Galleria Mazzini a Genova, inaugurata nel luglio del 1874, è uno dei rari esempi italiani di passages parigini. La Galleria è posizionata a ridosso del teatro d’opera Carlo Felice, assiduamente frequentato da Giuseppe Verdi, trasferitosi nel capoluogo ligure alla fine del 1877. In quella galleria, presso il ristorante della Posta, Verdi, Puccini, De Amicis e altri intellettuali del tempo si ritrovavano per discutere di politica, donne e musica, ovviamente.
Nel corso degli anni, la galleria ha subito diversi restauri: ha ceduto il suo pavimento al comune di Pontremoli, ha visto l’avvicendamento tra vecchie botteghe e negozi in franchising, ma tutto questo non ha intaccato il suo fascino discreto, soprattutto in inverno, quando Genova è cupa e infreddolita da una lieve brezzolina e Galleria Mazzini diventa un naturale riparo per giovani artisti di strada.
Lo scorso inverno, una domenica uguale a tutte le altre, giravo per il mercatino dell’antiquariato di Galleria Mazzini, inaugurato qualche anno orsono dai vecchi bancarellisti Michele Amilcare Tolozzi, Giacomo Bertoni e Italo Muccini. Genova è sempre stata terra naturale di antiquariato, con il suo porto rivolto verso terre di conquista, oggi rimpiazzate da quell’Oriente che produce in serie e a basso prezzo. Proprio fra quelle bancarelle, spulciando tra vecchi titoli di romanzi e guide antiche di città ormai sconosciute, per caso ho trovato una pila di quattro volumi incelofanati, recante un’etichetta scritta a mano dal venditore Storia del teatro drammatico di Silvio d’Amico. Ad alcuni questo nome forse non dice nulla. Sta di fatto che d’Amico, uno dei più grandi amici di Pirandello, studioso e regista di teatro, è stato il fondatore dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, a lui dedicata dopo la sua morte nel 1955. L’accademia è stata frequentata dai più importanti attori italiani del dopoguerra. L’insuperata Storia del teatro Drammatico del maestro, quattro volumi in edizione originale del 1940 pubblicata da Rizzoli, è dunque un oggetto di culto per quegli attori che sui testi di D’Amico hanno studiato e sudato.
Ebbene, quel giorno, un antiquario poco attento, per una cifra oserei dire ridicola, mi cede uno dei testi di studio teatrali più ricercati in Italia. Appagato del mio acquisto ne parlo ad amici attori e registi che, visionata l’opera, indicono un’asta spontanea arrivando ad offrirmi cifre inimmaginabili per averla. Non cedo e mi tengo quel pezzo d’antiquariato.
L’odore di quelle pagine ben conservate ma ingiallite dal tempo, stampate poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia, sovente mi fa compagnia quando ho bisogno di accedere al Regno del Teatro, dove finzione e realtà s’intrecciano senza soluzione di continuità. Le litografie del Grand’Operà di Parigi, del teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo, del Teatro del Popolo di Berlino e del Teatro Narodowy di Varsavia sono come delle finestre su un’antica arte rimpiazzata da circuiti elettronici e file informatici. Sembrano passati secoli, millenni, da quando il guitto Molière faceva scandalo per ogni sua opera, e ci si rende conto di quanto i posteri dovettero ricredersi; pensi alle sofferenze di Aida, divisa tra amore e patria, e realizzi quanto sia attuale oggi il suo patimento mentre nella controversa personalità di Tosca si specchia un’epoca carente di valori.
Nell’epoca di i-pod e computer miniaturizzati, nei teatri si fa di tutto, i foyer sono invasi da calzoncini corti, jeans, magliette attillate posate su tatuaggi tribali; gli spettatori masticano ciunghe e nei momenti più drammatici mandano messaggini ad amici e amanti. Le pause tra un atto/tempo e l’altro, sono una corsa alle chips e Coca cola e non si parla più con cognizione di causa, ma si fan paragoni con la televisione, senza la quale gli attori di teatro non riescono più a vivere.
