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Cinema

Abitare il cinema (IV)

Il salotto

Segue da Abitare il cinema (III)

“Che topaia!”: tornando a casa con il marito George (Richard Burton) da un party organizzato dal padre, Martha (Elizabeth Taylor) cita una battuta di Bette Davis per descrivere il decadimento e il disordine che governano la sua abitazione, un posto piccolo, asfittico, in cui l’horror vacui schiaccia la possibilità di respirare a pieni polmoni.

Chi ha paura di Virginia Woolf?

È ormai notte inoltrata ma i due aspettano visite, una coppia di giovani sposi amici del padre di Martha: sarà una lunga nottata per queste quattro persone, un gioco al massacro psicologico in cui i due padroni di casa sviscereranno l’abiezione morale l’uno dell’altro, spingendo anche i due ragazzi sull’orlo del baratro, una chiacchierata da salotto che si trasformerà in una violenza emotiva di dimensioni impensabili.

Guardando ai luoghi in cui le vicende di  si svolgono, si noterà come la quasi totalità della pellicola trovi il suo luogo d’elezione nel salotto, un ambiente disordinato e opprimente: due divani e qualche poltrona intorno ad un camino spento (particolare non trascurabile), con le pareti piene di libri. Il salotto, carico dei caratteri identificativi che lo accompagnano, diviene una sede quasi necessaria per il deragliamento morale indotto verbalmente dall’altro: è luogo deputato alla parola, sede dello scambio con le altre individualità, ma anche un ambiente in cui l’azione raramente può trovare un proprio spazio vitale. Non è un caso che nel film di Mike Nichols la violenza morale tra le persone in scena avvenga in salotto (sostituito temporaneamente da una sala da ballo vuota, nel momento in cui anche la stabilità della giovane coppia si trova a vacillare) ma che in seguito l’azione vera — il tradimento di Martha con il giovane — si sposti altrove, salvo poi tornare nell’ambiente di partenza per una finale resa dei conti.

La tensione emotiva che si viene a creare nella prima e nell’ultima parte toglie definitivamente al “fatto” il primato emozionale nell’economia degli eventi, e così la parola ha la meglio, e la perpetua attesa di un qualcosa che potrebbe accadere da un momento all’altro, ma che continua ad essere ritardato, monopolizza l’attenzione dello spettatore più di un qualsiasi accadimento. E illustra in modo esemplare la possibilità che dopo l’estrema caduta ci si possa risollevare, per camminare eretti o forse per cadere di nuovo.

Camminare per le case di celluloide che animano gli schermi della nostra vita significa anche questo, sedere davanti ad un camino in cui non arde nessuna fiamma, sedere con la consapevolezza che ci si dovrà prima o poi alzare, aspettare qualcosa che non arriva ignorando che forse sta già passando, e poi parlare, parlare, parlare, senza essere ascoltati, senza ascoltare, ma con la tacita consapevolezza che tutto questo tempo non è perduto, mai.

Salotti in serie.

Potrà sembrare strano iniziare la trattazione dell’iconografia dei salotti cinematografici con un paragrafo dedicato alla televisione, ma il piccolo schermo è un po’ per la settima arte quel fratello minore su cui si fanno ricadere le colpe per i propri misfatti e che si rischia di ritrovare poi, adulto, più responsabile e consapevole di noi stessi. Certo la TV contemporanea ci mostra come questo discorso non valga per il suo panorama tout court, tuttavia può essere applicato con successo soprattutto alla serialità televisiva, meglio se d’Oltreoceano.

Il processo di fidelizzazione del pubblico che sta alla base delle serie televisive prevede che, di settimana in settimana, si ritrovino sullo schermo gli stessi volti, gli stessi caratteri, gli stessi luoghi. In particolare, le cosiddette sitcom prevedono episodi che esauriscono le loro tematiche quasi sempre nell’ambito della loro individualità e, di conseguenza, il pubblico si affeziona ad uno status quo, improntato ad una assoluta ordinarietà e vicinanza con il proprio io, che raramente viene alterato in maniera permanente. Spesso poi l’utilizzo di angoli di ripresa fissi ci porta a vedere porzioni limitate degli ambienti in cui gli eventi si svolgono — manca normalmente alla nostra visione una parete, quella in cui sono collocate le telecamere — e questo fa sì che la morfologia di quei luoghi ci sia ancor più familiare. Cosa centra il salotto con tutto questo? Centra eccome, perché le situation comedy, in particolare, basano il loro successo su un meccanismo di vicinanza epidermica spettatore-personaggio televisivo, per cui identificarsi nel proprio alter-ego catodico non può prescindere dall’abitare nella sua casa — quella casa che ritroviamo in ogni singolo episodio.

