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Musica

Giuseppe Verticchio

Percorsi oltre il suono

Copertina album di VerticchioGiuseppe Verticchio si muove nell’ambito dell’elettronica sperimentale. Ha un progetto solista, Nimh, collabora con Andrea Marutti (l’uomo dietro alla Afe Records) al progetto Hall Of Mirrors, gestisce un sito web (oltreilsuono.com) dove cerca di segnalare le uscite sperimentali più significative di marchio italiano. È molto eclettico: i suoi dischi suonano familiari a chi ascolta le diramazioni ambientali dell’industrial, ma possiedono una componente etnica che risveglia l’attenzione di chi segue Steve Roach e simili. Non va dimenticato che anche la chitarra gioca un ruolo in alcune tracce, nelle quali viene spesso utilizzata in chiave ambientale, come oggi sempre più spesso accade (senza scomodare il passato chiamando in causa Fripp & Eno, oggi artisti come Fennesz, Oren Ambarchi, Aidan Baker riscuotono consensi), né bisogna scordarsi dell’appena citato Hall Of Mirrors (con un secondo disco di prossima uscita), un progetto nel quale l’eclettismo di Giuseppe trova una nuova profondità grazie ai drone vastissimi di Andrea Marutti/Amon. Come introduzione può bastare: l’esaustività di un Giuseppe davvero gentile e disponibile fa già tutto da sola.

Fabrizio Garau (FG): Giuseppe, sei nella musica da molti anni. Come hai iniziato e come ti sei appassionato all’elettronica?

Giuseppe Verticchio (GV): Il mio interesse più “generico” per gli strumenti e per la musica nasce fin dagli anni della mia infanzia e dell’adolescenza. Nonostante nessuno nella mia famiglia suonasse strumenti (solo mio padre si dilettava un po’ con l’armonica a bocca), fin da bambino sono stato sempre circondato di “oggetti sonori” di vario genere, strumenti musicali giocattolo e non (ricordo un organo Bontempi, uno xilofono, una fisarmonica, flauti e varie armoniche a bocca, uno scacciapensieri, un kazoo, bonghi, una chitarra acustica Eko…); inoltre sempre da bambino mi era stato regalato uno dei primi registratori a cassette Philips con tanto di microfono, e fin da allora ricordo che, oltre ovviamente ad usarlo per ascoltare musica, mi piaceva girare per casa e per i boschi quando ero in vacanza in Abruzzo registrando suoni e rumori inconsueti. Non voglio dire che questo era già il “segno” che un giorno nella vita mi sarei interessato in modo così sostanziale di musica e sperimentazione, ma sicuramente era indice di una certa istintiva attitudine e di una particolare sensibilità verso ciò che, in qualche modo, fosse inerente il “suono” o, in senso più lato, la percezione uditiva.

Per quanto riguarda la passione per la musica elettronica, posso dire che è nata verso la seconda metà degli anni ’80, quando, già appassionato di musica elettronica “di consumo”, ebbi occasione per la prima volta di ascoltare la musica di Klaus Schulze e di altri artisti della “scuola di Berlino”. L’ascolto di Timewind di Schulze fu una specie di folgorazione, uno “spartiacque” che progressivamente mi condusse a scoprire con grande curiosità e interesse lo sconfinato universo della musica elettronica, sperimentale, ambient e generi musicali in qualche modo “attigui”.

FG: Come nasce il tuo interesse per la musica etnica? Al Giuseppe critico, chiedo anche di spiegarmi perché molti progetti nel tuo campo d’azione finiscono per integrare il loro sound con suggestioni non occidentali.

Giuseppe VerticchioGV: Anche in questo caso debbo dire che c’è stato un episodio in particolare, e cioè l’avere assistito nel 1997 ad un concerto di Steve Roach e Vidna Obmana a Verucchio, che “mosse” in me in modo decisivo la “leva” dell’interesse verso le sonorità etniche. In quella circostanza vidi per la prima un didjeridoo, ne ascoltai per la prima volta il suono dal vivo, e ne rimasi estremamente affascinato… In seguito riuscii, peraltro con una certa difficoltà, a procurarmene uno (in bamboo) a e imparai a suonarlo da autodidatta, maturando al contempo l’interesse per la musica tradizionale degli aborigeni australiani. Da lì ad ampliare gli orizzonti del mio interesse verso i suoni degli strumenti etnici originari di altre parti del mondo il passo fu breve…

In realtà c’è da aggiungere che nel 1996 avevo vissuto per quasi un anno intero in Thailandia, e durante quella mia lunga permanenza avevo già raccolto intorno a me alcuni strumenti etnici e tradizionali locali, con i quali avevo tra l’altro effettuato delle registrazioni, in parte “confluite” nel mio recente CD The Missing Tapes edito da Silentes.

