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Scrittura

Flavio Soriga

Sardina Blues

Copertina di Sardini BluesBeatrice Biggio (BB): Abbiamo il piacere di poter fare una chiacchierata con Flavio Soriga, scrittore. Il suo Sardinia Blues ha avuto un grande successo. Ha addirittura rivaleggiato con Giordano in termini di vendite, se non ho capito male. Ieri, durante la presentazione/performance qui in Galleria Illy insieme a Davide Longo ti sei presentato con una valigia da migrante e hai esordito dicendo che avevi un magone rispetto alla situazione attuale dei migranti. Questo status nel quale ti sei riconosciuto, essendo un sardo che è emigrato diverse volte — prima Londra e poi Roma — a che cosa ti fa pensare? Chi è un migrante? Che cosa sente un migrante?

Flavio Soriga (FS): Intanto, mi spiace, ma hai capito male. Io credo di aver venduto un ventesimo di Paolo Giordano con La solitudine dei numeri primi (ride, nda) ma questo forse c’entra col discorso che volevo fare ieri. Io sono uno degli uomini più fortunati d’Italia: sono un emigrato, prima sono stato a Londra per amore e per la necessità di vedere posti nuovi e confrontarmi con luoghi diversi… che non è una frase fatta: confrontarsi con luoghi diversi vuol dire trovarsi a fare la spesa al Sainsbury anziché all’Esselunga e cercare di capire cosa pensa un sedicenne di Londra anziché uno di Uta. E vedere anche cosa fanno i sardi che stanno a Londra, che fanno i doppi turni e sono Manager di una bettola di King’s Cross.

In italiano questa parola fa molta scena, manager, ma in inglese vuol dire semplicemente direttore del bar, che magari è pure un brutto bar. Io ho passato anni da migrante nullafacente perché scrivevo e basta — ero lì soprattutto per amore, e credevo di aver perso degli anni. Invece poi ho scritto un libro, questo Sardinia Blues, che ha sì venduto un ventesimo di Paolo Giordano, ma che ha avuto buone recensioni e che mi dà la possibilità di viaggiare per l’Italia a parlare dei miei libri e mi fa sentire uno scrittore.

Credo sia assurdo ci siano scrittori che si lamentano del loro lavoro; nel momento in cui uno ha il privilegio di fare un lavoro così bello come il giornalista o lo scrittore — e non deve andare in fabbrica o in un call center tutti i giorni — credo sia d’obbligo essere grati alla sorte, al cielo e alle entità che decidono i nostri destini. Intorno a noi, invece, ci sono delle persone che emigrano in maniera non così privilegiata, che non possono certo fannulloneggiare ma devono fare gli operai tutti i giorni e spesso venire picchiati, uccisi o insultati — che secondo me è altrettanto grave — soltanto per il colore della loro pelle, oppure, se non sono operai e non sono neri, soltanto perché sono omosessuali. Anche questi sono migranti. Il tema che dobbiamo raccontare oggi è quello della diversità.

Flavio Soriga

Noi viviamo in un paese, l’Italia, che secondo le statistiche mondiali è uno dei più ricchi del mondo e uno dei paesi più sicuri del mondo, eppure sembra abitato da uomini e donne impauriti, terrorizzati dal fatto che ci siano i rumeni che stuprano le nostre donne e orde di gahanesi o africani in generale che ci uccidano, picchino o derubino. Non è così! È vero che ci sono un sacco di crimini, come ci sono un sacco di crimini commessi da italiani. Se c’è un ruolo — che è un ruolo molto discutibile e marginale — nello scrivere, nel pensare, nel cercare di raccontare agli altri delle storie, allora dev’essere cercare di raccontare la situazione incredibile di un paese ingrigito, incupito e convinto di essere in piena crisi quando non è così.

BB: Tu non ti limiti a sederti al computer e scrivere. Tu giri e porti le tue cose in pubblico. Questa oralità della scrittura che hai fatto tua, leggendo non solo le tue cose ma anche opere di altri scrittori, si rifà a un’oralità antica che esiste da sempre per condividere le storie con altri o c’è anche una passione particolare che ti muove verso la performance?

FS: Non ci ho riflettuto molto. È che proprio mi piace andare in giro a leggere quello che ho scritto. Ci sono altri scrittori che lo fanno, ad esempio Paolo Nori, e c’è anche questa dimensione diversa che è salire su un palco e avere un pubblico davanti. Non credo ci sia una proporzione obbligatoria tra lo scrivere buoni libri ed essere bravo sul palco: io ho anche il dubbio, adesso, di essere bravo sul palco e scrivere libri meno belli di quanto non sembri quando faccio le letture. Però mi diverte un sacco andare in giro a leggere, perché non so fare discorsi teorici! Sono un semicolto, non ho studiato nulla di queste cose e mi troverei molto male a spiegare la poetica o la paratassi dei miei testi.

