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Arte

Calder e la scultura disegnata

Il Centre Pompidou realizza la prima mostra interamente dedicata al periodo parigino di Alexander Calder (1878, 1976). Un artista che con il suo lavoro — nel quale si intravedono le acerbe basi di una rivoluzione del concetto di tridimensionalità, tanto caro anche agli artisti contemporanei — mise in discussione il concetto di scultura come monumento.

Alexander Calder

Arrivato nella capitale francese nel 1926 — quando aveva appena 28 anni — e ispirato dall’ambiente bohemienne dell’epoca, questo ingegnere americano riuscì in poco tempo a ribaltare la concezione di scultura, trasformandola in “disegno nello spazio”. E a maturare un proprio linguaggio artistico che Duchamp definirà poi mobiles.

Nel suo atelier di Montparnasse si potevano incontrare Mirò, Man Ray, Mondrian; la galleria Percier, in cui espose nel 1931, era la stessa che esponeva anche quadri di Picasso. Era talmente acclamato che Peggy Guggheneim, nota mecenate e collezionista, ad un vernissage indossò un orecchino di Calder ed uno di Tanguy per dimostrare la sua imparzialità nei confronti di astrattismo e surrealismo.
Oggi tutta la sua potenza creativa rientra nella capitale francese, concentrata in una mostra dedicata a lui che diventa anche calda testimonianza della vita artistica in quel periodo tanto vivace a Parigi.

Il gioco e l’ingegnosità sono i principi su cui Calder basa la sua arte: il Circo Calder, uno dei primi e più noti lavori, venne realizzato “per divertirsi”, come testimonia lui stesso.
Piccoli animali di pezza arroccati su antiquati marchingegni manuali esprimono l’energia di un piccolo mondo, magico, antico, pronto a prendere vita tra le mani del suo creatore. Così lo mostrano i vari video presenti alla mostra, e che attestano anche quanto il concetto di movimento fosse inerente al suo lavoro: le possenti mani di Calder spostano creature di stoffa, fanno saltare leoni un po’ arrugginiti e caricano molle sotto il petto di zebre e di danzatrici del ventre. Le miniature non hanno nulla di perfetto e proprio per questo mantengono una forza espressiva enorme, dilatata, che supera le barriere temporali.

Il Circo Calder non lasciava dagli anni ’70 il Whitney Museum proprio a causa della sua fragilità. Vi fanno parte più di cento pezzi, di cui si contano 69 fra persone ed animali, 90 accessori (tappeti, lampade, tende…) e 34 strumenti musicali. Calder lavorerà ed aggiungerà pezzi durante tutta la sua vita, mai stanco di creare nuovi personaggi con cui giocare ed animare il circo.

Opere di Alexander Calder

L’opera è già chiara testimonianza del fissarsi nell’artista di un pensiero visivo plastico, fondato sulla tensione tra equilibrio e squilibrio. A partire dagli anni ’20, Calder si preoccuperà anche del modo in cui era meglio presentarlo, visto che il movimento non era all’epoca facilmente riproducibile. Scelse due dei migliori fotografi del periodo: André Kertész e Brassaï. Se quest’ultimo si concentrerà maggiormente sul tentativo di riportare la dimensione narrativa del circo, Kertész, dal canto suo, preferirà interrogare soprattutto la figura dell’artista, immortalandolo mentre gioca con i suoi articolati e buffi marchingegni.

Maturando, Calder si concentra sempre più su quelli che saranno poi i suoi unici principi concettuali: la mobilità come espressione della vita nel mondo e la riduzione delle masse a contorni. Leopard, del 1927, è la stilizzazione di un leopardo in cui, per rendere il cromatismo dei puntini neri, l’artista attorciglia il filo di ferro che rappresenta il collo dell’animale.
È una declinazione delle connotazioni cromatiche su un unico livello, quello formale. Calder raggiunge così una nuova forma espressiva, spulciata da tessuti e colori, con cui realizza figure cariche di pathos come Joséphine Baker, danzatrice del ventre dalla sensualità logorante, della quale evidenzia forme e dinamismi tramite il virtuosismo centripeto del filo di ferro (1928).

Le sculture, di cui non restano altro che i contorni, fluttuano nell’aria denotando in maniera ancora più esplicita la loro leggerezza. Si muovono lentamente e ruotano su se stesse come figure fatate ed incomprensibili appese al soffitto, mentre le ombre retrostanti compongono sui muri forme e volumi.
È in questo senso che si può parlare di scultura come disegno spaziale: tutte le caratteristiche (colore, forma, dimensione, peso) sono appiattite su un unico livello, quello del contorno, del profilo di ferro. Da qui poi si sprigionerà il divenire spazio di una proiezione, che supera per espressione, profondità e forza evocativa la pienezza e la tridimensionalità della canonica scultura.

