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Matthew Barney, il mito immerso nella vaselina

Matthew BarneySempre più proiettata a divenire autentica e limpida capitale italiana delle arti contemporanee, Torino offre in questo mese un’incredibile concentrazione di eventi culturali ed artistici. Dalla malinconica Triennale di Daniel Birnbaum, curatore della prossima edizione della Biennale di Venezia ad una approfondita monografica dedicata ad Enzo Mari fino a una straordinaria personale di Matthew Barney curata da Olga Gambari presso la Fondazione Merz. Occasione quasi unica nel panorama internazionale per immergersi nell’opera del funambolico artista americano.

Il progetto a lui dedicato si articola in quattro momenti: intorno alla mostra alla Fondazione Merz (dal 31 ottobre all’11 gennaio ‘09) ruotano una rassegna dei suoi film al Museo nazionale del cinema, un convegno in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino e un workshop con gli studenti dell’Accademia Albertina e del dipartimento di filosofia dell’Università di Torino.

Presente a tutti gli eventi che lo vedono protagonista, Matthew Barney ha sviluppato quest’operazione come processo di relazione con la città e con i luoghi che via via ospiteranno le sue opere. Un’intenzione relazionale particolarmente evidente e proficua nell’articolato impianto espositivo alla Fondazione Merz. L’architettura dell’ex stabilimento Lancia e le opere di Mario Merz entrano in risonanza con la dimensione illusionistica dei video di Barney. Si tratta di un gioioso combattimento portato con le armi dell’astrazione contro le sabbie immobili della rappresentazione.

Cremaster 2 — Matthew BarneyMitologie contemporanee, questo è il titolo scelto da Olga Gambari per racchiudere l’allucinato estro di quello che il New York Times ha definito come il più importante artista americano della sua generazione. Nato nel 1967 a San Francisco, Matthew Barney è il cantore di una generazione che ha vissuto sulla propria pelle una clamorosa trasformazione antropologica. Le nostre esistenze si sono tramutate in territori iperconnessi e costantemente agganciati a dispositivi tecnologici che interagiscono in ambienti virtuali come le chat room e che comunicano solo via email o sms.

Una mutazione genetica già segnalata nella mostra Post-human firmata da Jeffrey Deitch nel 1992, sempre a Torino al Castello di Rivoli. Parte da lì, l’esplorazione di una condizione umana trasfigurata che vive sospesa e confusa tra virtuale e reale, tra artificio e natura. Inquieti slittamenti che Matthew Barney ha scelto come materia da manipolare nelle sue complesse operazioni artistiche che spaziano tra cicli cinematografici, video, performance e installazioni. Un mescolamento continuo di verità e finzione all’inseguimento di un’arte totale capace di racchiudere una visionaria cosmogonia con al centro l’artista stesso.

Testimone di una condizione postumana da cui emerge un essere senza tempo che è tanto umano quanto elettronico. Oltre l’umanità, quest’essere possiede una macchinicità, perché nella sua costituzione penetrano oggetti non biologici, come organi artificiali o protesi metalliche, siliconiche e plastiche o perché i suoi sensi si sono enormemente estesi grazie a telecamere, microfoni, sensori, tastiere che introducono nelle sue conoscenze dati extra-sensoriali immersi con le loro radici in miti e leggende, da quelle più classiche e antiche alle più anomale e sconosciute. Un processo artistico frutto di una cultura onnivora che si ciba di idee riprese dalla body art, dagli apocalittici scenari descritti da J.G. Ballard nei suo romanzi, da domestiche surrealtà alla John Cheever. Una manipolazione continua e spesso violenta del corpo stesso dell’artista.

Cremaster 4 — Matthew Barney

Quella di Matthew Barney è un’arte basata su princìpi, visioni, mete e sentimenti transumani che in maniera imprevedibile guardano in avanti piuttosto che all’indietro. Atleta di talento ai tempi del liceo e studente di medicina fallito si è pagato gli studi artistici facendo il modello. Sin dai primi lavori, la sua prestanza fisica è sfruttata e concentrata in azioni al limite del possibile.

Dallo scavo sotto sforzo della sua resistenza muscolare nasce il suo primo ciclo di opere dal titolo Drawing Restraint. Opportunamente ripreso in mostra, il video segnala alcune delle componenti fondamentali di tutta la sua produzione successiva. Si tratta della documentazione di performance in cui si combinano elementi scultorei creati sia come impedimenti allo sviluppo dell’azione che come strumenti per la realizzazione di una serie di disegni.

Alle pareti della Fondazione, i disegni sono racchiusi in teche scultoree a sottolineare il filo continuo che alimenta il senso di totalità di ogni gesto artistico di Barney. Una vocazione multidisciplinare che combina performance, disegno e scultura. Affidandosi a fotografi e registi che diventano così parte integrante della sua opera, l’artista trasforma il ciclo dedicato ai Drawing Restraint in un film vero e proprio che evidenzia anche la dimensione produttiva del cinema. Un lavoro di equipe impostato sulla collaborazione e la combinazione di tecniche e competenze diverse.

