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Arte

Riflessione sull’estetica del design

E se l'industria pretende di farsi arte?

Mostra di designa al Macro di RomaIn molti cedono all’assunzione indiscriminata della teoria secondo la quale il design si integra perfettamente all’interno dell’alveo delle arti. Mia opinione è, invece, che il rapporto tra design e arte necessiti di una riflessione intellettuale e concettuale. Visitare l’ultima esposizione dedicata del Macro, allestita a Roma fino allo scorso 13 aprile, ha offerto parecchi spunti critici proprio a questo riguardo, facendo riemergere dubbi e perplessità preesistenti. Il titolo della mostra era già particolarmente indicativo, ovvero Italian Genius Now. Back to Rome.

L’evento, infatti, rientra in patria dopo aver fatto tappa in alcune delle città più importanti dell’Asia. Da Singapore a Seul, da Tokyo a Nuova Delhi, la mostra ha ottenuto un grandissimo successo, promuovendo la creatività italiana nel mondo. In questo periodo tetro è una buona notizia l’aver ritrovato motivo di orgoglio nazionale, soprattutto perché l’immaginario asiatico è sempre rimasto affascinato dallo spirito creativo del genio italiano. Il curatore della mostra, Marco Bazzini, è uno dei convinti sostenitori della contiguità essenziale tra arte e design nelle sue innumerevoli declinazioni (dal disegno ingegneristico  all’artigianato, dall’oggetto di uso quotidiano all’articolo esclusivo e ricercato) come sostiene nel suo bel saggio contenuto nel catalogo. Per quanto ci riguarda, è però il caso di complicare un poco le cose.

Cenni di storia del design: protagonisti e innovazioni

Negli ultimi decenni, in Italia, si è sviluppata una consapevolezza teorica notevole sull’importanza del design, essendo esso, come abbiamo già detto, uno dei pochi motivi di orgoglio relativi alle nostre peculiarità nazionali. La tradizione italiana è indiscutibilmente nobile; il genio creativo di alcuni nostri connazionali ha fatto grande il nostro paese, contribuendo, fin dagli anni del dopoguerra, alla sua rinascita sociale ed economica, attraverso l’idealizzazione di modelli, forme, soluzioni industriali, linee e progetti che hanno fatto scuola e che ancora oggi ci vengono invidiati da tutto il mondo. Un esempio su tutti è quello della Vespa, il motociclo che ha trainato l’immaginario e l’industria italiane fuori dal marasma della catastrofe della guerra. Corradino D’Ascanio, nel 1955, realizzando inizialmente un modello acerbo e particolarmente rozzo, arrivò a progettare per la Piaggio quella che sarebbe rimasta un’autentica autorità e rivoluzione per il trasporto privato. Al Macro erano osservabili lo storico modello Vespa 150 GG — su progetto di Andrea Facco, allievo di D’Ascanio e il suo erede contemporaneo realizzato, sempre per Piaggio, da Marco Lambri.

Mostra di designa al Macro di Roma

In questa prospettiva, come non fare riferimento ai grandi designer italiani del mondo dell’auto, come Giorgetto Giugiaro e Sergio Pininfarina? Ma, per varcare il limite dei mezzi di locomozione, potremmo approdare al mondo della moda, e la lista degli stilisti italiani non si concluderebbe mai. La moda, l’arte degli stilisti, d’altronde, complicherebbe ulteriormente il nostro, anche in considerazione del fatto che il livello e l’importanza del settore meriterebbero un’attenzione esclusiva; non è un caso che nella mostra del Macro non si sia fatto riferimento a questo ambito, sebbene venga marginalmente sfiorato (creando uno dei fastidiosi paradossi e incongruenze che hanno caratterizzato l’evento) con l’esposizione di calzature ideate da Salvatore Ferragamo, il celebre stilista che ha brevettato alcuni dei modelli più prestigiosi della storia delle scarpe.

