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Fumetto

Gipi (Gianni Pacinotti)

Al cuore del disegno

Il disegnatore Gianni Pacinotti in arte GipiI suoi albi a fumetti sono firmati Gipi che non è un soprannome o un nome d’arte, ma semplicemente lo “scioglimento” delle sue iniziali. Gianni Pacinotti è uno dei più apprezzati fumettisti italiani e, con i suoi lavori, è riuscito ad affermarsi anche all’estero. Le sue graphic novel sono pubblicate in Italia da Coconino Press mentre suoi lavori “minori” e illustrazioni si possono trovare su Internazionale e Repubblica. Il primo impatto col suo stile sporco e quasi espressionistico non è facile. Gipi non ricerca la “bellezza” delle immagini per dare piacere agli occhi dei lettori ma, anzi, tenta di rappresentare le angosce e i piccoli grandi dolori della vita con uno stile forte e d’impatto. Ammetto che all’inizio anch’io sono rimasto un po’ stranito da certi personaggi dai volti spigolosi, quasi animaleschi, e da storie non certo “leggere”. Ma appena si comincia ad abituarsi a quei disegni, a quei colori impastati e sfumati, si ha subito la sensazione di stare leggendo qualcosa di più di un semplice fumetto.

Ad aiutare in questo percorso interviene anche il testo, con i molti e ampli baloon che costellano le sue tavole. E un lessico e una narrazione che tradiscono le molte letture e la profondità intellettuale dell’autore. Forse faccio un accostamento azzardato, ma se penso ad un certo uso “letterario” del testo in un fumetto, mi viene in mente Andrea Pazienza. Come il padre di Zanardi, infatti, anche Gipi sa usare con maestria le parole toccando, a seconda dei casi, toni lirici o sfumature più quotidiane, da strada. Nei suoi fumetti il testo non fa da semplice contorno alle immagini, ma è via fondamentale per entrare “dentro” l’opera e i suoi personaggi. Mai come in questi casi è più opportuno parlare di ‘romanzi a fumetti’. Abbiamo ripercorso insieme all’autore le tappe del suo percorso stilistico e narrativo attraverso alcune delle sue opere.

Simone Piazzesi: Partiamo dalla fine: LMVDM (la mia vita disegnata male) è il tuo ultimo lavoro. Si dice che l’autobiografia è la tappa che segna la maturità di un artista, è così anche per te? Parliamo un po’ di questo lavoro?

Gianni Pacinotti: L’autobiografia, più o meno mascherata o trasfigurata, ha dominato tutte le storie che ho scritto finora. Forse solo nel racconto finale di ‘Esterno Notte’, Muttererde, ho lavorato sulla pura finzione, ed il risultato non mi ha convinto. La vera differenza tra LMVDM e le altre storie è che, in quest’ultimo lavoro, l’autobiografia è palese, dichiarata. Quasi una confessione. Ma, in una certa misura, questo era già accaduto in S., grazie al quale ho fatto degli esperimenti che hanno portato alla nascita della la struttura narrativa di LMVDM. Anche qui ho lavorato in totale improvvisazione ed ho usato il racconto come terapia personale. Nella storia affronto tutti gli argomenti che hanno condizionato la mia esistenza fino ad oggi. C’erano molti dolori e cose non risolte nel mio passato e, visto che arrivo ad un minimo di comprensione delle cose solo attraverso il racconto, ho voluto affrontarli così: in forma di romanzo. Inevitabilmente, però, la storia ha preso un taglio buffo, ridicolo, come sono ridicole le questioni della nostra vita se guardate con un certo distacco, e alla fine, la comicità si è stesa su gran parte del racconto, aiutandomi a vedere le cose con una visione leggera e mediamente ottimista.

SP: A parte, Esterno notte in cui usi i colori ad olio, mi sembra tu prediliga una tecnica molto acquerellata. Come mai questa scelta di stile?

Copertina di Esterno Notte del disegnatore Gianni Pacinotti in arte GipiGP: Lo stile è sempre legato alla storia da raccontare. Esterno Notte aveva un taglio onirico. Tornavo con la memoria alle notti respirate da ragazzo, cose molto lontane che, nella memoria, assumevano un taglio sognante. Il disegno doveva affiancare e coadiuvare questa impressione e l’olio, con le possibilità di disfacimento e genesi di luci che offre, mi sembrava il mezzo adatto. Nelle storie seguenti la narrazione ha preso il sopravvento. Non volevo più avere dei disegni che appesantissero la storia e cercavo un tratto che si sposasse al meglio con le parole. Che fosse fatto, per dire, della stessa sostanza delle lettere che compongono le frasi. E qui il pennarello e l’acquerello ci stavano bene. E poi c’era la questione della velocità di esecuzione, che in LMVDM era una priorità assoluta. Volevo disegnare con la stessa rapidità con cui scrivevo il testo, alla ricerca della massima freschezza.

SP: Un lettore superficiale potrebbe dire che tu non sai disegnare i volti e i corpi umani mentre, invece, ho letto che tu ti sei impegnato, sforzato quasi, per arrivare a disegnarli “male”. Perché? Hai seguito il percorso di Picasso che diceva che da bambino disegnava come Raffaello e gli ci è voluta tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino?

GP: Un lettore molto superficiale, in effetti. Ma, scherzi a parte, io non sono questo gran virtuoso del disegno. Faccio sempre fatica a disegnare. Però sono pure tanti anni che ci batto il muso e alla fine ho scoperto che, per il mio gusto, il disegno stilizzato, e pure trascurato, si avvicinava di più alla mia idea di rappresentazione del reale. La mia percezione delle cose non è raffinata e classica. Non capisco mai niente, mi muovo per impressioni e dettagli. Riconosco una persona nei suoi movimenti, nelle smorfie, più che in un immagine statica e ben definita. Ho saputo che anche le scimmie — i gorilla, credo — hanno una visione simile. Riconoscono le cose solo come forme in movimento. Io e le scimmie abbiamo molte cose in comune.