Per quanto riguarda la mia musica personale, la ragione per cui i miei lavori integrano spesso nel loro sound elementi di tipo etnico o comunque di impronta “non occidentale” è semplicemente e “fisiologicamente” ricollegabile alle mie passate esperienze di vita, alla mia personalissima visione della musica e al mio altrettanto personalissimo “gusto”… La mia grande passione per tutto ciò che è in grado di emettere, “catturare” ed elaborare suoni, che si tratti di macchinari elettronici, software musicali, strumenti acustici, etnici, semplici oggetti d’uso quotidiano, unita al mio progressivo maturato interesse per le musiche orientali (medio ed estremo oriente) trova in qualche modo nella mia musica una sua sostanziale “sintesi”, che unisce quindi in una “formula” piuttosto personale e anche di una certa “variabilità” tutto ciò che in qualche modo ha influito negli anni sulla mia crescita, sia come semplice fruitore/ascoltatore, sia come autore di musica.

Credo che questo discorso, con gli ovvi distinguo e le varianti dei singoli casi, valga un po’ per tutti gli artisti/progetti che si interessano di musica sperimentale e di ricerca… Ricerca non significa ovviamente “ricercare” un suono tra i preset di uno o più sintetizzatori, né procurarsi un singolo “apparecchio” (uno strumento musicale, un PC con software, un registratore di Mini Disc) e ricercare attraverso questo ristretto contesto soluzioni musicali d’avanguardia, né tanto meno significa avere una visione così limitata da non sentire prima o poi la necessità di aprirsi mentalmente e musicalmente anche a influenze sonore che provengano dall’esterno “geografico” del paese o del continente in cui viviamo; sperimentazione è anche questo, e quindi trovo abbastanza naturale il fatto che in questo ambito anche altri artisti facciano talvolta ricorso ad elementi/suggestioni di musica non occidentale.

FG: Nelle tue Missing Tapes sono presenti registrazioni che provengono direttamente, credo, dalle strade thailandesi. Qual è la loro funzione all’interno della tua musica? Che cosa volevi restituire all’ascoltatore?

GV: Sinceramente dietro la mia musica non c’è mai un “disegno” in qualche modo pensato e definito a priori, né mi preoccupo di immaginare e “programmare” ciò che, via via che compongo musica, desidero poi “trasmettere” a chi la ascolterà…

Copertina albumLa mia musica nasce per lo più in modo molto spontaneo e diretto, prendendo magari in mano uno strumento, improvvisando delle parti, e premendo il tasto “REC” del mio software di registrazione su PC al momento in cui mi sembra di aver trovato uno spunto interessante… Poi magari mi viene in mente che a tale parte si abbinerebbero bene delle vecchie registrazioni ambientali che ho archiviato da tempo sul mio hard disk, e allora attraverso il software di montaggio audio provo a vedere l’effetto delle due tracce combinate insieme… Se la cosa “funziona” magari poi procedo ulteriormente… In base al risultato ottenuto scelgo istante dopo istante cos’altro sarebbe interessante inserire, come sviluppare il brano nel tempo… e così via via aggiungo, correggo, organizzo…

La composizione per me è un processo assolutamente istintivo, che ovviamente solo in una seconda fase, quando ad esempio un brano ha già preso una sua sostanziale “forma”, diventa decisamente più “ponderato”, rigoroso, metodico, giacchè per me ha sempre fondamentale importanza curare in modo quasi “maniacale” anche i minimi dettagli, sia per quanto riguarda la realizzazione di un singolo brano, sia ancora di più quando si tratta di mettere a punto il master definitivo di un CD. Cerco quindi di considerare sempre non soltanto l’aspetto puramente “emozionale” della mia musica, ma di avere anche particolare attenzione per quanto riguarda gli aspetti tecnici, la pulizia e la qualità del suono, le dinamiche, le equalizzazioni, le resa complessiva del master. Gli elementi che trovi all’interno dei miei CD, che siano parti “suonate”, rumori, field recordings o quant’altro, e quindi anche le registrazioni ambientali effettuate in Thailandia utilizzate nel mio CD “The Missing Tapes”, sono delle semplici componenti che, contestualizzate e miscelate insieme alle altre, cercano soltanto di creare un risultato sonoro complessivo piacevole, contribuendo in qualche modo a quello che dovrebbe essere, almeno nelle intenzioni, un risultato emotivamente coinvolgente, che poi è l’unico vero “obiettivo” che, quando compongo la mia musica, miro effettivamente a raggiungere.