Grande assente della mostra è stato Bruno Munari, artista, teorico e designer scomparso ormai 11 anni fa. La centralità di Munari consiste in una fine e rigorosa teorizzazione, pubblicata nel corso degli anni in volumi e saggi di estetica e di critica. Per chiudere questa parziale panoramica introduttiva sul design italiano, considerando che molti altri nomi andrebbero fatti, è necessario spendere qualche parola per Ettore Sottsass, altra autorità indiscutibile nell’ambito del design e dell’architettura del Novecento. Sottsass ha prestato il suo talento e la sua genialità per la realizzazione di articoli e prodotti divenuti parte del bagaglio culturale collettivo ed entrati a far parte del nostro immaginario. Alla mostra possiamo ammirare una macchina da scrivere da lui disegnata per la Olivetti negli anni ‘70, le cui linee tondeggianti e soffici preannunciano lo scenario sociale ed estetico al quale stiamo assistendo nella contemporaneità.

Sono ammirabili anche le ceramiche create per Bitossi negli anni’50: grazie alla collaborazione col maestro ceramista Aldo Londi, Sottsass inaugurò tutto un nuovo modo di concepire la ceramica, sperimentando nello stile e nei colori, strappando l’arte ceramica al suo aristocratico retaggio classico per consegnarla alla modernità del consumo di massa. I Musei Capitolini hanno ospitato un’altra interessante mostra che andava a fare coppia proprio con quella del Macro, interamente dedicata alla celebre Azienda Manifatturiera di Sèvres, intitolata La Conquista della Modernità — Sèvres, 1920/2008. Non è un caso che anche parte di questa mostra sia dedicata all’opera di Ettore Sottsass, resosi, nella sua produzione legata a Sèvres, alfiere di questo ingresso nella modernità. Attraverso un’innovativa maniera di concepire la forma e la ceramica, il designer italiano ha inaugurato un’idea di arredamento e di costume, sotto il segno della democratizzazione del consumo.

Il perpetuo rinnovarsi delle categorie artistiche: da Duchamp al design, passando per Warhol

A questo punto, possiamo tentare di addentrarci in questioni di natura teorica, consci del fatto che l’estetica e la riflessione sull’arte siano ormai inscindibili dalla sociologia così come dalla politica. L’affermazione radicale del design è il risultato di un processo lento che ha coinvolto la storia dell’arte e della cultura occidentale negli ultimi secoli, tanto che potrebbe essere stato originato dalla secolarizzazione che ha concesso all’arte di emanciparsi dal suo ruolo religioso e legato al culto. Il risultato radicale della definitiva mercificazione, nel Novecento, ha attraversato differenti fasi transitorie, ed è bene fare riferimento ad esse per capire in che cosa il design segni un’effettiva frattura del decorso storico.

Sappiamo bene come, se una delle categorie artistiche fondamentali era sempre stata quella di “forma”, ovvero organizzazione formale di elementi che tendono ad una distinzione dalla realtà (linee e colori che si fanno immagine), con Duchamp e il ready made questo principio venne abolito: una ruota di bicicletta, o un orinatoio, possono assurgere al ruolo di opera d’arte, pur restando “cose comuni”. Nel ready made dadaista, però, veniva confermato il principio di “unicità”: l’opera era quella, e non una qualsiasi altra “ruota di bicicletta”, il suo hic et nunc (secondo il lessico di Walter Benjamin) restava presente.

Mostra di designa al Macro di RomaIl principio di unicità venne definitivamente superato da Andy Warhol e la Pop Art: l’opera iniziò ad essere prodotta in serie, operazione possibile perché l’originale proveniva da un’elaborazione su stampa fotografica. O meglio, un originale vero e proprio — di contro alle altre che ne sarebbero copia — non esiste: non possiamo elencare le Marilyn di Warhol, non ce n’è una più importante. Questa perdita di unicità — ulteriore estrema conseguenza di quanto Benjamin era andato a pronosticare nel suo celebre saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica — permise all’arte contemporanea di fondersi in maniera definitiva proprio col mercato: con le serigrafie, Warhol realizzava articoli da commercializzare, fondava un mito e con esso un marchio. Il giro di denaro che coinvolse la sua produzione e la sua poetica fu incredibile, ad ulteriore dimostrazione del suo genio perverso.

