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Cinema

Il femminile nell’ultimo cinema di Marco Bellocchio (III)

Segue da Il femminile nell’ultimo cinema di Marco Bellocchio (II)

Annetta, la balia: l’Anima femminile

Annetta in La balia di Marco Bellocchio interpretata da Maya SansaIl contrasto che Bellocchio riesce a creare tra la figura della madre naturale e della balia è davvero forte, a partire dalla scelta delle attrici. La pallida espressività di Valeria Bruni Tedeschi è stata indirizzata durante le riprese alla costruzione di un personaggio che doveva esprimere un dolore reale, tanto più forte quanto più contenuto, evitando un’eccessiva eccitazione e dispersione delle emozioni. Per quanto riguarda la figura della balia, interpretata dall’esordiente Maya Sansa, Bellocchio ha cercato di rendere l’espressività dell’attrice soprattutto mettendo in risalto i suoi occhi e il suo sguardo. Annetta, infatti, comunica molto spesso con le espressioni del viso, lasciando poco spazio alle parole.

La natura della giovane è, in effetti, quella di una creatura pura e istintiva, che si esprime soprattutto attraverso segnali fisici. La curiosità femminile per la scoperta, il desiderio di osservare il mondo le sono propri sia come madre che come donna: in aperta campagna Annetta scarabocchia la terra con un bastoncino, perfettamente inserita in quell’ambiente aspro e roccioso. La presentazione del personaggio continua in seguito, con una scena di gruppo, nella quale la giovane, incinta, scende da un sentiero accompagnata da molte contadine. La scena è stretta sulla protagonista, non lascia spazio ai volti delle altre. Improvvisamente, sul sentiero appare un uomo gobbo: le donne si agitano di fronte a quel segno di malaugurio per la puerpera, insultano il gobbo pronunciando filastrocche contro la iattura, mentre con le mani cercano di coprire gli occhi di Annetta, che, tuttavia, non è spaventata, ma divertita dall’avvenimento e spinge il suo sguardo oltre, osservando il gobbo. L’inconsapevole sfida alla superstizione è un segno importante della sua libertà emotiva, della curiosità naturale che la porta a cercare oltre i condizionamenti culturali.

Annetta in La balia di Marco Bellocchio interpretata da Maya SansaLa curiosità della giovane, dunque, si affianca alla sua naturale dedizione nei confronti dell’“altro”: l’aggettivo “curioso” mantiene la radice latina cura, ae, cioè “sollecitudine”, “pensiero” (interessarsi, darsi pensiero per qualcuno). Il mestiere di balia, sebbene compiuto per bisogno, è in qualche modo connaturato in Annetta: la sua inclinazione alla cura viene messa in evidenza subito quando, al suo ingresso in casa Mori, oppone ai discorsi convenevoli dei coniugi il suo immediato interesse verso il bambino. Senza badare alle convenzioni, prende in braccio il neonato e inizia ad allattarlo.

C. G. Jung spiega il significato dell’Anima e della sua femminilità come archetipo dell’inconscio e della Vita, definendola non «un’anima rationalis, ma un archetipo naturale che assomma in modo soddisfacente tutte le qualità dell’inconscio […]. È sempre l’elemento aprioristico di umori, reazioni, impulsi e di tutto quello che esiste di spontaneo nella psiche. È qualcosa che vive di per sé, che ci fa vivere; una vita dietro la coscienza, con la quale questa non può essere integrata e dalla quale, piuttosto, essa emerge».[1] Annetta può essere definita come l’elemento della spontaneità dell’inconscio, perché, come le scrive il suo compagno dal carcere, “resta sempre una donna libera”, che non dimentica la naturalezza dei sentimenti espressi nei desideri, in un sorriso, in una carezza inattesa.