FG: Utilizzi anche la chitarra in chiave ambient. Negli ultimi tempi questa “declinazione” dello strumento (non nuova, in realtà) trova sempre più spazio. Penso a Fennesz, penso a Oren Ambarchi, a My Cat Is An Alien, penso anche al cosiddetto filone “drone-metal” (di recente ho ricevuto il disco di Fears Fall Burning, ovverosia Dirk Serries di Vidna Obmana, progetto storico, che si cimenta col drone di chitarra). Si tratta di una nuova tendenza o si tratta di un caso?

Verticchio a lavoroGV: Per quanto mi riguarda si tratta di una cosa assolutamente casuale, seppure in una certa misura questa scelta di riutilizzare la chitarra può anche essere stata influenzata da ciò che, come appassionato di musica, quotidianamente mi capita di ascoltare. In tutta onestà debbo dire che, eccetto Vidna Obmana, conosco solo molto superficialmente gli altri nomi che hai menzionato.

Voglio dire che, nell’ambito della musica ambient-elettronica-sperimentale e dintorni, è normale che, per fare un esempio, dopo aver fatto per molti anni “indigestione” di musica basata su suoni di sintetizzatori elettronici quando i costi di tali macchine erano diventati finalmente “abbordabili” favorendone una ampia diffusione, e dopo aver fatto analoga “indigestione” di musica “sperimentale” basata quasi esclusivamente su field recordings quando il “miracolo” della registrazione microfonica digitale di buona qualità si è concretizzato in forma di registratori portatili di Mini Disc a basso costo (ormai anch’essi già caduti in disuso e superati dalle nuove tecnologie…), è naturale che poi si finisca per cercare strade e sonorità diverse, e in questo quadro generale vedo quasi “fisiologico” anche un ritorno a strumenti più “tradizionali” come la chitarra, che magari per anni erano stati dimenticati o quanto meno messi un po’ da parte.

Nel mio caso specifico devi sapere che per circa quindici anni ho “abbandonato” la mia chitarra acustica nella casa di mio padre in Abruzzo (dove l’estate vado spesso in vacanza), anche se, nella casa a Roma dove abito, non mancavano certo altri strumenti a corda, seppure di tipo completamente diverso.

Nell’estate del 2003 vennero a trovarmi per la prima volta in Abruzzo Andrea Marutti (Amon, Never Known) e Matteo Uggeri (Hue, Sparkle in Grey), e lì, insieme anche con Giulio Biaggi (Nefelheim), improvvisammo e registrammo delle performances utilizzando tutto ciò che di “sonoro” avessimo a disposizione, inclusa quindi anche la mia vecchia chitarra acustica e la chitarra elettrica di Nefelheim. Fu in quella occasione che, per la prima volta dopo molti anni, tornai a rivalutare la chitarra e a considerarla come strumento potenzialmente “utilizzabile” anche nelle mie successive realizzazioni. A titolo di curiosità aggiungo che alcuni brevi frammenti di registrazioni effettuate quell’estate sono poi stati utilizzati da Hue nel suo CD “Un’estate senza pioggia”.

C’è voluto poi del tempo per riprendere un po’ di dimestichezza nell’utilizzo dello strumento che avevo per troppo tempo abbandonato, per procurarmi una chitarra elettrica (ed effetti) che comunque vedevo più adatta alle mie esigenze rispetto ad una chitarra acustica, e per trovare quindi il modo più efficace e a me più consono per inserirla in qualche modo all’interno della nuova musica che stavo andando a realizzare…

Già nel 2005 la chitarra elettrica è comparsa in piccola misura nel mio CD Subterranean Thoughts, nonchè nei CD Secluded Truths e Toghether’s Symphony realizzati in collaborazione con Maurizio Bianchi/M.B. e pubblicati da Silentes, e poi ancora in Sator con Amon, in Reflections on Black sempre in collaborazione con Amon attraverso il nuovo progetto Hall of Mirrors, e infine, in misura molto più ampia e in una forma molto più evidente, nel mio recentissimo The Unkept Secrets, uscito quest’anno ancora per Silentes ma in realtà già terminato di registrare nel 2007.