Perciò, dopo la perdita di unicità dell’oggetto “opera d’arte”, dopo l’assunzione del carattere di “cosità”, dopo la produzione in serie e l’introduzione nel mercato, all’arte era rimasto ben poco di ciò che l’aveva sempre caratterizzata; addirittura, con la stagione delle installazioni e delle video-installazioni, l’opera d’arte cominciò ad essere concepita come “spazio”, non più come oggetto, così da iniziare a confondersi con l’idea di ambiente e arredamento. In tutto questo percorso, qui solo abbozzato, restava un principio che garantiva all’opera d’arte di essere altro rispetto agli oggetti che caratterizzano la nostra quotidianità, ovvero il “principio di usabilità”.

L’opera d’arte non serve a niente, ovvero non si può utilizzare per un fine pratico. L’orinatoio di Duchamp è quello, e non può essere adottato per la sua funzionalità classica ormai perduta proprio per divenire arte. Le opere di Warhol possono essere appese al muro, fatte ammirare, ma non hanno una funzionalità concreta. Ebbene, quest’ultimo criterio viene a decadere con il design. I grandi designer, quando realizzano le loro opere, devono tenere sempre presente, come parametro di realizzazione, la funzionalità dell’oggetto, la comodità del fruitore nell’usarlo, la capacità di compensare a quelle che sono le sue prerogative. Deve essere accattivante, originale, bello da vedere, ma soprattutto usabile. Anche qui ci sono da fare le opportune differenziazioni; c’è il caso dell’opera Pratone di Gufram che, come si può vedere nella foto, per quanto dovrebbe essere utilizzato come poltrona, non appare particolarmente comoda, e perciò non in linea con le prerogative pratiche dell’oggetto.

Mostra di designa al Macro di Roma

Sono particolarmente esaustive le parole di Bazzini a questo proposito: “Il design è normalmente riconosciuto come la sintesi tra rigore, estetica e funzionalità, mentre all’arte si riconosce la libertà di essere svincolata da esigenze comunicative e pratiche. Ma alcune opere oggi si presentano con un’aura di perfezione e, nel contesto di una società post-fordista, realizzate con pratiche industriali (e quindi seriali) che si avvicinano al livello di eccellenza e di accuratezza del design, tanto da richiamarne il principio dell’high-tech” [1].

Ma, al di là di queste eccezioni, il successo dell’opera di un designer (e perciò dell’azienda che gli commissiona quel certo tipo di prodotto) sta nella sintesi tra originalità, bellezza e funzionalità. Se il mercato ha sempre avuto un ruolo fondamentale per la storia dell’arte, ora, col design, diventa la conditio sine qua non dell’opera; la creazione artistica è finanziata, pensata e realizzata in funzione del suo carattere di merce. Dalla “mercificazione dell’arte” di matrice warholiana, si è passati a una “estetizzazione della merce”, e non si tratta di è una mera questione terminologica.

Clement Greenberg: l’avvento del kitsch e l’opposizione con le avanguardie

La riflessione teorica che possiamo fare sulle opere esposte alla mostra, può imporci di pensare alla relazione tra il concetto di “arte” e il concetto di “kitsch”; dico questo perché il kitsch, in numerose delle definizioni che ci sono state date, risulta essere l’operazione dell’estetizzazione globale della merce, ovvero dell’adozione dell’arte per ragioni di mercato e distribuzione indiscriminata. Per spiegare meglio questo punto, basti fare riferimento alla riflessione del celebre critico d’arte Clement Greenberg nel suo saggio Avanguardia e kitsch del 1939. Dinanzi all’avvento nell’epoca contemporanea delle avanguardie, il kitsch — unica possibilità riservata all’arte di riscattarsi nell’era industriale — rappresenta una reazione ideologica. In risposta alle avanguardie, difficilmente fruibili e palesemente rivolte a una ristretta elite di intenditori, le masse popolari nella fase della radicale affermazione dell’era industriale richiedevano a gran voce una cultura specifica. I fenomeni dell’avanguardia e del kitsch sono strettamente connessi: “Dove esiste un’avanguardia, generalmente troviamo anche una retroguardia. […] Sono sempre esistite, da un lato, la minoranza di quelli che detengono il potere, e dunque dei colti, e dall’altro la grande massa degli sfruttati e dei poveri, e dunque degli ignoranti. La cultura raffinata è sempre appartenuta ai primi, mentre i secondi hanno sempre dovuto accontentarsi di una cultura popolare o elementare oppure kitsch ”[2].

