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Scrittura

Davide Lisino

Italian cowboy

Copertina di Italian Cowboys di Davide LisinoFederica Tammarazio (FT): Ciao Davide, prima di iniziare con il botta e risposta, vorrei raccontarti e darti ovviamente la possibilità di smentire tutto quello che scrivo, perciò interrompi o aggiungi dettagli, anche scabrosi, dove ti sembra necessario.

Sei nato nel 1977 e hai passato la tua vita a Torino, fino a un paio di anni fa, quando ti sei trasferito a Roma. Per il 90% della tua vita, quindi, hai vissuto nella stessa città, dove hai studiato prima alla facoltà di Giurisprudenza, e successivamente alla Scuola Holden. Una domanda che c’entra poco ma mi incuriosisce: come mai hai cambiato idea, rispetto alla laurea di partenza?

Davide Lisino (DL): Fin da bambino mi è sempre piaciuto leggere e guardare film. Mentalmente inventavo spesso delle storie che mi sarebbe piaciuto leggere o guardare al cinema. Poi, quando ho iniziato l’università, ho anche provato a scrivere sul serio. All’inizio erano sceneggiature per il cinema, ne ho scritte tre. Così ho scoperto che scrivere mi divertiva un sacco. E, dato che Legge non mi piaceva e il pensiero di lavorarci tutto il giorno ancora meno,ecco spiegato perché ho cambiato idea.

FT: Per quello che fa sapere la tua sintetica biografia, sei un appassionato di cinema e di arti marziali. Comincio dalla seconda delle due passioni: quale arte marziale? Dicono che le differenze siano enormi, non solo nella pratica, ma soprattutto nella componente interiore… Seppellisco io l’umiltà per te, così ci togliamo subito il pensiero: sei bravo?

DL: Dai quindici anni ai ventotto ho praticato il karate ma, da quando sono sceso a Roma, per mancanza di tempo, purtroppo non mi alleno più. Spero sempre di poter ricominciare. Una volta me la cavavo niente male, ora, senza allenamento costante, onestamentesono molto poco in forma. Come anche negli altri sport,ci vuole una pratica continua.

Per quanto riguarda la componente interiore, invece, mi è stata e continua a essermi molto utile. Non dà solo maggior sicurezza, ma rende anche consapevoli dei propri limiti e aiuta ad avere concentrazione, autocontrollo, disciplina, flessibilità mentale, capacità di adattamento. Tutte cose che nella vita (e anche nella scrittura) ho scoperto essere molti utili. Non è sempre facile metterle in pratica, ma anche quella è una questione di allenamento.

FT: Tornando al cinema, come tutti gli amanti della sala buia e del grande schermo, hai sicuramente un genere preferito, anche se, leggendo il tuo libro, ti sento vorace e onnivoro… Perciò ti voglio fare una domanda difficile, che a me personalmente crea crisi e sensi di colpa indicibili, e in stile Hornby: dammi la tua triade dei migliori film di ogni tempo.

Locandina del film Il mucchio selvaggioDL: Il mio genere preferito, in realtà,è l’avventura. Il noir, almeno il noir che piace a me, è appunto quello avventuroso o d’azione, dove il detective deve affrontare pericoli e avversari rischiando la vita per arrivare alla verità e risolvere il mistero. Le storie alla Agata Christie incentrate sulla pura soluzione intellettuale dell’enigma mi interessano poco. Per quanto riguarda la triade di film, mi metti effettivamente in crisi, tre sono troppo pochi. Però d’istinto dico: Il mucchio selvaggio, Fuga da New York, L’ultimo boyscout.

FT: Salto alla fase più recente: adesso sei a Roma e ti occupi di sceneggiatura. È così immediato il passaggio dalla scrittura letteraria alla sceneggiatura televisiva? Quali sono state le tue difficoltà, e cosa invece ti ha insegnato di nuovo questo modo di applicare la scrittura?

DL: Riguardo alla prima domanda, la risposta è no, non è immediato, ma non è nemmeno così antitetico. Innanzitutto perché ho studiato sceneggiatura e avevo già provato a scriverne, come ti ho detto. E poi oggigiorno anche gli scrittori di romanzi vengono influenzati dal cinema, nel senso di essere abituati a pensare soprattutto per immagini e dialoghi. Tanto è vero che adesso non si parla più di romanzo, ma di post-romanzo. Se gli scrittori dell’Ottocento impiegavano magari quattro pagine per descrivere un salotto, oggi basta soltanto una riga, perché il lettore ha molti più riferimenti mentali per poterselo immaginare. Anche nel modo di concepire e montare le scene, la grammatica cinematografica ha influenzato la letteratura. Io sicuramente ne sono stato molto influenzato. Le vere difficoltà che si incontrano semmai sono di livello pratico. I film o le fiction costano molti soldi e la fantasia deve fare i conti con il budget disponibile. Quello che ho imparato invece, è stato appunto capire che, anche in un romanzo, la componente visiva è fondamentale.