Drawing Restraint — Matthew BarneyDrawing Restraint rappresenta una sorta di training preparatorio all’esplosione del ciclo Cremaster. Opera composta da cinque episodi sviluppati dal 1994 al 2002 con costi da kolossal hollywoodiano che vede Matthew Barney immerso totalmente come ideatore, regista e protagonista dei vari episodi, interpretando svariati personaggi e costruendo intorno a se un universo da star. A conferma di come il mito vive sulla pelle e nella carne dell’artista stesso.

Rivedendo Cremaster nella sua totalità quello che colpisce è proprio la lenta e profonda costruzione di un climax che avvolge lo spettatore in un’inesauribile e complessa macchina di carsica trasgressione. Labirintiche costruzioni spaziali immerse in paesaggi mozzafiato come laghi salati, ghiacciai e stadi da football sono gli scenari in cui agiscono figure ibride dall’identità sessuale incerta e indefinibile. Le immagini scivolano lente come una carezza sulla pelle in un flusso intriso di un’intimità di certo fremente, commossa, di un voyeurismo discreto che stempera ogni crudezza.

Per Barney, Cremaster (muscolo che regola il movimento dei testicoli) è il racconto visionario della fase di vita embrionale in cui il feto passa dall’indeterminazione alla definizione di una precisa identità sessuale. Ma questa intenzione anatomica costituisce, in realtà, il pretesto per immergersi in un immaginario instabile che prende la forma di un pastiche attraverso l’indagine e l’utilizzo di generi e sottogeneri cinematografici dal western al road movie. Una testimonianza artistica della fragilità esistenziale in cui ci troviamo immersi, una mancanza di sicurezza, che certo non esclude una forma di gloria dolce e trattenuta, ma che innanzitutto si interroga e s’inquieta sull’essenza stessa dell’idea di umano.

Cremaster 3 — Matthew BarneyEmerge il pensiero di Bataille di un uomo che senza arte non può essere un uomo, che le attività umane, ed in particolare quelle artistiche, possano diventare qualcosa di semplice e naturale, simile all’attività dell’ape che distilla il miele. Che fine fanno, infatti, nella piatta innocenza dell’animale, l’osceno ed il sublime? Senza di essi l’arte è muta, ridotta a prodotto naturale.

Un’arte inconcepibile per Bataille. Per salvare l’arte, che in Barney è anche e soprattutto possibilità di ferita, egli deve salvare il momento negativo, la contrapposizione. Nasce così un’assurda quanto disperata mitologia contemporanea che prende le mosse dal tentativo di mettere in questione il fondo di una speranza, un’operazione vaga e composta di una sostanza sfuggente e difficilmente gestibile.

Del resto, il mito è sostanziale trasfigurazione di un’esigenza primaria e ancestrale dell’uomo. L’invenzione degli dei, la spiegazione del sovrannaturale, il tentativo di trovare un perché a ciò che è misterioso e ignoto, il bisogno di creare un passato al di sopra delle conoscenze e della stessa cultura, concorrono alla creazione del mito.

La mitologia è quanto di più radicato esiste nella cultura popolare; gli stessi classici, i greci e i latini, come ancora più indietro nel tempo l’uomo agli albori della civiltà, costruiscono le proprie mitologie come una sorta di ponte fra la realtà del quotidiano ed il più complesso e intangibile mondo delle idee, del soprannaturale e dell’anima.

Anche Barney ha i suoi propri miti, costruiti con i mezzi dell’arte gelosamente incarnati in un bestiario complesso ed estremamente articolato, sempre incompleto e aperto a nuove geniali intuizioni.

Cremaster 3 — Matthew Barney

Bibliografia:


Matthew Barney, Massimiliano Gioni, Electa 2007
L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione delle arti visive, Georges Didi-Huberman, Bruno Mondatori 2008
L’aleph, J.L. Borges, Feltrinelli 2004
Il sex appeal dell’inorganico, Mario Perniola, Einaudi 2004
L’arte e la sua ombra, Mario Perniola, Einaudi 2000

Matthew Barney nasce a San Francisco il 25 marzo 1967, è un artista, regista e scultore statunitense. A l’età di sei anni si trasferisce a Boise, nell’Idaho, con tutta la sua famiglia. Dopo il divorzio dei suoi genitori, Barney continua a vivere a Boise con suo padre. Gioca a football nella squadra del liceo e nelle frequenti visite a sua madre, nella città di New York, viene a conoscenza di arte e musei. Questa mescolanza di sport e creatività influisce sul suo lavoro di scultore e regista.
Si laurea a Yale nel 1991 e ha rapidamente successo nel campo artistico.
Si esprime attraverso opere multimediali, installazioni, scultura, fotografia e disegno. La sua opera più nota è il ciclo di film The Cremaster, che gli è valso il premio Europa 2000 alla 45° Biennale di Venezia nel 1993 e, nel 1996, lo Hugo Boss Prize indetto dal museo Guggenheim.
È noto anche per il suo progetto Drawing Restraint realizzato in parte in collaborazione con sua moglie Björk. La Gladstone Gallery di New York ospita alcune delle opere del progetto, comprese sculture legate alla pellicola, la pellicola stessa e un incompiuto, Drawing Restraint 13: The Instrument of Surrender.

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