve a un accidente. Non te ne fai nulla del talento se non sai dove impiegarlo. Se non hai un territorio per far camminare questo talento, questo rimane prigioniero. Io dico sempre ai ragazzi che prima di creare bisogna imparare. Non puoi fare lo scrittore se non sei un lettore, per esempio. Chi non legge non ha nessuna possibilità di diventare uno scrittore. Chi dice il contrario mente, semplicemente vuol fare una boutade, perché la cosa è irrealizzabile.

BB: Abbiamo sfiorato appena l’argomento dell’identità sarda, vorrei che ci parlassi di quello che spesso affermi rispetto all’integrazione e all’autonomia, che, tu dici, paradossalmente in Sardegna non sono affatto disgiunte. Ne parli nel contesto dell’arte, dicendo che tanti scrittori autonomi, ma insieme, sono forti e fanno forte la loro terra, aprendo reali ipotesi di cambiamento. Ma ne hai parlato anche per quel che riguarda la situazione politica locale, e potremmo dire che questo concetto ha ripercussioni anche a livello nazionale.

MF: Credo che troppo spesso su questo argomento si faccia di tutta l’erba un fascio, e invece i dibattiti sono fatti di sfumature concordate. Non è vero che l’identità di un luogo sia depressa dal fare parte di un’entità più grande. Io credo che ai sardi essere italiani abbia fatto bene. Non credo che la strada dell’indipendentismo sia una strada intelligente, anzi. Credo però che la coscienza con la quale tu arrivi in una comunità ti specifichi. Tu sai perfettamente, come me, essendo sarda, che noi abbiamo inconfessatamente una specie di sindrome del figlio cadetto. Ci sentiamo meno amati da questa nazione di quanto noi l’amiamo, e quindi abbiamo la tendenza ad essere più realisti del re, spesso, perciò ad essere più italioti o più sardi di quanto sarebbe necessario. Abbiamo un rapporto non rilassato con la nazione di cui facciamo parte, anche linguisticamente direi. Quando diciamo “Vado in continente”, per esempio, questa è già una forma di estraniamento geografico, e ancora peggio è dire, come faceva mio padre, “Andiamo in Italia”…

BB: Una cosa del genere si dice anche a Trieste…

Marcello FoisMF: Ecco, vedi, non è una specificità sarda, è un problema che molti hanno per altri aspetti. Capire che non siamo unici, per esempio, a me questa cosa è servita a crescere. Io mi sono sentito molto meglio, come sardo, quando ho capito che non ero un caso a parte, al contrario di quello che molti pensano, ovvero che il valore delle etnie stia nella loro unicità. Non è così, il valore delle etnie è nella loro possibilità di comunicare. Io sono semplicemente uno che va in giro facendo il sardo, che non si vergogna di esserlo, a cui piace l’idea di esserlo e che non deve specificarlo ogni secondo, “sono sardo”…

Perché l’identità è così, l’identità è quello che sei, tu non vai in giro dicendo “sono donna” oppure “sono bruna”, la gente lo vede; allo stesso modo dovrebbe vedere che sei sardo, e questo non dovrebbe costituire assolutamente un problema. Non dico per gli altri, per noi, perché il punto è che essere sardi è stato un problema per i sardi. E se lo diciamo a Trieste, che siamo sardi, ha un valore doppio. Noi per farla italiana, siamo morti a grappoli, quindi dovremmo essere fra quelli che ti spiegano che essere dentro una nazione vale un sacrificio. E invece, è strana questa cosa, abbiamo fatto tutte le guerre per questa nazione e ancora dobbiamo entrare dalla porta di servizio. Questo andrebbe discusso storicamente.