Se, nella fase rurale e contadina della storia della società occidentale, quel ruolo di cultura di massa era rappresentato dal folklore, e da tutto il sistema di conoscenze, ritualità e tradizioni radicate nel territorio e nella memoria collettiva del gruppo, con lo spostamento delle masse verso le aree urbane questo bagaglio è andato perduto, determinando la necessità che venisse soppiantato da una nuova forma di cultura accessibile e popolare. L’industria si è innestata in questo processo, con la genesi del kitsch, fondando un effettivo commercio a partire da un’esigenza collettiva; dice Greenberg che le masse, scoprendo la “noia” nello stile di vita metropolitano (risultante dal “tempo libero” delle tempistiche di lavoro industriali, fatta di turni di lavoro che non avevano un equivalente nella vita di campagna) avevano bisogno di riempire questo vuoto con qualcosa di non particolarmente elevato in senso intellettuale: “Potendo venir prodotto meccanicamente, il kitsch è diventato parte integrante del nostro sistema produttivo, mentre la vera cultura non potrebbe mai esserlo, se non accidentalmente. Il kitsch è stato capitalizzato con enormi investimenti che devono dare profitti adeguati; è costretto a estendere, oltre che a mantenere, i propri mercati ”[4].

Compreso in questi termini, il design inteso come la serializzazione e la produzione industriale dell’oggetto d’uso si paleserebbe come tentativo di realizzare una cultura ad hoc per le masse, troppo inadeguate per comprendere gli astrattismi concettuali delle avanguardie (a questo proposito, un altro punto debole della mostra al Macro è il tentativo di affiancare agli oggetti esposti alcune opere di artisti italiani del Novecento, come Parisi o Rotella, generando una confusione tra i piani senza aver cercato di spiegare quale fosse il rapporto tra essi). È pur vero che i prototipi originali e i brevetti di gran parte della produzione del design rimangono a loro volta prodotti “aristocratici”, dall’altissimo prezzo e dalla circolazione ridotta. Il culto della classe “radical-chic” per le preziosità di tali oggetti esclusivi è un fenomeno degli anni ’80: “Era la destrutturazione dell’oggetto di design che si rivolgeva ad un pubblico privato ma che soprattutto giocava sul rifiuto della funzionalità, caratteristica fondante la disciplina insieme al rigore. […] Gli anni Ottanta sono gli anni del divertimento, del buonumore, dell’edonismo, forse l’aggettivo più usato dagli intellettuali per descriverli, del protagonismo dell’economia che attacca e impoverisce anche la politica ”[4].

Quello che qui però ci interessa è il modo in cui la produzione industriale si garantisce un successo attraverso l’acquisizione del brevetto, per fabbricare in serie uno specifico oggetto. Tale oggetto perde così la sua aura di esclusività e valore, per venire serializzato e proposto alle masse, quelle masse ora troppo coinvolte nel vortice del capitalismo per apprezzare le opere del Rinascimento e dell’arte classica, in quanto catalogate come “inutili”. Il design è pronto a riempire questo vuoto, e lo riempie con un giro di affari inaudito; quello che qui stiamo descrivendo non è affatto, sia chiaro, un annichilimento del genio creativo dei grandi nomi della storia del design. Stiamo però, questo sì, per lo meno problematizzando il legame dato per ovvio e rivendicato a gran voce tra design e arte.

Mostra di designa al Macro di Roma

Intendiamoci, geniale può esserlo anche uno scienziato, ed espressione di genialità creativa può esserlo anche un prodotto gastronomico, un vino, ad esempio. Ma che si debba necessariamente qualificare queste manifestazioni cultuali come artistiche, implica una volontà di ritenere “più nobile” o più “esteticamente garantito” ciò che possiamo definire arte da ciò che non lo è. Si può restare orgogliosi della genialità degli stilisti italiani, addirittura parlare dell’arte dell’abbigliamento, ma cercare di analizzare i principi caratterizzanti per poter distinguere l’abbigliamento dall’arte resta indispensabile.