FG: C’è stato un periodo nel quale eravamo inondati da cloni di Lustmord e altre uscite ambient/dark ambient. Hai mai avuto paura di essere gettato in qualche calderone o in qualche moda?

GV: Direi proprio di no. E se qualcuno ha, impropriamente, inserito il mio nome in qualche “calderone” evidentemente non conosce la mia musica, o la conosce soltanto in minima parte, oppure scrivendo lo ha fatto soltanto per necessità di estrema sintesi o per dare una indicazione molto “di massima” su come possa essere collocata e “catalogata” stilisticamente la mia proposta musicale.

Verticchio che suona il didgeridooCiò che da sempre ha caratterizzato la mia musica, è proprio la scarsa propensione ad adagiarsi su sonorità e soluzioni già abbondantemente collaudate (spesso inflazionate direi…) da tanti altri artisti del passato e del presente.
Ovviamente tutta la musica ambient, elettronica, sperimentale ecc.. che da appassionato ho ascoltato per anni ha sostanzialmente influenzato la musica che poi sono andato a realizzare, e tutto ciò che mi capita di ascoltare quotidianamente mi è tutt’ora di grande aiuto e stimolo…

Credo però che, nella mia musica personale, tutte queste influenze siano state in qualche modo rielaborate, integrate, miscelate, trasfigurate, sintetizzate in una forma molto particolare e distinguibile, poco “classificabile” e immediatamente riconoscibile (anche se i miei CD sono spesso molto diversi fra loro), e questo è uno degli aspetti che, personalmente, considero di assoluta importanza.

Ovviamente è sempre possibile cogliere delle analogie tra la mia musica e quella di altri artisti, ma un conto è una analogia o una sorta di “riferimento/citazione” e un conto è, come tu stesso dicevi, un inutile, sterile, e magari ripetuto e poco fantasioso tentativo di “clonazione”…

Anche in tempi recenti infatti, specie in ambito dark-ambient, mi capita spesso di ascoltare CD magari ben fatti, piacevoli da ascoltare, tecnicamente ben realizzati, ma in realtà talmente simili tra loro nella sostanza, negli intenti e nelle sonorità da non riuscire quasi a distinguere un CD (o un artista) dall’altro. Questa è una cosa che, parlando da semplice appassionato/fruitore/ascoltatore di musica, mi infastidisce (e mi annoia…) parecchio, e quindi, quando mi trovo dietro gli strumenti, mi viene piuttosto istintivo orientarmi verso forme sonore che non siano troppo stereotipate e già abbondantemente usate e abusate.

Da appassionato ascoltatore di musica voglio approfittare di questa occasione proprio per esortare le etichette di produzione ad essere un po’ più lungimiranti e ambiziose in questo senso, consigliando di non limitarsi a selezionare e produrre CD o CD-R semplicemente “ben fatti” e che magari siano facilmente “vendibili” perché immediatamente riconducibili ad alcuni filoni che più o meno “tirano” (tipo la “classica” dark-ambient tanto per dire…) ma di sforzarsi di cercare, promuovere e produrre più coraggiosamente musica che esca dagli stereotipi consolidati e che sia in grado di dire qualcosa di veramente originale e diverso, o quanto meno di portare qualche valida “ventata” di novità.

FG: Gestisci oltreilsuono.com, “un sito interamente dedicato alla musica ambient-elettronica-sperimentale-etnica-industriale italiana”. Senza ruffianeria, io lo leggo spesso in quanto appassionato. Quanto è difficile in Italia riuscire a far “girare” certi dischi? Una battaglia persa in partenza o qualche soddisfazione arriva?

GV: Purtroppo in Italia il mercato di questi CD rimane un mercato piuttosto di nicchia; si tratta di prodotti che non è facile far circolare e diffondere, e con il passare del tempo la situazione sotto questo punto di vista sembra andare sempre peggio.