Il dramma come rappresentazione artistica è definitivamente compiuto? No, non tutto è finito, esistono ancora arti di resistenza che combattono in silenzio per mantenere viva una tradizione in decisiva rivalità rispetto a quella modernità che impone tecnologia e informatica come fonte primaria di svago. Tra queste, vi è in particolare uno spazio capace di riportare indietro le lancette del tempo, un topos che si chiama Teatro dell’Opera – sia esso il Carlo Felice di Genova, il teatro La Scala di Milano, La Fenice di Venezia o l’atipica Arena di Verona, il Teatro dell’Opera – e che alla recitazione drammatica unisce il canto; se sei all’Arena di Verona per Rigoletto o Nabucco, il tuo tempo, quello che lasci nel momento in cui ti staccano il biglietto, subisce un processo di sospensione che ti porta all’epoca imposta da Verdi.
A questo proposito, nella sua, anzi, nella mia Storia del teatro drammatico, d’Amico scrive: Il medioevo aveva fatto il teatro per il popolo Il Rinascimento aveva fatto il teatro per il fiore della società Poi nell’età barocca questo amore si mescola ai toni eroici della tragedia. Ed è proprio a partire dall’età barocca, con l’apertura del primo teatro pubblico, il San Cassiano di Venezia, nel 1637, che il melodramma acquisisce la forma che oggi noi conosciamo. Con l’introduzione del canto nel dramma, la forma dell’aria inizia a rubare sempre più spazio al recitativo e il pubblico sviluppa ben presto un gusto per le varietà musicali, gli intrecci dei personaggi esaltati dal fiorire di cantanti dal diverso registro vocale.
In Francia, il compositore francese di origini italiane, Jean-Baptiste Lully, fonda l’opera francese, dove spicca la rigorosa interpretazione musicale del testo e l’attenzione per le coreografie. Nel Settecento, il poeta Pietro Metastasio definisce la struttura drammaturgia, la metrica delle arie e auspica una assoluta serietà nelle sceneggiature. Con Mozart e Gluck viene ridotta la retorica, difficilmente comprensibile dal pubblico, a vantaggio di un più chiaro svolgimento dell’azione. La seconda metà del Settecento è caratterizzata da una furiosa disputa tra la seriosa scuola operistica francese e la scuola italiana più ironica e scherzosa. L’Ottocento operistico italiano si apre con le composizioni di Donizetti, Bellini e Rossini, per poi passare alle grandi opere di Verdi e Puccini, rappresentate a tutt’oggi nei teatri di tutto il mondo.
Questa è la rampa di lancio dalla quale parte il nostro viaggio in questo mondo sconosciuto: l’opera lirica, ovvero il melodramma. Il primo intervento propone una breve analisi storica delle opere liriche in cartellone all’Arena di Verona nel corso dell’estate 2008: Aida, Carmen, Nabucco, Rigoletto e Tosca. A questa analisi si unisce una critica al tipo di allestimenti proposti dalla Fondazione Arena di Verona, un giudizio sulle scelte di regia e sulle performance dei cantanti. Il nostro orizzonte di riferimento sarà sospeso tra passato e futuro, perché la magia del teatro è proprio questa: confondere, rifondere e rifondare passioni, immagini e costumi.
Nelle prossime occasioni entreremo più nel dettaglio di questo universo, intervistando i cantanti che in questo mondo si suddividono in tenori, baritoni o bassi, per quanto riguarda i ruoli maschili, soprani, mezzosoprani e contralti, per quanto riguarda i ruoli femminili. Visiteremo i più importanti teatri d’opera italiani, cercando di comprendere quali sono le difficoltà che incontrano artisti e operatori di questo settore. Cercheremo di capire da cosa si differenzia il canto lirico dal canto popolare e indagheremo le origini di questa impostazione vocale. Insomma, senza darci scadenze precise, proveremo a dar conto di un mondo del tutto snobbato dai giovani, con la speranza che la tradizione operistica italiana possa trovar giovamento da questa nostra iniziativa, affinché qualcuno sentendo l’aria Un bel dì vedremo della Madame Butterfly di Puccini non esclami Ah, questa è la canzone della pubblicità che senti in stazione!.
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