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Cinema

Il femminile nell’ultimo cinema di Marco Bellocchio (I)

L'anima di un uomo

Al primo posto c’è il rapporto uomo — donna, lo scontro, la difficoltà, il disastro, la tragedia, la disperazione, la felicità. Però è quella la sfida, è quello il momento della verità, della rivelazione, il momento della responsabilità e anche il momento di guadagnare la tua vita, è il momento in cui ti rapporti con una donna [1]

La figura femminile è alterità imprescindibile, elemento fondamentale per accedere alla propria conoscenza. Per Marco Bellocchio, è la condizione fondante della necessità stessa di filmare.

Marco Bellocchio

Fin dal suo fulminante esordio nel 1965, il regista piacentino si è confrontato con le rappresentazioni muliebri, partendo dalla cieca figura di madre ne I pugni in tasca: immagine asfittica e incatenante del potere della famiglia, placida nella sua impossibilità di comprendere il mondo attorno a lei e, prima di tutto, i suoi stessi figli. Una madre che rappresenta l’istituzione familiare castrante, il microcosmo in cui si riproducono le insofferenze dell’intera società esterna.

Questo atteggiamento verso il femminile è tipico del primo decennio della vita artistica di Bellocchio; immerso nel contesto culturale e produttivo del cinema degli anni Sessanta, il regista si inserisce in quella generazione di giovani cineasti che si sono sentiti «figli divorati dai padri»[2]. L’immaturità di questi artisti, incapaci di dirigere il rinnovamento di quegli anni verso una modernità delle strutture produttive, dei contenuti e dei linguaggi, è riconducibile alla mancanza di un fattore di tensione politica e morale e alla sostanziale immaturità della società italiana nel suo processo di modernizzazione. In questo spazio tra vecchi e nuovo si definisce la diversità rivendicata dai nuovi registi contro i padri, nel segno dell’emergenza di una forte coscienza di sé che aspira all’autoaffermazione e al riconoscimento. I nuovi autori sono come dei moderni Prometeo che vogliono costruire un mondo centrato sull’uomo e sull’individuo, ma anche dei Narciso impegnati nell’autocontemplazione[3].

Marco Bellocchio rappresenta l’unico episodio di una maturità possibile: con I pugni in tasca ha creato una formula artistica e produttiva in grado di confrontarsi con la maturità dei padri. Proprio la rappresentazione della famiglia, luogo esemplare e simbolico dei rapporti sociali esterni, riesce a espandere il suo significato artistico ai processi sociali e culturali che l’Italia viveva in quegli anni. Ma oltre a questo, il regista inseriva nella sua analisi anche un contenuto autobiografico, quell’universo familiare luogo di ondate distruttive adolescenziali. L’attenzione del primo Bellocchio innesta sulle proprie pulsioni narcisistiche di giovane artista la consapevolezza del momento storico che sta attraversando.

Scena di I pugni in tasca di Marco Bellocchio

Dagli anni Ottanta, le relazioni tra i personaggi diventano più aperte e complesse, gli elementi sociali e culturali più rarefatti; emergono con forza le problematiche dell’introspezione psicologica nell’analisi delle relazioni uomo-donna: la sessualità, la violenza dei sentimenti, la follia della passione, il perturbante emanato dalle figure femminili sono i modelli attraverso i quali il regista indaga l’emergere del complesso inconscio umano. Lo stesso Bellocchio dichiara nel 1989 in un’intervista a La Repubblica: «Prima c’era un’identificazione molto stretta tra il protagonista e me stesso […] E poi sono passato alle donne: all’“altro” da me»[4].

Ma dai lavori del regista non emerge un confronto con la vita psichica nel suo complesso: Bellocchio si concentra su un aspetto caratteristico, sull’Anima in particolare, osservata come archetipo in grado di rappresentare l’inconscio. Ciò che è diverso nell’uomo, ciò che non è maschile è femminile, ed è per questo che l’immagine dell’Anima è spesso accostata alle donne. Secondo Carl Jung, l’archetipo dell’Anima risiede al di fuori dell’Io maschile, essendo non-Io, ma al contempo in ciascun sesso risiede il sesso opposto. Per questo motivo, l’Anima è la regione dell’assoluto e del pericoloso, del tabù e del magico. «Serpe nel paradiso dell’uomo innocente»[5], l’Anima desidera la vita al di là del bene e del male.