Copertina albumInoltre l’avvento dell’MP3 e del file sharing inteso come “download selvaggio”, uniti ad una certa diffusa scarsa sensibilità, per non parlare di una vera e propria ignoranza dilagante per quanto riguarda non solo la capacità di comprendere ed apprezzare musica di tipo non convenzionale di un certo livello, ma persino sulle elementari nozioni a proposito di come e attraverso quali strumenti sarebbe opportuno fruire la musica in senso più in generale (basti pensare che ai CD audio ascoltati attraverso i “vecchi” e meticolosamente combinati impianti HI-FI di buona qualità e di un certo costo si vanno ormai sostituendo DVD masterizzati contenenti centinaia di brani compressi in formato MP3 che vengono riprodotti attraverso mortificanti diffusori di plastica da pochi euro collegati direttamente alla scheda sonora del PC…) hanno fatto sì che negli ultimi anni le vendite di CD siano scese vertiginosamente, costringendo molte etichette del settore a ridimensionare notevolmente, quando non a cessare del tutto, la propria attività di produzione.

Paradossalmente, per un discorso prettamente “modaiolo” e orientato più al collezionismo “puro” e fine a se stesso che non alla vera passione per la musica, sembra che, parallelamente alla diffusione dell’MP3, sia in crescita la richiesta di produzioni su vinile. Un “ritorno al passato” decisamente fuori luogo e assolutamente anacronistico che fa presa soprattutto sulle giovani generazioni, affascinate un po’ ciecamente dalla “stranezza” di quegli arcaici e ingombranti supporti analogici come i vecchi LP, che evidentemente non hanno “sofferto” in passato, come quelli della mia generazione, della fastidiosa, ineluttabile, talvolta davvero insopportabile invadenza “sonora” di tutti quegli scricchiolii, tic, tac e scoppiettii che, ascoltando in passato soprattutto “quieta” musica ambient su vinile, finivano talvolta addirittura per prevaricare il contenuto prettamente sonoro, sacrificando in notevole misura il piacere dell’ascolto.

Verticchio a lavoro

Parlando di soddisfazioni, non posso negare che, nonostante tutto, ce ne sono comunque, e abbastanza puntualmente vengono a gratificare la mia continua dedizione ad un’ attività che occupa ormai da anni grande parte del mio tempo libero; ma se per “soddisfazioni” intendi invece grossi riscontri dal punto di vista prettamente economico non mi sentirei certo di consigliare a nessuno di “puntare” sulla musica sperimentale per trovare un mezzo di facile e sicura sussistenza.

FG: Mi collego alla precedente domanda: cosa ci consiglia l’esperto nel 2008? Un’etichetta e un progetto, ove possibile.

GV: Più che da “esperto” preferisco più modestamente risponderti da semplice appassionato e fruitore di musica. In questo momento, rimanendo sempre in ambito italiano, ti risponderei Final Muzik come etichetta e Apart come progetto…

Per chi non la conoscesse (anche io ho avuto il piacere di conoscerla soltanto da pochi mesi) Final Muzik è un etichetta friulana fondata nel 2004 e curata da Gianfranco Santoro, orientata alla produzione di musica sperimentale, elettronica, industriale, ma anche neofolk e “nuova pop music”.

In tempi recenti ho avuto occasione di fare uno scambio di materiale con Gianfranco, dopo avere già avuto modo di ascoltare un paio di CD usciti per Final Muzik, e debbo dire di avere sinceramente apprezzato tutti i CD che ho ricevuto.

Tra le produzione sicuramente interessanti degli anni scorsi di Final Muzik voglio sicuramente segnalare Tower/Microphone di Teho Teardo, Lullabies From Our Dreams di We Wait for the Snow, Morituri Te Salutant e Raise Your Paw To The Sky And Break The Truce di Mariae Nascenti, Regel di M.B. (Maurizio Bianchi, una ristampa), Inesorabile del progetto Corpoparassita; per quanto riguarda invece le produzioni del 2008 consiglierei il fantastico Across The Empty Night di Apart, progetto di Francis M. Gri (cofondatore ed ex membro del tutt’ora attivo progetto italiano All My Faith Lost…), nel quale compare tra l’altro, nella impareggiabile traccia di chiusura Fading Tears, la straordinaria e suadente voce di Viola Roccagli degli All My Faith Lost.