La logica del kitsch, e l’artisticizzazione della merce, implicano, assieme al principio di usabilità degli oggetti realizzati, anche una finalità commerciale stavolta esplicita: sono le grandi firme, i grandi imprenditori ad affidare i compiti a questi “nuovi artisti”. E, dopotutto, sono sempre loro a organizzare mostre, istituire percorsi di promozione, con la consueta finalità pubblicitaria e commerciale. La mostra al Macro non fa eccezione: grazie ad essa, le aziende hanno messo in “vetrina” le loro realizzazioni; sebbene l’idea iniziale fosse di Sottsass, l’opera esposta implica una feticizzazione di base dell’idea innovativa e artistica originaria, riducendosi a oggetto uscito dalla catena di montaggio e acquistabile in qualsiasi negozio. Lo stesso dicasi per i Musei Capitolini con Sèvres. Le istituzioni, specie nella capitale, stanno riservando sempre maggior interesse a questo specifico ambito dell’estetica presunta artistica, ed è facile intuire il perché: le aziende son ben felici di finanziare questi eventi per autopromuoversi, mettendo in mostra se stesse e presentandosi nel ruolo di chi investe per l’arte e la cultura.

A ben vedere, la magia e il fascino della “forma” delle cose hanno al loro interno una storia sedimentata; le forme delle cose ci parlano, raccontano l’avventura della mano che ha lavorato la materia (Come afferma Henri Focillon nell’ Elogio della mano), mettono in evidenza dinamiche sociali e collettive che scorrono sotterraneamente nell’esistenza di ciascuno, assurgono a simboli e allegorie della Storia. Questo è vero per l’arte classicamente intesa; dov’è allora che il design segna una svolta problematica? Dato il fondamento di usabilità, cogliere la forma dell’oggetto d’uso nella sua dimensione artistica e spirituale è impresa ardua, perché tale dimensione viene continuamente soggiogata ed esclusa dal principio fondante l’oggetto, che è la sua funzionalità. Per riflettere sugli oggetti che utilizziamo quotidianamente e tornare a percepire la forma nella sua essenza, per poter quindi valutare da una prospettiva artistica, è stato necessario esporli in uno spazio museale, privandoli della loro essenza commerciale e uso. Si può ipotizzare che in pochi ragionino e si interessano della storicità stratificata sulle forme delle cose e che la maggioranza, le masse, alle quali è rivolto l’oggetto d’uso industrialmente prodotto in serie, arrivi al massimo a gradire la forma, oltre ad utilizzarla. In questa ottica si inserirebbe a pieno l’intera ontologia della filosofia di Heidegger.

Heidegger: l’Essere della cosa e la sua usabilità. Il ruolo dell’immagine artistica

Per Heidegger, accedere all’Essere autentico della cosa significa riuscire a superare il principio di usabilità, il quale svilisce ogni evento della realtà riducendolo a una funzione determinata, assegnata dal mondo della tecnica, responsabile dell’oblio stesso dell’Essere. L’emergere dell’Essere nelle cose diviene esemplare nelle rappresentazioni artistiche, che tradizionalmente si caratterizzano per la loro impossibilità di venire utilizzate in senso pratico. In questa prospettiva, nel celebre saggio sull’Origine dell’opera d’arte, Heidegger specifica come la peculiarità dell’oggetto artistico sia quella di definire l’orizzonte esistenziale di ciascuno di noi, inaugurando un “mondo” che determinerà i nostri criteri di valutazione, le nostre condizioni di conoscenza e modalità del sentire e del vivere.