BB: Questo lo hai scritto anche in un bellissimo articolo su Sergio Atzeni (scrittore cagliaritano, autore, fra gli altri, del romanzo Il figlio di Bakunin, portato sullo schermo da Gianfranco Cabiddu, nda) nel quale, parlando del suo Passavamo sulla terra leggeri, dici che la civiltà non è grande perché unica ma quando riesce ad includere rinunciando alla propria unicità…

MF: È quello che porti tu. Come se tu fossi invitato a pranzo, e ti dicessero ognuno porta qualcosa. Una cosa è se tu porti le sebadas (dolce sardo: una sfoglia ripiena di formaggio che si mangia fritta con sopra zucchero o miele, nda), una cosa è se porti gli spaghetti al pomodoro. Bisogna decidere: ci sono i sardi che, invitati a pranzo, portano gli spaghetti al pomodoro, che sono neutri e che in qualche modo non ti compromettono, perché lo spaghetto piace a tutti. E ci sono sardi che al pranzo, al desco generale, portano la sebada, e ti dicono “assaggia, che è buona”. Questa è una metafora di questo atteggiamento che mi sembra funzionante.

Io sono di quelli che portano le sebadas. Senza folklore, ovviamente. Il folklore mi fa inorridire, è una delle piaghe che affligge tutti. Ieri sera guardavo la televisione, e anche voi qui in Friuli siete messi mica male da questo punto di vista… a proposito di trasmissioni trash sulle radici… Io pensavo che “Sardegna Canta” fosse l’orrore massimo, invece ho scoperto che esiste anche “Lo scrigno”, una trasmissione friulana sui proverbi, sulla “campagnolità” dei friulani… terrificante! Queste sono consolazioni…

BB: Forse il folklore, essendo qualcosa di granitico, quasi, dà sicurezza.

MF: Il punto è che il folklore non è memoria, non ha niente a che fare con la memoria. La memoria è minuta, il folklore è economia del passato, monetizzare sul passato prossimo. La memoria è altro, è quello che tu colleghi direttamente a quello che fai e che vivi, è quello che in qualche modo ti cambia anche la visione del mondo. Questa gente non parla di memoria, parla di passato in senso consolatorio. Poi, voglio dire, devono dimostrarlo, che il passato fosse meglio del presente… I nostri nonni non erano così d’accordo sul fatto che il passato fosse meglio. Mio nonno ha vissuto da queste parti, è partito nel ’15 ed è tornato a casa sua nel ’22. È stato ad Asiago dal ’15 al ’17. Dal ’18 al ’22 è stato di stanza a Trieste, e a sentir lui… ecco, non credo abbia fatto una vita migliore della mia, onestamente, checché ne dicano questi signori. Il fatto d’avere il bagno in casa è una differenza non da poco, piuttosto che andare in cortile. Avere tutti le scarpe, mangiare tutti i giorni, qualche differenza c’è…

BB: A proposito di vecchio e nuovo, vorrei chiederti di parlarci di questa dicotomia nell’ambito politico. Ti sei espresso in modo molto forte rispetto alla diatriba sulle primarie del Partito Democratico in Sardegna, segnalando l’atteggiamento di chiusura di una sinistra ancorata a vecchie dinamiche, e coalizzatasi per escludere Soru. Questo discorso, se vogliamo, potrebbe essere esteso anche a livello nazionale…

MF: L’esperienza friulana, per esempio, è stata assolutamente pilota da questo punto di vista. Cioè, se non si interviene, Soru farà la stessa fine di Illy, per intenderci. Non sono molto diversi, come peso, come entità, e non sono stati molto diversi anche come novità, da un punto di vista amministrativo. Però, questo è un Paese che le novità non le vuole, sostanzialmente. E la sinistra italiana ancora meno. La sinistra italiana è un club di suicidi, come avrebbe detto Stevenson, ed è gente che ha il terrore di governare, questo è il punto. Ci sono delle realtà locali dove invece si trova ancora una sinistra che non ha paura di governare, che viene costantemente trombata dai suoi stessi compagni; non sono state mica le opposizioni a fare questo lavoro.