Come essere sociale, Annetta sente il bisogno di ritrovarsi in un gruppo, in un mondo di donne che dividano con lei il femminile, l’eros come modo di espressione e cultura: durante un temporale accorre ad aiutare le cameriere a ritirare le lenzuola. La servitù, timorosa dei lampi, si ritira velocemente, mentre Annetta rimane sotto la pioggia a tirare le lenzuola, “come se vi fosse abituata…”[2] La notazione in sceneggiatura non è di poco conto: nel contrasto tra natura e cultura si inserisce questa affinità tra femminile e natura nel personaggio della balia, che è natura allo stato puro e dunque completa femminilità. In seguito, l’entusiasmo della giovane coinvolge anche le altre ragazze, che corrono insieme nei corridoi bui per chiudere le finestre, gridando e ridendo come se fossero degli spiriti buoni. Il disordine che deriva dal comportamento delle giovani è quindi positivo, un Chaos “buono”: un momento di disordine e molteplicità opposto al Cosmos ordinato e maschile di casa Mori, che non rappresenta il polo negativo, ma il femminile che emerge dal logos, l’Anima vitale che irrompe nella coscienza maschile.

Annetta e  Ennio Mori in La balia di Marco Bellocchio interpretati da Maya Sansa e Fabrizio Bentivoglio

In un certo senso, questa sequenza rappresenta l’uscita simbolica del femminile dalla casa maschile: i racconti mitologici presentano spesso figure femminile escluse dallo spazio della polis e del mondo civile, solitamente cariche di poteri occulti, di negatività e di capacità seduttive: Calipso nell’isola di Ogigia, Circe in quella di Eea, le Sirene. Bellocchio racconta con passione questa devianza dall’ordine, senza timore nei confronti del femminile svincolato dalla norma, ma anzi facendosi sedurre.

La scena immediatamente seguente, mostra Annetta che, con i capelli sciolti e bagnati, lava il bambino in una tinozza. Dopo averlo asciugato, lo culla per rassicurarlo dai tuoni. Il bambino è tranquillo, osserva incuriosito i giochi di luce sul soffitto che sembrano immagini di un primitivo cinematografo. Alla luce della teoria di Freud, secondo il quale l’accecamento è simbolo di evirazione, timore ancestrale esplicitato nel mito di Edipo[3], consideriamo il caso di Annetta uguale e contrario: la balia, infatti, non viene punita con la cecità, bensì la sua vista si acuisce, passando al bambino la fecondità della fantasia e la tensione all’esplorazione del mondo anche. In questo momento la giovane diventa lo strumento attraverso cui il neonato può iniziare a immaginare, a pre — vedere il proprio destino (di cineasta visto che è Bellocchio a essere il creatore di questa visione filmica).

Dunque, il movimento tensivo verso l’esterno di Annetta è opposto a quello di Vittoria, che fugge dalle emozioni per chiudersi in se stessa e di conseguenza fugge anche dalla presenza della balia, figura troppo “emozionante” per la sua nevrosi emotiva. La balia riesce a trovare in Mori un terreno fertile dove espandere la sua naturale sensibilità, quando gli chiede di insegnarle a leggere e scrivere. Un rapporto maestro — alunna difficile sin dall’inizio, soprattutto per Ennio che affronta l’incarico con inbarazzo; un disagio espresso soprattutto nelle espressioni del viso, a tratti sorridente e impacciato, distante dalla severità che lo contraddistingue.

Annetta è, invece, attenta ed entusiasta, la sua emotività si esprime senza parole: seduta al tavolo, piegata sul foglio come una bambina, i suoi gesti sono difficili e incerti, rigidi ma pieni di tenacia. Mori, allora, tenta di aiutarla, facendole appoggiare il braccio sinistro sul piano, si china su di lei per guidarle la mano: nell’aiutarla fisicamente, come è notato anche in sceneggiatura, Mori passa da uno stato di imbarazzo a uno stato di segreta partecipazione emotiva. Ecco che il cambiamento operato da Annetta su Mori inizia a compiersi in questo istante, quando la fisicità della balia riesce a muovere le sensazioni e le emozioni del contatto umano.

Annetta in La balia di Marco Bellocchio interpretata da Maya Sansa

Il gesto della scrittura per una donna del popolo è segno di grande emancipazione e un mezzo per dare forma alle emozioni. Lo scopo di Annetta è primariamente quello di rispondere al compagno con la stessa intensità culturale che l’uomo incarcerato mostra di avere. Ma questo significa per lei spostarsi sul piano del logos, argomentando i suoi sentimenti. Nel momento in cui confida a Mori di non riuscire a scrivere le cose che non vede, come i sentimenti, Annetta esplicita la sua difficoltà al cambiamento di piano, a rendere l’immediatezza della sua Anima nell’introspezione della riflessione scritta. Allora è indicativa l’ultima scena, nella quale vediamo Mori intento a scrivere una lettera, non Annetta. La balia forse non ha bisogno di trasformare il suo amore in simbolo, di farsi sostanziare dal logos, perché lei è in grado veramente di comunicare e comunicarsi solamente con l’amore, con se stessa, con i suoi gesti e la sua istintività relazionale femminile.