Considerata poi l’impronta generalmente comica del prodotto, quale luogo favorisce gli scambi ironici tra i personaggi meglio del salotto? Conosciamo alla perfezione quello raffinato e chic dell’appartamento di Will (Will & Grace) o il salotto tinta pastello della casa di Monica (Friends), quei luoghi ci sono talmente familiari che, se cambiassero posto ad un soprammobile, ce ne accorgeremmo; non è casuale che la serie sui sei amici newyorkesi termini proprio quando la ragazza e il marito decidono di cambiare casa… Certo una sitcom non concederà gli sperimentalismi di una pellicola cinematografica, ma di sicuro ne ingigantisce i meccanismi di identificazione: abitare un salotto — seppur televisivo — una volta a settimana, per anni e anni, lo rende nostro più di quanto ci si possa immaginare.

Chiacchiere in salotto.

Rappresentare le relazioni interpersonali in mancanza di azioni esplicite, semplicemente con le parole, è un’operazione che si espone costantemente al rischio di verbosità, male che affligge tante pellicole orgogliose di parlarsi incessantemente addosso. Per prevenire questo “morbo” può essere utile cucire la rappresentazione su un ambiente rappresentativo che porti dentro di sé un sottotesto adeguato. Per questo il salotto si adatta perfettamente ai rapporti tra gli individui: spesso una poltrona, un camino, una parete tappezzata di libri consentono un’espressione verbale necessariamente e giustamente più laconica. Si sente dire a volte: “se quelle pareti potessero parlare…”, bene, in un film molto spesso le pareti parlano e non c’è bisogno di ripetere con insistenza quello che dicono.

Il grande freddo, pellicola di Lawrence Kasdan datata 1983, ritrae con occhio malinconico un gruppo di ragazzi che negli anni ’60 condividevano gli stessi sogni, le stesse aspirazioni, e che, a 15 anni di distanza, si trovano riuniti al funerale di uno di loro, morto suicida. Sarà questa l’occasione per trascorrere qualche giorno insieme nella casa in cui il ragazzo viveva con la fidanzata, per sedersi intorno al camino di un soggiorno, riallacciando fili lasciati a penzoloni anni prima e scomponendo le maglie di un presente che può ancora essere modificato. Basta la familiarità dell’ambiente a ricreare quell’onda che univa questi ex-ragazzi, non è necessario che ricordino quant’era bello essere amici, sfruttando facili sentimentalismi; basta qualche poltrona intorno al fuoco per far dire ad una di loro “Sembra d’essere tornati ai vecchi tempi…”.

Il calamaro e la balena

Allo stesso modo, nella recente pellicola di Noah Baumbach, Il calamaro e la balena, un salotto anni ’80 di forte impronta intellettuale fa da sfondo all’annuncio che i genitori danno ai due figli inerente l’imminente separazione: l’ambiente caldo e i libri sulle mensole proiettano in uno spazio emotivo in cui il legame familiare del nucleo è evidente, qualsiasi preambolo alla conversazione risulterebbe ridondante. La naturalezza dolorosa di questo momento non gioca su una tristezza ostentata, ma posa tutta sulla concretezza dello stabilire i giorni da trascorrere con un genitore piuttosto che con l’altro, del decidere chi sarà a prendersi cura del gatto. Ad esprimere tutto il resto sono le pareti, le poltrone, il parquet.

Salotti d’altri tempi.

Il film in costume d’ambito aristocratico impone, per le modalità di rappresentazione che lo caratterizzano, una messa in scena improntata ad una spazialità scandita da ambienti di dimensioni molto ampie. Se da un lato le residenze regali e gli antichi palazzi nobiliari bucano lo schermo per ricchezza e vastità, dall’altro possono creare un distacco dovuto alla loro magnificenza, che pone ai personaggi cinematografici grandi difficoltà nell’approcciarsi ai luoghi che abitano, e a noi un certo scetticismo nell’assecondare quello che sta avvenendo sullo schermo.

Questo filtro rappresentativo è stato sicuramente eliminato nell’ultima pellicola di Sofia Coppola Marie Antoinette, in cui l’arrivo a Versailles di Maria Antonietta e la sua partenza in vista della decapitazione sono i margini temporali di una vicenda umana analizzata da un punto di vista innovativo per un film ambientato nel 1700. Gli ampi saloni della reggia, impreziositi da un elegante arredamento, perdono il sapore algido del loro splendore: non più il metallico frusciare delle gonne vaporose sui pavimenti levigati, ma le urla di gioia di un’adolescente che sta vivendo qualcosa con cui non riesce a misurarsi. I saloni in Marie Antoinette diventano finalmente luoghi di scambio, quei posti vengono abitati da persone vere nel momento esatto in cui l’umanità entra fragorosamente nella Reggia di Versailles.