Copertina album di VerticchioFG: Mi sono piaciute molto le tue collaborazioni con Andrea Marutti (Sator, uscito a nome Amon + Nimh, e Reflections On Black, uscito col monicker Hall Of Mirrors). Io penso che tra voi vi sia una sorta di completamento. Che cosa aggiunge Andrea al tuo suono? E cosa pensi di aggiungere tu al suo?

GV: Io e Andrea ci conosciamo bene ormai da parecchi anni, e questa circostanza ha fatto sì che la nostra collaborazione si fondasse su basi piuttosto solide. C’è tra noi amicizia, stima reciproca, e sostanzialmente ognuno di noi apprezza la musica che l’altro realizza abitualmente nei propri lavori in solo. Abbiamo diversi punti in comune, ma anche attitudini e capacità diversificate, e questo ci rende in qualche modo effettivamente “complementari” e adatti a lavorare fianco a fianco per realizzare musica che riesca ad unire con una certa efficacia le nostre pur diverse esperienze musicali personali.

Per questo siamo riusciti probabilmente ad ottenere risultati che, in modo molto equilibrato e assolutamente “naturale”, sintetizzano in una forma musicale abbastanza omogenea e coesa quelli che sono i nostri singoli apporti individuali, realizzando CD come il già citato Sator, Reflections on Black, e un altro album già pronto ma ancora non pubblicato (Forgotten Realm), che sarà il secondo “capitolo” del progetto Hall of Mirrors.

Riflettendo su cosa ognuno di noi “aggiunge” al suono dell’altro, posso dire che Andrea ama “lavorare” molto con i sintetizzatori e, in senso più generale, con macchinari elettronici, campionatori…

Ama sperimentare con catene di effetti collegati in cascata, e ha inoltre ha una certa propensione per atmosfere e sonorità “drone oriented” dagli andamenti solitamente lenti, dilatati e molto progressivi.

A me piace molto invece utilizzare strumenti acustici ed etnici, o anche la stessa chitarra elettrica (che compare in modo molto sostanziale nel secondo CD di Hall of Mirrors ancora da pubblicare…), il tutto rielaborato tramite effetti, che suono solitamente in modo molto istintivo e “diretto”, registrando delle parti che vado poi a miscelare a substrati di origine elettronica, realizzati spesso con sequencers e soft synth o altri suoni di origine diversa, lavorando molto dettagliatamente nelle fasi successive sul montaggio/missaggio delle singole parti, e prediligendo atmosfere e “andamenti ” un po’ più “veloci” e con momenti di maggiore “immediatezza” e impatto rispetto a quanto usa fare Andrea abitualmente.

FG: Come succede spesso con l’ambient, mi accade di perdere la cognizione del tempo quando ascolto qualcosa di tuo. È uno degli effetti che vuoi ottenere? Se no, che reazioni ti aspetti induca un tuo disco?

GV: Come ti dicevo poco fa, nel momento in cui compongo musica non ho quasi mai in mente un obiettivo ben preciso da raggiungere, un fine ben definito da perseguire, un intento chiaro e delineato da portare a compimento, se non quello molto “spicciolo” di realizzare delle strutture sonore in grado di sollecitare l’attenzione di chi ascolta, emozionare, colpire, coinvolgere, “trascinare”, il tutto avendo al tempo stesso cura di ottenere un risultato che sia pienamente soddisfacente anche dal punto di vista tecnico e della qualità del suono. Sicuramente la mia musica, così come è concepita e costruita, attraverso la scelta e l’assemblaggio dei suoni che utilizzo, i missaggi, i tempi e le strutture dinamiche che solitamente la caratterizzano, può indurre nell’ascoltatore questo tipo di sensazione, e la cosa tutto sommato mi fa molto piacere giacchè è evidente che una musica che non “funziona” difficilmente riesce ad ottenere questo tipo di risultato…

Però, ripeto, non si tratta comunque di un obiettivo “premeditato” e “programmato”, ma piuttosto di una costante che, in modo per me assolutamente “naturale” e inconscio, tende di fatto a riproporsi in modo abbastanza “puntuale” nelle mie diverse realizzazioni.

Verticchio in concerto

FG: Credo che in dischi senza testi l’artwork possa giocare un ruolo chiave. Ho apprezzato quello di The Unkept Secrets, “classico” per certi versi, ma con una cura particolare per il dettaglio. Che cosa mi racconti a riguardo?