SP: In S., che secondo me è la tua opera più bella, non c’è una narrazione lineare. Ci sono tanti flash-back, a volte lo stesso ritorna più volte con piccole varianti, come un nastro che ogni tanto si riavvolge prima di andare avanti. Da dove ti è venuta questa idea?

Copertina di S. del disegnatore Gianni Pacinotti in arte GipiGP: Non volevo raccontare il percorso di vita e morte di mio padre. Non volevo rivivere la sua scomparsa. Un racconto lineare avrebbe condotto la storia allo stesso finale al quale avevo assistito nella realtà: la morte di mio padre. Non volevo fare un libro che terminasse (di nuovo!) con la sua scomparsa. Volevo un flusso che mi avvicinasse all’idea di vita e , forse, di immortalità. Lessi Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut. Nel romanzo lui ci racconta di una specie di extraterrestri che riescono a vedere la dimensione temporale (credo che sia la quarta, o la quinta…). Questo faceva sì che questi alieni, guardando me, non vedessero Gipi nel momento in cui scrive questa intervista, ma in ogni momento della sua vita. Immaginate un millepiedi che abbia alla coda il momento della mia nascita e via via tutti gli istanti della mia vita, fino a quello della fine. Questi extraterrestri (Tralfamadoriani, si chiamavano) ci vedono così.

Il tempo è una cosa solida, non uno scorrere irrimediabile. Ho pensato a mio padre, alla sua vita, in quella forma. Un “oggetto babbo” che era composto da tutti gli istanti della sua esistenza e che non era mutabile, non scompariva, come fanno i secondi della nostra esistenza. Era solido, come un tavolo, una sedia. La sua vita era là, stesa, davanti a me, immutabile e perenne. A quel punto non ho fatto altro che spostare lo sguardo da un punto all’altro e raccontare quello che guardavo. Certo, per il lettore questi appaiono come salti temporali, ma per me, erano salti spaziali, e questo mi toglieva il dolore. Mio padre era là, davanti a me, e sarebbe stato là per sempre.

SP: Come mai hai deciso di puntare il nome di tuo padre che, per tutto il tempo, viene chiamato semplicemente S.?

GP: Quando iniziai a scrivere la storia piangevo ogni volta che scrivevo Sergio per intero. Così adottai lo stratagemma di usare solo l’iniziale. In quel modo, scrivendo solo “S. dice…” non piangevo. E questo poi è rimasto ed è diventato pure il titolo del libro.

SP: Esterno notte è stato ristampato con aggiunte e “correzioni”. Quanto ritorni sui tuoi lavori? C’è un momento in cui li consideri finiti o, fosse per te, sarebbero sempre un cantiere aperto?

GP: No. La riedizione di Esterno Notte ha coinciso con il fatto che avevo disegnato una nuova storia con la stessa tecnica. E poi c’erano le edizioni straniere, nelle quali non avevo sperato assolutamente, che richiedevano interventi sui balloon e i testi. Così sono tornato a lavorarci su. Ma è stato un caso isolato. Non torno mai sulle storie. Tendo a dimenticarle appena finite.

SP: Nei tuoi lavori è spesso presente il tema della guerra: quella storica o quella immaginata. I militari poi sembrano dei demoni con sguardi ed espressioni animalesche quasi. È un modo per esorcizzare una paura o per lanciare un messaggio di pace?

Copertina di Appunti per una storia di guerra del disegnatore Gianni Pacinotti in arte GipiGP: Mi sembrava un atto dovuto. Una presa di coscienza della realtà circostante. Se nel mondo ci sono guerre, molte, e se si ha una visione minimamente cristiana del nostro prossimo, come fratello, allora non si può far finta di niente. Sono nostri fratelli quelli che muoiono e quelli che uccidono. Quindi come si fa a non tenerne conto? E poi sono pure affascinato dalla brutalità, dall’ottusità e dalla violenza. Una guerra è di solito il terreno migliore perché questi sentimenti abbiano il predominio sulle azioni degli uomini.

SP: Nei tuoi romanzi a fumetti c’è moltissimo testo, non è che ti senti un po’ anche scrittore?

GP: Spesso alla domanda “che mestiere fai?”, per comodità, quando non ho voglia di spiegare troppo, rispondo appunto “lo scrittore”. E, in effetti, io non sento differenza tra lo scrivere e il disegnare. Si tratta sempre di racconto. Uso le parole dove i disegni non mi appaiono sufficienti, e viceversa. Disegno e parole hanno potenzialità enormi se trattate nel modo giusto. Credo che sia uno spreco di possibilità sacrificare l’una o l’altra cosa.

SP: Sempre in tema di altre forme espressive, ti sei cimentato anche con corto e lungometraggi. Che rapporti hanno il cinema e il fumetto? Da quale ti senti più attratto?

GP: I rapporti sono molti. Il ritmo, le inquadrature, il montaggio. Per come la vedo io (mi prenderanno per pazzo) pure il suono e la musica. Sono attratto molto dal cinema. Vedo più film di quanto non legga fumetti, ma questo è un problema mio. Alla fine, la cosa buffa, è che sempre sui disegni, sui fumetti torno a lavorare. È una specie di maledizione.

SP: Dovessi scegliere, quale delle tue opere ritieni sia riuscita meglio e ti ci senti più affezionato?

GP: L’ultima, naturalmente. Ma pure S. che è stata una medicina miracolosa alla quale sarò sempre riconoscente.

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