Kiki, opera di Alexander CalderI ritratti dei celebri amici di Montparnasse hanno qualcosa di sconvolgente. Gli incomprensibili attorcigliamenti dei fili di ferro restano a penzolare dal soffitto, ruotando mentre sulla parete si compongono i volti noti di Mirò e Kiki, fisionomie impreziosite da quel senso di plasticità e magia che solo l’intima conoscenza può produrre, e che anticipano un po’ il lavoro decostruzionista del cubismo.
Kiki, personaggio mitico di Montparnasse nonché compagna e modella di Man Ray, dichiarerà in un giornale: “Calder è uno yankee ingegnoso, una categoria a parte. Invece di imbrattare la tela con le tempere o di mutilare il marmo, lui piega fili di ferro, e con un’arte perfetta realizza il ritratto del suo modello”.

Fu proprio visitando l’atelier di uno dei suoi amici francesi, Mondrian, che Calder rimase scioccato e decise di abbandonare il pensiero figurativo per darsi all’astrattismo. “Quello che vidi là era troppo bello…ed immaginai che sarebbe stato perfetto, se solo tutto si fosse potuto muovere”. Abbandona quindi corpi e visi per realizzare pure forme geometriche, dimensioni di tensione di cui il movimento e l’essenzialità non fossero solo mezzo espressivo ma anche contenuto dell’opera. È il 1930, e Calder inizia così a creare i suoi mobilies, figure mitiche regolate da semplici leggi della fisica, che con un semplice tocco o una folata di vento si attivano ma che già nell’immobilità più totale esprimono un certo grado di nervosità e di energia latente.

Nel 1932 lo studio del movimento assumerà nuove dimensioni realizzate con curve e forme arrotondate. Il ferro viene abbandonato a favore di legno e materiali organici, e lo spazio diviene simbolico soggiorno di forze, come in Requin et balene del 1933, in cui sembra essere stato immortalato l’attimo di equilibrio di un movimento feroce.

Requin et balene, opera di Alexander CalderDello squalo e della balena non restano che il dinamismo dell’uno e la pesantezza dell’altra, come quando, fotografando figure in movimento, non ne otteniamo che ombre incomprensibili e sfuocate, forze, direzioni. Il magico equilibrio diventa quindi simbolo di un movimento appena passato e subito pronto a tornare, assorbito per un attimo dallo spessore dei materiali e dalle loro sinergie.
E appare qui, solamente accennato, quello che Calder era sempre andato cercando nelle sue opere: un movimento che non rappresentasse tanto la ricerca di un dinamismo, quanto la ricerca di un ritorno all’equilibrio.

La domanda che si svela al termine dell’esposizione è quella che ha dominato, latente, tutto il lavoro parigino dell’artista, a partire dalle prime opere figurative: come rappresentare l’equilibrio e la bellezza insiti nella dinamicità. Calder risponde in maniera provocatoria: attraverso la sperimentazione della forma della scultura, che deve essere funzione e pratica piuttosto che monumento, evocazione piuttosto che analogia, movimento piuttosto che staticità. E nelle diverse fasi sperimentate a Parigi, quelle del gioco, dell’espressività figurativa e del puro formalismo di spazi ed equilibri, Calder svilupperà una risposta semplice e sconvolgente, destinata a modificare sostanzialmente il futuro concetto artistico di scultura e tridimensionalità.

Alexander Calder, Les anées parisiennes, 1926-1933
Periodo mostra: Dal 18 marzo al 20 luglio 2009
Orario: 11.00-21.00
Indirizzo: Centre Pompidou, 75191 Paris cedex 04
Prezzo: 12 euro


Bibliografia immagini


Cirque Calder, 1926-1931
Matières diverses : fil de fer, bois, métal, tissu, fibre, papier, carton, cuir, 
ficelle, tubes de caoutchouc, bouchons, boutons, sequins, boulons et clous, capsules de bouteille
137,2 x 239,4 x 239,4 cm
New York, Whitney Museum of American Art, New York
Purchase, with funds from a public fundraising campaign in May 1982.
Photo © Whitney Museum of American Art
© Calder Foundation, New York/Artists Rights Society (ARS), New York / Adagp, Paris 2009
Kiki de Montparnasse II, 1930
Fil de fer, 30,5 x 26,5 x 34,5 cm
Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, don de l’artiste, 1966
© Calder Foundation New York / Adagp Paris 2009
Requin et baleine, vers 1933
Bois, tige et peinture
86,5 x 102 x 16 cm
Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, dation 1983
© Calder Foundation New York / Adagp Paris 2009

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