Nelle opere di Bellocchio l’uomo si confronta spesso con l’Anima, incarnata nella madre, nella moglie o nell’amante, come un esploratore in una terra sconosciuta. Timorato ma desideroso, scosso ma attratto dalle molteplici forme del femminile, l’uomo si ritrova a cercare la sua Anima interiore, il diverso che è in sé.
A confermare questo percorso all’interno del mondo psicologico è d’aiuto l’esperienza dell’uomo Bellocchio, che già nella sua adolescenza iniziava a confrontarsi con le premesse di una nevrosi che lo avrebbe accompagnato anche in età adulta. Tra gli anni Ottanta e Novanta la sua vita personale e professionale si affianca alla figura dello psicoanalista Maurizio Fagioli, con il quale, oltre a firmare lavori quali Diavolo in corpo e Il sogno della farfalla, si avvicina alle tematiche dell’introspezione. Spesso i film realizzati a stretto contatto con Fagioli sono stati giudicati eccessivamente didascalici, troppo impegnati a contorcersi tra figure simboliche di un inconscio che Bellocchio cerca artificiosamente di mettere in arte. In ogni caso, l’influenza della terapia psicologica mostra i suoi influssi nel lavoro del regista a partire dalla fine degli anni Novanta, quando il sodalizio con l’analista si scioglie.

Marco Bellocchio assieme a Nardi

Nascono, tra gli altri, La balia, L’ora di religione e il documentario Addio del passato, nei quali, con forme e temi differenti, Marco Bellocchio esplora se stesso, il suo passato, la sua vita familiare in modo molto lontano dal semplice biografismo: il materiale del suo cinema non è solo un oggetto manipolabile ed esterno, ma diventa esso stesso soggetto, perché composto di uomini, perché parla di uomini con gli uomini. Essere presente nella propria opera è fondamentale per ricercare il dialogo con se stesso usando altri uomini, il dialogo con l’altro mediante se stesso. Ancora, è il diverso che esiste all’interno dell’uomo e dell’artista che viene continuamente indagato, per trovare un tipo di comunicazione artistica che sia necessaria. Bellocchio ha scelto di confrontarsi con l’altro per eccellenza, il femminile, con tutta la complessità che questa figura è in grado di muovere nell’inconscio.

Una questione speculare è di conseguenza l’assenza di una figura paterna. I giovani cineasti italiani degli anni Sessanta sono in qualche modo orfani volontari per il loro desiderio, come detto, di creare il nuovo dal vecchio. Bellocchio da I pugni in tasca, sia stilisticamente che tematicamente, si impone con la rabbiosa e aggressiva volontà di frantumare l’autorità costituita, sia essa di natura politica, sociale o artistica; l’assenza del padre si traduce allora nella sua simbolizzazione attraverso le figure del potere contro le quali lottare: famiglia, partito, caserma, collegio. Una tensione trasgressiva che Bellocchio sentiva come uomo del suo tempo, ma anche a seguito di un’infanzia familiare non felice e di un’adolescenza spesa fra un collegio cattolico e un liceo dei padri Barnabiti. Un contesto storico che per rinnovarsi deve tagliare con il passato, ma anche un personale conflitto del regista che, rimasto orfano di padre da bambino, deve cercare nella simbolizzazione dell’autorità una figura con cui confrontarsi.

Scena del film Nardi e le psicotiche di Marco Bellocchio

Tra la perdita del vecchio e l’avvento del nuovo si apre uno spazio aperto spalancato, il Caos, nel suo significato antico, al quale il pensiero occidentale ha associato elementi portatori di disvalori (il disordine, il caso, la molteplicità, l’irrazionalità), in opposizione al Cosmos, ovvero ordine, invarianza, semplicità. La tradizione culturale occidentale ha sempre accostato l’incertezza e gli elementi caotici alla negatività del femminile, in contrapposizione al maschile normatore. Nelle opere di Bellocchio spesso il maschile si trova a fronteggiare l’irrazionalità femminile sotto forma di follia, sensualità, arte; sono uomini senza padri, uomini perennemente figli, attratti e turbati dall’eros femminile.
La lotta contro il potere lascia dei figli orfani che per sopravvivere devono inventare se stessi; per farlo devono conoscersi a partire dalla loro Anima.

Segue con Il femminile nell’ultimo cinema di Marco Bellocchio (II)

Note


[1] Sandro Bernardi, Marco Bellocchio, Editrice Il Castoro, Milano 1998, p. 11
[2] Cfr. Lorenzo Cuccu, Figli e padri: l’immaturità rivendicata, in, Gianni Canova, a cura di, Storia del cinema italiano v. XI – 1965/1969, Marsilio Editori, Venezia 2002, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma, p. 52
[3] Cfr. L. Cuccu, cit., pp. 52-67
[4] Paola Malanga, a cura di, Marco Bellocchio. Catalogo ragionato, Olivares, Milano 1999, p. 106-107
[5] Carl G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 49


Per la biografia del regista rimandiamo alla scheda di Marco Bellocchio

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