GV: Quando nell’estate del 2006 scattai la foto che in seguito ho scelto di utilizzare per il fronte della copertina di The Unkept Secrets desideravo che l’immagine suggerisse un senso di antica decadenza, rappresentata dalle vecchie mura dell’anfiteatro romano, unita alla presenza “discreta” ma al tempo stesso un po’ “inquietante” di una forma umana evanescente, “immateriale”, in un certo senso quasi “spettrale”. Nel 2007, quando avevo terminato di realizzare il master definitivo di The Unkept Secrets e stavo iniziando a pensare alle grafiche, mi venne subito in mente quella serie di foto scattate di notte all’interno dell’anfiteatro romano, e quell’immagine in particolare mi sembrò particolarmente adatta a descrivere le atmosfere oscure, le inquietudini e anche i forti contrasti presenti nella musica del CD.

Decisi così di adottarla, e quindi completai le grafiche del booklet utilizzando altre fotografie. Una di esse era molto simile, trattandosi di fatto della stessa identica inquadratura “privata” però della “presenza umana”. Le altre tre foto sono state invece scattate all’interno di una grotta sita nell’area archeologica di un’ antica villa Neroniana, ma su un paio di esse ho aggiunto “artificiosamente” quella che sembra essere la sagoma della stessa “presenza umana” che compare sul fronte della copertina del CD.

Le grafiche da me realizzate sono state poi lievemente riadattate da Akifumi Nakajima (Aube) al momento in cui il CD è stato prodotto da Silentes, ma si è trattato più che altro di piccoli “aggiustamenti” che hanno mantenuto sostanzialmente intatta l’impostazione che avevo concepito e il lavoro da me fatto in precedenza.

FG: Parliamo del famoso problema dell’elettronica dal vivo: la mancanza di performance, la difficoltà a tenere viva l’attenzione, gente che si siede dietro a un laptop e fa partire tutto in automatico. Le esibizioni live sono qualcosa per pochi realmente interessati o c’è una soluzione per rendere più coinvolgente questo particolare tipo di concerto?

Copertina albumGV: Su questo argomento ci sarebbe da parlare parecchio, e io ho una mia personalissima visione delle cose che probabilmente in molti non condivideranno. Partendo proprio dalle tue parole prendo spunto e poi estenderò maggiormente il discorso… Parli di “mancanza di performances”, ma a dire il vero secondo me c’è invece, paradossalmente, persino una eccessiva proliferazione di cosiddette performances live di musica presuntamente “sperimentale”, tanto è che nella mia casella email arrivano quotidianamente notifiche di nuove “rassegne”, singoli “concerti”, “performances”…

Il problema è che in realtà un buon 90% di queste sono poco più di fumo negli occhi mirate a “catturare” ingenui, incompetenti, e gente comune che ha poche conoscenze in materia di musica sperimentale ed elettronica; si tratta infatti per lo più di situazioni di livello qualitativo estremamente basso che, più che all’insegna di una “vera” e seria sperimentazione, sono piuttosto all’insegna di un più generico e spesso patetico e autocompiacente “famolo strano” (facciamolo strano), per citare un’espressione usata da un personaggio di un film di Carlo Verdone…

Parlo quindi proprio di “concerti” tenuti quasi esclusivamente con un laptop e poco altro, oppure di inconcludenti e spesso assolutamente insignificanti set di improvvisazioni, magari di gruppo, messe sù in quattro e quattr’otto con una faciloneria disarmante; parlo di performances proposte in locations e contesti assolutamente inadeguati a valorizzare una musica che, invece, richiede condizioni di fruizione molto particolari e ben diverse da quelle richieste ad esempio da un concerto di musica rock; parlo di “concerti” in cui gli artisti non hanno a disposizione un palco e spesso neanche spazio e supporti sufficienti per organizzare e montare la propria strumentazione; parlo di performances tenute da artisti letteralmente “sbattuti” per terra in ginocchio, come spesso anche gli stessi ascoltatori presenti, ammucchiati alla bell’e meglio in sale di fatiscenti centri sociali, magari disturbati dal vociare e dal passeggiare di gente che è lì solo per caso, e cha spesso ha in mente di tutto (bere birra, mangiare, chiacchierare con gli amici, fumare, farsi le canne…) fuorchè assistere in silenzio, e con la necessaria attenzione, ad una performance live di musica sperimentale…