Mori al contrario manca delle “cose spontanee, intime… segrete… affetti… che è molto difficile imparare o anche soltanto capire…”[4]. Ecco che Ennio si scopre studente di Annetta anziché maestro, perché la balia si mostra disponibile a insegnargli un nuovo linguaggio. E Mori cerca di esprimerlo immedesimandosi in Annetta stessa. Nell’ultima scena all’ospedale psichiatrico, sta scrivendo la lettera di una donna a un uomo, cercando di descrivere il sentire di Annetta, di mettersi nella condizione di provare l’emozione della sensibilità. Annetta è stato tutto questo, la sua femminilità ha lasciato un’impronta forte in casa Mori: Ennio e Vittoria, infatti, iniziano ora a cambiare, sia dentro di loro che tra loro, mentre Annetta è rimasta sempre se stessa, con la sua costante tensione al nuovo, alla creatività affettiva, alla scoperta di mondi differenti.

Maddalena, la pazza: il femminile perturbante

Per concludere il panorama sulle diverse sfaccettature della femminilità, Bellocchio inserisce un personaggio d’interpunzione, interpretato da Jacqueline Lustig. Maddalena appare e scompare dal film come se fosse stata creata per dare il tono e l’espressione a tutto il periodo filmico: nella parte iniziale del film entra in scena dopo la presentazione di Vittoria e prima della scena con Annetta e il gobbo; dopo il parto di Vittoria e prima di scoprire che il bambino non si attacca alla madre; successivamente viene inserita in mezzo a due confronti tra Vittoria e Annetta, prima nel parco, poi mentre la balia allatta; poi Maddalena sparisce dopo che Vittoria decide di andare nella villa al mare e ritorna, libera, per le strade nel corteo rivoluzionario, dopo la visita di Mori alla moglie.

Maddalena in La balia di Marco Bellocchio interpretata da Jacqueline Lustig

Maddalena è una donna pazza, che non parla e che sfida gli uomini con lo sguardo. Sembra essere sola e libera, ha qualcosa di selvaggio negli occhi. Nessuno sa il suo nome, o perlomeno nessuno la chiama mai per nome. Maddalena è il nome che il personaggio ha in sceneggiatura, il nome della peccatrice pentita nel Vangelo. Quando arriva all’ospedale psichiatrico il dottor Mori la visita, le chiede il nome, ma la ragazza non ha alcuna reazione fisica; la invita a chiudere gli occhi, ma questa li tiene sbarrati, poi le domanda di seguire la fiamma con gli occhi, ma la giovane li tiene ben fissi contro il medico.

Questo atteggiamento di sfida la mette subito in contrasto con l’ambiente psichiatrico, fatto di studi e razionalizzazioni portate avanti da due uomini nei confronti dei quali le pazienti, tutte donne, sono ossequiose, piegate dalla logica della pazzia. Capiamo quasi subito che Maddalena non è una malata mentale: si difende da un mondo maschile teso a contenere ciò che considera caotico nell’emotività femminile. I suoi gesti improvvisi, le fughe da una stanza all’altra, in silenzio, ricordano Vittoria, associandole come figure di un femminile nevrotico.

Ma la nevrosi di cui sono vittime in maniera diversa le due donne non è una vera malattia mentale, bensì uno stato alterato della propria intimità muliebre. Come Vittoria si trova incatenata in un ambiente culturale regolatore, Maddalena cerca di sfuggire, con il silenzio e con gesti irrazionali di sfida, al logos ordinatore. Il discorso sulla follia che Bellocchio porta avanti attraverso queste due figure di donna si esplicita nella sequenza in cui Vittoria abbandona la sua casa. In questo momento particolare, alla clinica psichiatrica Maddalena non si vede più, ma sembra che nel dottor Nardi sia rimasta traccia di lei, rifiutando la psicoterapia e negando di riuscire a curare davvero qualcuno.