Salone

Sala di proiezione.

Quando ci si chiama Howard Hughes non si può avere un salotto uguale a quello di tutti gli altri. Nel ritratto che Martin Scorsese ne fa nel suo recente The Aviator, il cedimento psicologico dell’uomo raggiunge uno dei suoi apici quando quest’ultimo si rinchiude nella sua personale saletta di proiezione — una manciata di poltrone in tutto — davanti alle immagini cinematografiche che scorrono sullo schermo posto sulla parete. Dei salotti tradizionali manca la dimensione dialettica — che sopravvive a malapena nelle comunicazioni attraverso la porta chiusa e negli impeti emotivi provati di fronte alle immagini in movimento — ma si mantiene il conferimento all’ambiente di un’impronta che ricalca la persona dell’abitante e il proprio stile di vita: col passare del tempo Hughes viene messo letteralmente sotto scacco dalla sua malattia mentale e lo stesso luogo che occupa senza mai allontanarsene subisce un totale imbarbarimento, con sporcizia ovunque e le bottiglie del latte riempite di urina disposte lungo il muro.

Prigionia in salotto.

Ciò che rende Funny Games — Michael Haneke, 1997 — una pellicola sconvolgente non è soltanto la violenza inaudita che si scatena nel corso del film, non solo la sua gratuità. A terrorizzare è l’assoluta semplicità con la quale una giornata qualsiasi si trasforma in un calvario senza fine. Quando due ragazzi prendono in ostaggio una coppia di coniugi col figlioletto nella loro abitazione, si ha l’impressione che il cerchio si stringa velocemente, che con lo scorrere del tempo ogni possibilità di fuga e di salvezza venga gradualmente eliminata. Così comincia una prigionia della durata di una dozzina d’ore ambientata per lo più nel salotto delle vittime, un ambiente freddo, senza apparenti marche che ne identifichino l’appartenenza, costantemente avvolto nella semi-oscurità.

Funny Games

Con lo scorrere delle ore i componenti della famiglia vengono legati, torturati, ammazzati e l’orrore di un’azione totalmente immotivata si staglia su una stanza asettica che esalta ancor di più la totale estraneità dell’accaduto a qualsiasi sfera di umanità, senza tuttavia asserire nulla riguardo ad una sua possibile irrealtà. Haneke, attraverso l’uso di un’ambientazione che non enfatizza troppo la sua dissonanza con l’accaduto, riesce ad insinuare l’orribile presentimento che ciò che sta succedendo sullo schermo sia credibile, non provoca straniamento, soltanto la cupa angoscia di ciò che si vorrebbe irrealizzabile ma si rivela ben più vicino del puro e semplice incubo.

Gradisce un tè?

Lunedì 18 ottobre 1976 andava in onda su Raiuno alle 22 e 40 Bontà loro, quello che può essere a ragione considerato il primo talk show della televisione italiana, il primo salotto televisivo che abbia occupato i nostri schermi. Per facilitare l’entrata in questo familiare ambiente catodico, la scenografia era piuttosto scarna: una finestra, un orologio a cucù, tre poltrone color aragosta, più lo sgabello del conduttore, Maurizio Costanzo. La televisione ritraeva un pezzo delle abitazioni degli italiani, lanciando un trend che avrebbe col tempo monopolizzato i nostri schermi: Costanzo presenta tuttora il suo celebre show che ricalca quello delle origini, Serena Dandini nel suo Parla con me intervista i suoi ospiti su un comodo divano color porpora… poi è tutto quanto un proliferare di salotti televisivi, più o meno eleganti, più o meno guardabili. Il cinema sembra lontanissimo da quest’esperienza, ma lo sarà poi così tanto?

Domanda retorica, la risposta è no. No, perché prima dell’avvento dei reality il salotto è stato l’unico elemento che accomunasse settima arte e piccolo schermo per quanto riguardava la possibilità dello spettatore di occupare abitazioni virtuali, l’unico ambiente televisivo in cui fosse lecito insediarsi anche in misura clandestina. E tuttora i salotti della domenica pomeriggio, o della seconda serata, benché esasperati nella forma, rimangono le uniche stanze televisive che permettano una pseudo-interazione tra i loro occupanti e che suscitino una risposta nella platea a cui si rivolgono. Qual è la differenza con il cinema? La differenza è che nelle case di celluloide entriamo dalla porta di servizio, a volte ci intrufoliamo attraverso la finestra, eppure capita spesso che ci sentiamo a nostro agio; nei salotti della TV siamo invitati a entrare dalla porta principale ma la sensazione di essere degli intrusi raramente abbandona gli spiriti critici più avveduti.

Costanzo

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