La cosa che mi fa sentire meglio, facendo questo lavoro, è incontrare le scuole, anche se è faticoso. Quando andavo a scuola io, se fosse venuto uno scrittore, quello che avrei fatto sarebbe stato tirargli le palline di carta, scherzare coi compagni e fare il cretino perché lui non riuscisse a parlare; a diciassette anni ne hai bisogno fisico, ti conducono gli ormoni e non le curiosità culturali, quindi chissenefrega dello scrittore e vediamo questo buffone cosa vuole mai appiopparci.
Eppure, quando torno a casa da quegli incontri, mi sembra uno dei pochi giorni in cui ho fatto il mio dovere — che non ho ancora capito qual è nella vita — mi sembra di aver fatto qualcosa che valeva la pena di fare. Tra l’altro, quando torni a casa da una o due ore di incontro con gli studenti, ti chiedi come facciano gli insegnanti a farlo tutti i giorni e capisci come mai poi non vedano l’ora di andarsene in pensione.

BB: Ogni scrittore ha la sua “voce”; tu quando l’hai trovata questa “voce” nei termini in cui scrivi adesso, con quel ritmo anche molto poetico che ha la frase, quegli stacchi quasi cinematografici che usi? L’hai riconosciuta subito o hai fatto diversi tentativi?

FS: Non lo so. Torno ad invocare la mia poca conoscenza di queste tecniche. Ho letto una frase di Kubrick che diceva “l’unico modo per imparare a fare un film è farlo”. Io nel mio piccolo posso dire lo stesso. L’unico modo che ho avuto per imparare a scrivere un libro è stato scriverlo. Ma poi non credo di averlo imparato né che si possa insegnare: semplicemente ogni volta che ricominci un lavoro ti chiedi se sei capace. Adesso sono quasi alla fine di una raccolta di racconti che dovrei consegnare tra venti giorni e sono qua, ma la mia testa è tra mille angosce nella mia casa di Roma perché credo di aver sbagliato tutto, che il libro non riuscirò a finirlo.

Flavio Soriga

Bukowski diceva “ogni sera mi siedo alla mia scrivania con davanti la macchina da scrivere e una bottiglia di vino e mi chiedo: sarò in grado di fare qualcosa di buono?”. C’è stato un cambio in questo ultimo libro, Sardinia Blues, che è l’ironia, l’autoironia che ho trovato grazie a degli amici che ne hanno molta, e ho smesso, spero, di scrivere in modo compito; ho un po’ abbracciato quest’idea che dobbiamo in qualche modo far sorridere altrimenti la gente non ti ascolta. Magari è un’idea sballata e tornerò a scrivere cose tragiche e compite in futuro.

BB: Tu ti spendi anche molto per pensare ed organizzare attività che girino intorno alla letteratura. In Sardegna specialmente, segui il festival di poesia di Seneghe, hai ideato insieme a Marcello Fois Isola delle storie e tutta una serie di attività che hanno luogo lì. Che significato ha per te continuare a tenere questi rapporti con la tua regione rispetto a quello che fai e portare delle cose da fuori?

FS: Mi sembra sia una bella tendenza, comune a molti campi, portata aventi da artisti e scrittori che hanno ottenuto molti riconoscimenti fuori dall’isola e che fanno del volontariato culturale in Sardegna cercando di riportare indietro un po’ delle loro conoscenze. A fare scuola è stato Paolo Fresu che riesce a portare a Berchidda della gente pazzesca, spesso anche nella più totale indifferenza o addirittura ostacolato dalle istituzioni, dovendo chiedere dei finanziamenti che dovrebbero essere dovuti. Sei o sette anni fa è nato un bellissimo movimento di scrittori sardi, smentendo quel pregiudizio che vuole gli scrittori sempre in contrasto tra loro, e i sardi spesso in contrasto tra loro. Ci siamo trovati così tra scrittori sardi a cenare spesso assieme a Cagliari e a parlare di cose che potevamo fare per la Sardegna. Abbiamo fatto nascere il Festival di Gavoi, da un’idea che era mia con il contributo di un gruppo di scrittori. C’erano Giorgio Todde, Luciano Marroccu, Giulio Angioni, le ragazze di Tuttestorie (una libreria per ragazzi di Cagliari), una traduttrice, Katia deMarco, Cristina Lavigno, che è una critica. e Francesco Abate.

Flavio Soriga

Giorgio Todde, ad esempio, continuava a dire “ricordatevi che non siamo dei jazzisti: nessuno verrà mai a sentire uno scrittore”… non aveva capito niente. Abbiamo dovuto convincerlo ma è stato molto bello fare quella cosa tutti assieme. Le prime due edizioni sono state un momento proprio magico, poi ci sono stati, come succede, dei problemi, dei litigi furibondi tra noi. C’è un nostro collega che ha un carattere molto difficile, che è appunto Fois, e ci siamo divisi. Anche lì, però, non ci possiamo lamentare con nessuno: questa divisione è stata causa nostra, ma in fondo è stata naturale; io mi sono dedicato più a un festival di poesia con mia sorella ed altri amici di Seneghe; le ragazze di Tuttestorie adesso fanno il più bel festival di letteratura per ragazzi d’Italia; Luciano Marroccu, da assessore alla cultura della provincia di Cagliari, organizza adesso un premio letterario riservato alla letteratura di viaggio e dedicato a Lawrence. Direi che il Festival di Gavoi è stata una bella palestra e poi era naturale che un po’ ci dividessimo.

BB: Grazie mille.

FS: È la risposta più lunga che abbia mai dato sul festival di Gavoi

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