Come sottolineato da Masoni e Zanetti, questa negazione assume un valore particolare data l’importanza assegnata dal regista alle cure psicoanalitiche[5]. Entrambe le donne non sono pazze, sono alla ricerca di un modo di esprimersi contro le convenzioni e la cultura ufficiale. Maddalena, utilizza quel silenzio, prescritto alle donne come modello del vivere sociale, in maniera assoluta, per far risaltare ancora di più la forza comunicativa delle sue espressioni. La macchina da presa la osserva da vicino, le sue espressioni sono l’emblema della femminilità fascinosa e tentatrice, diverse da quelle di Annetta, più ingenue e inoffensive. Maddalena in questo senso rappresenta il perturbante che l’uomo sente nel femminile: come scrive Freud, «succede spesso che individui nevrotici dichiarino che l’apparato genitale femminile rappresenta per loro un che di perturbante. Questo perturbante è però l’accesso all’antica patria dell’uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora.»[6]

Maddalena e Nardi in La balia di Marco Bellocchio interpretati da Jacqueline Lustig e Pier Giorgio Bellocchio

Questa giovane molto bella, come la definisce Nardi, non teme di opporsi all’uomo, ma anzi cerca di stregarlo e portarlo a sé. In questo, per un certo alone di mistero e fascino che la circonda, assomiglia alla Beatrice Dalle di La visione del sabba, una sorta di strega e folle che fa innamorare di sé un giovane psichiatra. La follia di Maddalena, omonima del personaggio interpretato dalla Lustig, è analizzata in maniera acuta da Sandro Bernardi, che la definisce «adesione piena e appassionata alla propria natura, perfetta intesa dell’io con il corpo desiderante e con l’inconscio eterno, immortale, una follia che appare alla società dei cosiddetti “normali” come una vera perdita d’identità, laddove è semplicemente perdita di una maschera».[7]

Ecco che la donna è sempre più turbamento quanto più riesce a essere se stessa, a esprimere la sua incompatibilità con il mondo maschile della programmazione, della legge e dell’analisi razionale. Maddalena è questa forza profonda e sovversiva della femminilità. Ma Bellocchio lascia dietro lo schermo il nome della pazza, evita di esplicitarne l’origine e rende concreto l’atto sovversivo rappresentandolo come una vera e propria sommossa popolare. A questo proposito, Jung definisce la nevrosi come «un conflitto che, ad un certo punto, è connesso con i grandi problemi della società. Il conflitto apparentemente individuale del malato si rivela come un conflitto generale del suo ambiente e della sua epoca. La nevrosi non è, quindi, in realtà, nient’altro che un tentativo di soluzione individuale (e, per la verità, fallito) di un problema generale»[8].

L’affinità tra nevrosi e femminile, tra pazzia e stregoneria può essere declinato anche in questo modo, seguendo la traccia lasciata sullo schermo dal regista: se la malattia mentale può essere curata o non sopraggiungere se l’energia del conflitto viene incanalata in produzioni artistiche, anche la lotta politica e sociale può essere un modo per arrivare a una soluzione, sociale e non individuale. Qusto non impedisce di vedere in Maddalena la forza della rivincita del femminile sul maschile: nelle ultime scene del film, Nardi è al suo fianco nella lotta, le loro voci sono unite nella rivolta, l’uomo è stato fatto prigioniero, stregato dalla maga. O forse, nel silenzio del fuoricampo, nascosti dagli occhi della legge, lontano dalle regole sociali e dalle norme dell’ospedale, i due giovani si sono innamorati con passione ed entusiasmo.

Note


[1] Carl G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 48
[2] M. Bellocchio e D. Ceselli, sceneggiatura di, cit., p. 66
[3] Cfr. S. Freud, Il Perturbante, Edizioni Theoria, Roma – Napoli, 1993, p. 36 – 38
[4] M. Bellocchio e D. Ceselli, sceneggiatura di, cit., p. 101
[5] Cfr. Tullio Masoni, Alberto Zanetti, La sostanza della vita nell’offrirsi al mistero, “Cineforum” n.385, Giugno 1999, pp. 7
[6] S. Freud, Il perturbante, a cura di Cesare L. Musatti, Edizioni Theoria, Roma – Napoli, 1993, p. 66
[7] Sandro Bernardi, Marco Bellocchio, Editrice Il Castoro, Milano, 1998, p. 135
[8] Carl G. Jung, L’inconscio, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1992, p. 96

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