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Cinema

Michele Placido

Il Grande Sogno

Non importa chi sia diventato, oggi, Michele Placido. Nell’immaginario collettivo — sebbene con i capelli bianchi e un po’ appesantito dagli anni — resta sempre il commissario Corrado Cattani.

Michele Placido in una scena di Commedia sexy

Quello che nella finzione scenica combatteva la mafia in Sicilia e nella vita reale conquistava — come protagonista della prima vera fiction televisiva made in Italy (ma era il 1984 e allora si chiamavano ancora miniserie) — fino a 15 milioni di spettatori.
Placido è oggi attore affermato, e — dopo l’esordio nel 1990 con Pummarò — anche prolifico regista cinematografico. Il suo nome, a più di vent’anni da La piovra, è cinematograficamente ancora legato alle storie torbide di criminalità del nostro passato recente. Soprattutto dopo il successo di Romanzo criminale, film sulla banda della Magliana tratto dall’omonimo romanzo del magistrato Giancarlo De Cataldo, da lui diretto nel 2005.

Michele Placido è stato uno dei protagonisti dell’edizione numero zero dell’ItaliaFilmFest, diretto da Felice Laudadio e svoltosi a Bari lo scorso gennaio. A lui un premio per l’eccellenza artistica, ma anche la possibilità di dialogare col pubblico nel corso di un’appassionante lezione di cinema condotta dal critico Enrico Magrelli. A Bari — in omaggio alle sue origini pugliesi — Placido ha voluto presentare in anteprima il backstage di Il grande sogno, film sul ’68 in parte autobiografico, girato tra Roma e il Salento e ora in fase di post-produzione.

E al suo pubblico ha annunciato un 2009 ricco di sorprese. A partire dal suo ritorno al “gangster movie”: un lavoro su commissione per raccontare la storia del boss Renato Vallanzasca. In calendario anche un progetto provocatorio, «un film doloroso sul tema attualissimo dell’eutanasia, con Mariangela Melato. Lo faremo nonostante finora abbia trovato un muro in produttori e distributori».

Michele Placido nel film Le rose del deserto

Intanto i riflettori sono puntati proprio su Il grande Sogno, che uscirà in contemporanea in Italia e in Francia in primavera (ma la data potrebbe slittare in vista dell’ormai certa partecipazione del film al festival di Cannes). Nel cast nomi di richiamo come quello di Riccardo Scamarcio, a cui è stato affidato il difficile ruolo del protagonista, alter ego di Placido. E poi Luca Argentero e Jasmine Trinca. Scritto dallo stesso regista con Doriana Leondeff (La giusta distanza, Giorni e nuvole) e Angelo Pasquini (ex leader di Potere operaio), il film è prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi..

Valeria Blanco (VB): Placido, cosa la spinge, a sessant’anni, a decidere di mettersi in gioco in prima persona con un film in parte autobiografico?

Michele Placido (MP): Alzo la posta sul piano registico perché penso di avere l’età e l’esperienza per dire allo spettatore qualcosa in più. Credo che il cinema di oggi abbia un po’ paura di emozionare, al di là delle belle inquadrature. Il grande sogno, invece, è proprio un film sui sentimenti. È il Sessantotto visto con gli occhi di un ragazzo di provincia con la passione per la recitazione. Un ragazzo che diventa poliziotto perché è l’unico modo per mantenersi a Roma, città del cinema, e studiare all’Accademia d’arte drammatica. È la mia storia personale, ma c’è anche spazio per qualche variante.

VB: In cantiere, per quest’anno, ha altri progetti impegnativi?

MP: Sto lavorando a un film su Renato Vallanzasca e gli anni ’70: un periodo che coincide con l’inizio della decadenza politica dell’Italia contemporanea. Ma il progetto che più mi sta a cuore è un film difficile e doloroso sull’eutanasia. È la storia di una madre malata terminale, che è Mariangela Melato, e due figlie che devono decidere chi staccherà la spina. Sento il bisogno di tastare il polso sulle scelte etico-morali in un Paese come il nostro, in cui o stai con la Chiesa o tutti ti danno addosso. Lo farò nonostante l’ostilità dei distributori, che lo giudicano poco attraente per il pubblico.

Michele Placido assieme a Stefania Rocca

VB: Anche agli artisti già affermati, quindi, le esigenze del mercato lasciano poca libertà?

MP: Anche il film più bello di Clint Eastwood, Million dollar baby, non è stato prodotto dalle majors. La mia è una sfida personale ma anche un invito ai cineasti a osare di più, a entrare di più nella società e nei dibattiti del momento o a indagare i lati oscuri della storia recente. Mi piacerebbe, ad esempio, che qualche mio giovane collega facesse un film sulla P2.

VB: Come sceglie i suoi attori e come li dirige sul set?

MP: Luca Argentero l’ho scelto senza provino e senza averlo mai visto prima, nemmeno nel film che ha girato con mia figlia Violante. Semplicemente, ci ho parlato e ho avuto fiducia nelle sue capacità. Scamarcio mi piace molto e nel Grande sogno ha fatto una bella prova d’attore. Sarà il mio Vallanzasca perché trovo che gli somigli anche fisicamente. Ma dovrà fare un provino per convincermi che è lui quello giusto. Come regista, invece, sono uno che gli attori li dirige passo passo: mi immedesimo in tutte le parti perché io stesso sono un attore. Allo stesso tempo, do loro molto spazio: lascio che siano loro a scegliere i costumi e collaborare alla stesura dei dialoghi. I sopralluoghi li facciamo insieme. È un lavoro di gruppo di impostazione teatrale.

VB: Che genere di spettatore è?

MP: Uno spettatore complesso. Non rivedo mai i miei film, per cui non ne ricordo le scene. Non guardo la tv con snobismo perché credo che il buon cinema passi anche attraverso essa. In definitiva, però, mi diverto più a teatro che al cinema, forse perché nasco all’Accademia d’arte drammatica. Faccio il regista di cinema, invece, perché credo nella sua funzione civile e nel fatto che sia un mezzo in grado di arrivare a un maggior numero di persone.

Michele Placido

VB: Quale crede sia l’attuale stato di salute del cinema italiano?

MP: Credo che il cinema sia molto vivo da parte di autori e produttori, ma subisce la recessione a livello mondiale e ce ne accorgeremo l’anno prossimo, quando i tagli alla cultura si faranno sentire. Cerco di essere obbiettivo: il Governo ha delle responsabilità, ma la crisi è generale e anche il pubblico deve fare autocritica perché quest’anno ha avuto un atteggiamento snobistico nei confronti del cinema italiano. Ha premiato poco, al botteghino, film come Galantuomini di Edoardo Winspeare o Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari, che meritavano di più.

VB: E cosa pensa, invece, dell’esclusione di Gomorra dalla cinquina dei candidati per il miglior film straniero, agli Oscar?

MP: Non credo alla teoria della congiura: la critica americana lo ha accolto bene. Ma basta col dare tanta importanza all’Oscar, dove spesso chi giudica crede che un film da Oscar, come diceva Hitchcock, debba avere tre caratteristiche: la storia, la storia, la storia. Il film di Garrone sorprende proprio perché non tiene conto di questa regola. E allora, se sovvertire le regole significa essere esclusi dall’Oscar, vuol dire che l’Oscar conta poco.

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