Questo processo di “apertura di un mondo” è sempre accompagnato, gioco-forza e conflittualmente, dal momento del “porre-qui-la-terra”. Per quanto capace di aprire un mondo, l’opera d’arte si ritrae perpetuamente dalla possibilità di comprensione esaustiva e definitiva; essa incentiva il nostro pensiero tramite la sua materialità inaggirabile, che “fa problema” alla nostra visione in quanto ci si impone sempre e comunque. Questo è il “ritrarsi della terra”: l’immagine artistica si propone dinanzi ai nostri occhi come enigma irrisolvibile, che non pretende di essere “usato”, bensì interrogato dalla nostra comprensione (è il caso del celebre esempio fatto da Heidegger nel saggio in questione, ovvero le Scarpe da contadino di Van Gogh).

Mostra di designa al Macro di Roma

Ora, se l’oggetto di produzione industriale, ovvero l’opera di design, rivendica di venire integrato nella dimensione artistica, allora segna un orizzonte, ma si tratta dell’orizzonte del mio agire (arreda la mia casa, determina i mezzi di locomozione che uso quotidianamente, è coinvolto nella mia pratica di comunicazione con gli altri), cioè di un orizzonte principalmente fisico, non spirituale.

Gli oggetti di design riescono veramente ad “aprire un mondo”? O si limitano ad abitare lo spazio offrendosi alle mie necessità specifiche? Indubbiamente, i grandi designer hanno “aperto un mondo”: le forme di Sottsass, nonché quelle di Munari, di Pininfarina o di Enzo Mari, hanno creato un’autentica frattura nel concepire lo spazio, relazionarsi agli oggetti e vivere; sono stati artefici dell’originarsi di nuovi stili e modi di pensare, definendo mode e rivoluzioni sociali. Questi “artigiani” sono stati interpreti dei tempi e contemporaneamente geniali innovatori; in questo senso, la loro produzione non può essere ridotta esclusivamente al versante fisico ed esplicito dell’uso: le loro opere hanno coinvolto in maniera determinante e incontrovertibile la sfera spirituale, riuscendo senza dubbio ad “aprire dei mondi”, fatti di credenze, valori, principi condivisi da determinati gruppi sociali.

Eppure, abbiamo visto che non mancherebbe nemmeno il momento della “terra”, che ha a che fare con la fisicità e materialità delle loro opere: anch’esse, come le tradizionali immagini artistiche, impongono al fruitore l’ “enigma” irresolubile della loro presenza. Allora, che cosa ci fa dubitare, nell’ottica dell’estetica heideggeriana, che l’opera di design possa divenire un’opera d’arte nel senso autentico del termine? Forse il fatto che proprio quel momento della “terra”, definito dalla materialità concreta dell’opera che occupa uno spazio, sia troppo evoluto, troppo radicale, tanto da snaturarsi dal suo stesso interno? Cerchiamo di spiegare.

La materialità dell’opera industriale d’uso quotidiano consiste, come detto, nel suo principio d’uso. E, se lo uso, l’oggetto non ha la possibilità di “ritrarsi” dinanzi alle interrogazioni e agli stimoli del pensiero. L’opera di uso quotidiano si usa e basta, non determina in chi la usa dubbi di alcun tipo. Solo gli esperti d’arte, i teorici, riescono realmente a valorizzare la forma ed a riflettere sull’apertura che quegli straordinari oggetti sono stati in grado di generare, ma il principio d’esistenza di quegli oggetti non è nello stimolo al pensiero, bensì nell’essere usati, quanto più comodamente e “simpaticamente” possibile. Ciò che di questi oggetti si impone a noi, per volontà degli stessi autori, è proprio l’uso, e l’uso svilisce l’attività della riflessione.

Così facendo, il momento dell’apertura di un mondo, innegabile connotazione di queste opere, non può giungere a coscienza dei fruitori (fatta eccezione di quella ridotta cerchia di persone di cui abbiamo accennato sopra — e magari per qualche sparuto perspicace osservatore). È in questa dimensione che il linguaggio pubblicitario agisce subliminalmente, senza che le masse riescano a rendersi conto di quanto le loro vite siano alienate. L’apertura di un mondo diviene uno strumento del mercato, che regola tale apertura secondo le sue convenienze e prerogative, poiché coloro che useranno tali oggetti (dopo averli comprati ovviamente) non avranno modo (il tempo? le capacità? la volontà?) di riflettere su di essi e sulla loro intrinseca storicità.