FT: La domanda più ovvia: il legame tra la Scuola Holden e il tuo romanzo. Ma prima di entrare direttamente nel merito vorrei sapere come hai vissuto quest’esperienza formativa.

DL: Per quanto mi riguarda, la Scuola Holden è stata un’ottima esperienza. Ho imparato cose sulla scrittura che non sapevo o che sapevo a livello intuitivo, ma di cui non avevo consapevolezza.

FT: Cosa può dare un percorso del genere? Che lettura bisogna dare a una scuola di scrittura creativa come quella fondata da Baricco? Quali i suoi punti di forza e, ovviamente, quelli deboli?

DL: La Scuola Holden ti aiuta a diventare scrittore consapevole, nel senso di saper “smontare il giocattolo” della scrittura e vedere come funziona per giocarci meglio. Che lettura bisogna dare? La lettura che si dà a tutte le scuole di scrittura, comprese quelle americane. Si imparano i trucchi del mestiere e si creano i contatti per il futuro, dato che gli insegnanti sono fra i migliori professionisti nel campo della scrittura e della narrazione in generale. Quanto al punto debole, penso che non riguardi la scuola in sé, ma i singoli insegnanti che vengono a insegnare. Non è detto che un grande scrittore o sceneggiatore sia anche un buon insegnante. Ma questo vale in qualunque aspetto della vita, mi pare.

FT: Il romanzo Italian Cowboy è edito da Fandango nella collana quindici Libri: un’idea interessante, che gioca anche sulla mania di collezionismo letterario che imperversa oggi, dalle edicole alle grandi librerie. Ho letto le regole della collana, diretta da Baricco e Voltolini: sono, o perlomeno sembrano, democratiche ed egualitarie. Viste dall’interno, come le leggi?

DL: All’inizio mi sono sembrate strane — anche perché, che io sappia, è un’idea che non ha precedenti — però, in fondo, non me ne sono preoccupato granché. La mia intenzione, e anche quella della casa editrice, era di pubblicare un buon romanzo, che non facesse preferire di aver pestato una merda o maledire il giorno in cui lo si è comprato. Mi auguro che l’obbiettivo sia stato raggiunto.

NoirFT: Il titolo Italian Cowboy fa pensare a tutto, tranne che a quello che vi si troverà all’interno: un’ambientazione insolita, tra Torino e la Valle d’Aosta, un co-protagonista che non è un cowboy, ma questo è il suo nome d’arte, in un ambito tutt’altro che bucolico, il cinema pornografico.
E infine il protagonista: Sergio Ventura, un detective con un sacco di problemi sentimentali, un duro, un po’ sfigato. Che guarda a Philip Marlowe, ma anche a Sam Spade. E forse non disdegna anche Hap e Leonard, gli “eroi” di Lansdale. Da amante del noir e dell’hard boiled, ci ho visto un sacco di cose, e ho sentito di non essere l’unica. Cosa ti ha ispirato la nascita di Sergio Ventura?

DL: Mi fa molto piacere che tu abbia citato Hap e Leonard. Joe Lansdale è il mio scrittore preferito, leggerei anche la sua lista della spesa e sicuramente il suo modo di scrivere mi ha influenzato, è inutile negarlo. Così come mi hanno influenzato sia Marlowe che Spade. E pure Joe Hallenbeck, l’investigatore privato interpretato da Bruce Willis nel film L’ultimo boyscout. Anche se, nel creare il detective Sergio Ventura, ho fatto questo ragionamento: Ventura è un tipo che da ragazzo ha letto Chandler e Hammett e ha fatto l’investigatore privato proprio perché voleva diventare come gli eroi di carta che lo affascinavano. Ma ora che è davvero un detective si è accorto che, per quanto sia un duro, la vita che gli è toccata è stata più dura di lui e pure le sue capacità di investigatore sono limitate. Per certi versi è un Fantozzi noir.

FT: Domanda fuori luogo: Fandango è anche una casa di produzione cinematografica. Come vedresti sul grande schermo il tuo Ventura?

DL: È molto in luogo, invece. Chissà che prima o poi non lo pensi anche la Fandango. Lo vedrei proprio bene un film tratto dal mio romanzo…

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