In Friuli Illy non ha perso perché l’opposizione ha fatto chissà quale campagna, e anche Soru, se mai perdesse, non perderà certo perché l’opposizione sarda si stia sperticando con chissà quali trovate… Semplicemente, il Partito Democratico, in Sardegna, sta facendo in modo che Soru non vinca. L’errore è alla base: noi abbiamo perso il treno di un reale rinnovamento. Abbiamo fatto un Partito Democratico, apparentemente nuovo, con regole vecchie, semplicemente per garantire lo stipendio ai politici di carriera. Non abbiamo fatto niente di particolarmente nuovo, di fatto. Questi politici di carriera adesso non vogliono governare, vogliono ritornare alla Santa Opposizione. Cioè, quando erano tranquillamente stipendiati per la Presidenza ics, per la Commissione ipsilon, avevano la loro piccola satrapia… e fanno governare gli altri. Si sta molto meglio a esercitare il potere localmente nel proprio piccolo…

BB: Tu hai scritto, oltretutto non essendo riconoscibili, e quindi sfuggendo alla responsabilità…

Marcello Fois intervistato da Beatrice Biggio

MF: Questi signori hanno fatto “sbagliare” Soru, per così dire. Come nel governo Prodi, quando i ministri dell’estrema sinistra facevano le manifestazioni contro il governo di cui facevano parte. Ora, io sono del parere che sia giusto manifestare, però devi uscire da un governo contro il quale devi manifestare. Dal mio punto di vista la chiarezza politica sarebbe stata dire “non sono d’accordo con questo governo, perciò ne esco”. E così sta accadendo anche nelle realtà locali, cioè sta avanzando il vecchio per mantenere perlomeno i privilegi dell’opposizione, perché se va avanti così perderanno anche quelli. Questi non hanno voglia di rinnovare nulla, specie se significa starsene a casa o lasciare il posto alle nuove generazioni. Sono gli stessi che parlano tanto di rinnovamento, ma sono lì da trent’anni. Quindi le nuove generazioni cosa fanno, dove sono? Chi sarebbero le nuove leve? Veltroni? Veltroni dovrebbe dare spazio a questo nuovo corso, perché se no non se ne esce.

BB: Seguendo il filo delle dicotomie, mi piacerebbe ci parlassi di quello di cui hai raccontato in Memoria del vuoto, un altro romanzo dove il protagonista è una figura storica realmente esistita, il bandito Samuele Stocchino. Di lui hai fatto una metafora, di questa sua doppiezza che riguarda sempre l’essere sardi ma può naturalmente estendersi all’universale, della quale parlava anche Sciascia in Todo Modo, quella di essere al contempo un anarchico e un reazionario. Questa metafora rende appunto universale la storia, se vogliamo unica e locale, del bandito braccato che è anche però un eroe di guerra…

MF: Le storie sono sempre un pretesto. Ci si illude di raccontare qualcosa che non è mai stato raccontato prima, ma non è possibile. Non è così e non deve essere così. In letteratura, raccontare qualcosa che non è mai stato raccontato è assolutamente non interessante. Non c’è nessun motivo di raccontare qualcosa che non sia mai stato raccontato, anzi. La scommessa che l’autore fa è proprio quella di raccontare la sua versione di qualcosa che è stato sempre raccontato. Del resto, se ci si fa caso, quante sono le storie che ci raccontiamo? Pochissime. A e B vorrebbero sposarsi e non ci riescono. C vuol tornare a casa e non ce la fa. Fine. Tutto l’Occidente ha raccontato queste due cose, che poi unite in un’unica storia sarebbero: D vuole raggiungere un obiettivo e trova delle difficoltà. La letteratura scrive di quelle difficoltà, l’obiettivo quasi non importa in letteratura. Non è interessante.

Copertina dellìantologia di racconti scritti tra gli altri da Marcello Fois

La storia della signora Giovanna che va a comprare le patate e le trova non interessa a nessuno, non è una storia. Se la signora Giovanna cade per strada mentre cerca di trovare queste patate, e le patate sono fondamentali per la sopravvivenza dei suoi figli, allora stai raccontando una storia. È la difficoltà a trovare le patate che devi raccontare, il punto è sempre quello. Non è quello che racconti, è come lo racconti. Allora, venendo io da una cultura che si è tutta organizzata oralmente, dove aveva senso la trasmissione diretta, ascoltare e memorizzare, pensa a quanto diventa importante questo concetto. Il matrimonio saltato, per esempio, è Giulietta e Romeo, Tristano e Isotta, I promessi sposi. È sempre la stessa storia. Che cosa cambia? Il giovane Holden e Ulisse sono esattamente la stessa storia, dov’è la differenza? Entrambi non riescono a tornare a casa. Il punto è la voce di chi racconta, che pausa usa, in che modo ti racconta diversamente la stessa storia. Questo è il succo, la sostanza del fare letteratura. Se no, fai un’altra cosa, semplicemente.