Lungi dal voler radicalizzare ed esaurire un discorso che per la sua complessità meriterebbe di essere ulteriormente sviluppato, è giusto “spezzare una lancia” a favore della pratica del design ammettendo che numerose innovazioni invitano i fruitori a “riflettere” sulla realtà obbligandoli ad un uso differente di un particolare strumento o oggetto. Il problema è che, negli sporadici casi in cui tale pratica viene sviluppata in buona fede (come in Enzo Mari), questo invito etico ad incentivare il pensiero trova due differenti tipologie di fruitori: da un lato, una ristretta cerchia di persone che, dato il loro background culturale, la loro sensibilità e le loro conoscenze, riescono a sviscerare dall’opera la sua portata spirituale, portandone a coscienza le intenzionalità profonde ed essenziali; dall’altro, la maggior parte dei fruitori, che acquistano l’oggetto nel negozio perché attirati dalla forma e dalla comodità, e non si interrogheranno mai su quella “cosa”, perché non ne hanno il bisogno.

Mostra di designa al Macro di RomaMagari anche per le masse le implicazioni spirituali saranno le stesse del “pubblico colto” (anzi, probabilmente saranno anche maggiormente incisive) e avranno la forza autentica di stimolare il pensiero e cambiare il mondo, ma ciò che distingue la fruizione nel primo caso rispetto al secondo è la “coscienza” che se ne ha, ovvero la consapevolezza che “qualcosa sta accadendo” al proprio mondo, alle proprie facoltà percettive e intellettive. Ammettiamo, con Mari, che questo “qualcosa” che accade possa essere emancipatore, positivo e stimolante; comunque, tale “qualcosa” resta (nella maggior parte dei casi) subliminale, “subito”, e non conosciuto. Del resto, questo qualcosa, secondo la prospettiva heideggeriana, partecipa al “mondo della tecnica”, ovvero incide (positivamente o negativamente) sul modo in cui “io uso il mondo”; se mi concentro sull’oggetto interrogandomi sulla sua forma, la sua natura, la sua composizione, allora torno ad avere a che fare con un “enigma”, ed è ciò che avviene con l’immagine artistica o con la scultura.

In questo caso (particolarmente raro, perché momento riservato a ben poche persone in sparuti momenti), l’oggetto di design impone a me la sua “domanda”, mi fa problema, rivendicando la sua indistinguibilità rispetto ad altre manifestazioni artistiche. È l’oggetto stesso a “snaturarsi”, privandosi per poco tempo da ciò per cui è nato ed esiste, ovvero il suo uso “tecnico”. Osservandolo “come se” fosse un’opera artistica, ci avviciniamo al renderlo tale; si tratta solo di un avvicinamento, perché mentre questo momento è a fondamento dell’arte in maniera costante (ne è la conditio sine qua non, la “terra”), nell’opera di design si rivela un episodio contingente e particolare, che concede una “pausa” prima del ritorno all’utilizzo.

L’immagine artistica autentica, invece, è pura e costante condensazione di tale momento, “è” tale momento, reiterato all’infinito. Eppure, alcuni di questi oggetti continueranno a pubblicizzare se stessi e il sistema che li ha prodotti, che sopravvivrà col beneplacito delle masse, tutte prese a riempire i loro appartamenti di oggetti dalla forma stravagante e di elettrodomestici futuristici che, ci fosse concesso di rifletterci sopra, scopriremmo in alcuni casi non avere alcuna ragion d’essere, in altri una ragion d’essere legittima ma essenzialmente “tecnica”.

Note


[1] Marco Bazzini, Italian Genius Now [back to Rome] – Catalogo della mostra, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato 2009, p. 50
[2] Clement Greenberg, Avanguardia e kitsch in Alle origini dell’oepra d’arte contemporanea (a cura di G. Di Giacomo e C. Zambianchi), Laterza, Bari 2008, pp. 72, 78
[3] Ivi, p. 74
[4] Marco Bazzini, Italian Genius Now [back to Rome] – Catalogo della mostra, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato 2009, p. 79

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