Copertina albumParlo di “concerti” tenuti con sistemi di amplificazione inadatti e insufficienti a riprodurre dignitosamente le infinite sfumature che soprattutto nella musica di tipo ambient-elettronica assumono un ruolo assolutamente fondamentale; parlo di concerti tenuti in chiassosi e dispersivi cortili universitari adiacenti a strade trafficate, oppure tenuti su terrazze di stabili e condomini, nella tromba delle scale di qualche edificio dismesso, se non addirittura nella camera da letto dell’abitazione privata dell’ “artista sperimentale” di turno… Questo è purtroppo quello che, negli ultimi anni, è sempre più frequentemente possibile vedere e ascoltare per quanto riguarda la realtà della musica presuntamente “sperimentale” proposta “dal vivo”. È chiaro che se questo è ciò che viene abitualmente proposto, difficilmente la musica elettronica-sperimentale italiana potrà acquisire una certa “credibilità”, fare un salto di livello, e attirare a sè l’attenzione di ascoltatori e organizzatori di eventi effettivamente interessati a situazioni sonore che siano sì al di fuori dall’ordinario, ma che al contempo siano anche di un certo valore e spessore, e che non confondano la seria e rigorosa ricerca sperimentale con un più semplicistico e purtroppo estremamente diffuso, caotico e insensato “rumoreggiare” pseudo-astratto e destrutturato.

È inutile inoltre e anche controproducente dal mio punto di vista, soprattutto nella situazione attuale che ho appena descritto, cercare di “risollevare” le sorti delle performances live puntando sulla multimedialità spinta e sul tentativo un po’ “forzato” di integrare in un’ unica proposta forme espressive diverse, quali ad esempio musica, ballo, proiezioni di filmati, grafica, installazioni, e cose del genere…

Il più delle volte, anche in questo caso, il risultato che si ottiene è una sorta di “minestrone” di forme artistiche poco coese e male integrate tra loro, che impediscono tra l’altro a chi assiste di focalizzare la propria attenzione su un unico “soggetto”, generando quindi ulteriore confusione e senso di disorientamento…

Fermo restando dunque che, in ogni caso, credo sia necessario rassegnarsi e prendere atto che la musica sperimentale, e parlo di quella “vera”, è e resterà probabilmente per sempre una musica “di nicchia”, inadatta per le sue caratteristiche intrinseche e strutturali ad attirare grandi “masse” di ascoltatori, posso dirti quale è, dal mio personalissimo punto di vista, la “ricetta” per restituire al mercato della musica elettronica-sperimentale quantomeno una sua dignità e la prospettiva di un futuro un po’ più roseo di quello che si sta invece delineando all’orizzonte… Molto semplicemente, si tratta di puntare con decisione più sulla qualità che non sulla quantità, imparando a distinguere ciò che di buono e di meno buono ci viene proposto da artisti e organizzatori di eventi, e di concentrare la propria attenzione magari su poche, specifiche situazioni, ma che nascano all’insegna di una assoluta garanzia di qualità e serietà scevra da compromessi…

Copertina albumQuindi, e mi rivolgo sia agli artisti che agli appassionati ascoltatori di musica, disertate senza indugio, se non addirittura “boicottate”, tutte quelle situazioni che non garantiscano la fruizione delle performances live in contesti che offrano, come minimo, un locale dignitoso e silenzioso dedicato esclusivamente alla fruizione del concerto, un adeguato sistema di amplificazione, un palco o comunque uno spazio sufficiente, ben organizzato e confortevole per consentire agli artisti di montare la propria strumentazione ed esibirsi al meglio, comodi posti a sedere per i presenti che verranno ad assistere alle performances.

Il concerto di un artista credo che dovrebbe tornare ad essere una specie di “evento”, ben preparato, organizzato, curato nei dettagli, sicuramente ancora più raro, ma in grado poi di rimanere per sempre nei ricordi e nel cuore delle persone che sono andate ad assistervi, magari accettando di buon grado, per l’occasione, il disagio di doversi spostare dalla propria città e percorrere molti chilometri in automobile o in treno per raggiungere il luogo dell’evento, o quello di dover pagare un biglietto di ingresso che comunque, presumibilmente, non sarà mai superiore al prezzo di una cena del sabato sera in pizzeria…

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