BB: L’ultima domanda è ovviamente su Trieste. Non so se esiste un rapporto particolare fra te e questa città, ma, oltre al filo conduttore che abbiamo rintracciato anche nei temi toccati in precedenza, ci sono comunque stati vari contatti fra te e Trieste in passato. Hai collaborato ad un’iniziativa della Illy un po’ di tempo fa…

MF: “Illystories”, sì. Sono fascicoletti ormai introvabili. Non mi dire che ce li hai…

BB: Magari! Non si trovano…

MF: Addirittura su un sito era stato indicato come uno dei libri più rari che ci siano. Sono cinque fascicoletti dentro uno scatolino. Molto elegante, tra l’altro. Io ne ho una sola copia…

BB: Fra l’altro, tutte le raccolte successive sono reperibili su Internet, quella no. Non c’è più neanche il link, è sparito.

MF: È il più prezioso… (ride, nda) La prima raccolta, credo. C’eravamo io, Dacia Maraini, Giuseppe Cederna… Erano cinque fascicoletti sul viaggio.

BB: E ce li siamo persi! Comunque, c’è invece un romanzo che verrà pubblicato credo quest’anno… (Fois scuote la testa, nda) No, non ce la facciamo? Ok, a breve, quindi, La pace bianca. È ambientato in parte a Trieste, ed è una storia molto interessante. Sempre la stessa storia, ma raccontata in un altro modo (ride, nda), attraverso un epistolario, esattamente. Un uomo che scrive tre verità diverse a tre persone diverse, e racconta cosa sta accadendo in questi luoghi e dentro di sé.

Marcello FoisMF: Io ho un rapporto personale, sentimentale con Trieste. Credo che Trieste sia il primo luogo fuori dalla Sardegna di cui credo di aver avuto coscienza. Avevo un’adorazione totale per mio nonno che qui, come dicevo prima, aveva fatto la Grande Guerra da sottufficiale, e poi si era trattenuto a Trieste con la Brigata Sassari durante il Governo Speciale, quando era avvenuta la sistemazione post-bellica della città. Gli Slavi andavano via, gli Austriaci venivano invitati a lasciare il territorio italiano, alcuni restavano, altri andavano. In quei quattro anni qui è cambiato il mondo, si è passati dalla burocrazia mitteleuropea a quella italiana, una stagione di trasformazioni straordinaria.

Di Trieste quindi sapevo molto di più che di altri luoghi, anche perché i racconti di mio nonno erano straordinari. Era un posto di estremo esotismo per me, era come l’Oriente estremo, per intenderci. Ci sono venuto quando mio nonno è morto — tra l’altro, mio nonno è morto centenario, nel ’78, quando io ho fatto l’esame di maturità — ed è stato il mio primo viaggio subito dopo la maturità, quasi come omaggio a lui. Poi ci sono stato varie altre volte…

Sono venuto credo nel ’94, per una manifestazione che si chiamava “Raccontare Trieste”, con Pietro Spirito, con Ferracuti, con Guido Conti. In quell’occasione ho scritto il primo germe de La pace bianca, che ho sviluppato, pensa, quindici anni dopo. Da quel raccontino è scaturito, adesso, il romanzo. Poi sono tornato varie volte, e credo che tornerò anche a Ferragosto, perché voglio farla vedere ai miei figli, voglio portare anche il più piccolo che non c’è mai stato. È un legame affettivo che ho, quello con questa città, mi entusiasma sempre, sono sempre molto contento di essere qua.

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