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Arte

L’arte di Hiroshige: così lontana, così vicina

Con che occhi un occidentale può guardare l’opera di un grande maestro dell’arte orientale? Hanno licenza, questi occhi, di indagare, esplorare, interrogare, criticare un’immagine artistica intrisa di una diversa sensibilità, realizzata in un contesto culturale, sociale e storico completamente diverso dal nostro?

Hiroshige

Possono, questi occhi, godere di tale opera, o peccano, loro malgrado, sempre e comunque di un fastidiosissimo quanto presuntuoso approccio di “amore per l’esotico” che quasi sconfina nella ghettizzazione?
La tentazione è forte, e al contempo diabolica: noi, eredi del genio rinascimentale e barocco, che rintracciamo i nostri avi più remoti nella cultura apollinea greca e nei filosofi ateniesi, che diritto abbiamo di assistere all’immagine stilizzata, apparentemente infantile e banale, di uno scorcio del monte Fuji con allo sfondo la luna piena a fare capolino?

Potremmo pronunciare la frase “ah, che grazioso…” e in questa esclamazione si affermerebbe tutto il nostro irriducibile e spesso inconscio sentimento di predominanza razziale. Come quando noi, spettatori secolari delle tragedie euripidee e dei drammi shakespeariani, ci troviamo ad assistere a una rappresentazione del teatro Kabuki o del teatro Nō. Le reazioni classiche sono — in genere — di tre tipi: o ridiamo, nascostamente, a sentire le attrici cantilenare con vocalizzi acuti e apparentemente sconclusionati, e in quel nostro risolino rivendichiamo orgogliosi la nostra superiorità culturale (e razziale); o, peggio ancora, guardiamo attenti concentrandoci sui lineamenti del volto che assumiamo, per dimostrare a chi ci è seduto accanto che noi, a differenza loro, “stiamo capendo”, che non siamo così superficiali da ritenere ciò che stiamo vedendo manifestazioni di inferiorità, e alla fine dello spettacolo, prima della nostra lezione di yoga, andiamo a mangiare sushi reclamando a gran voce quanto il pensiero e la cultura nipponici siano affascinanti.
Sembrerebbe — fin qui — che ogni modo di relazionarsi all’arte orientale sia in malafede e che comporti dei gesti di immoralità, da chi la scredita come inferiore a chi la esalta con la goffa pretesa di poter mettere tra parentesi il suo humus occidentale e mediterraneo.

C’è poi un terzo modo, quello più criticamente corretto, quello meno offensivo e più intrigante; è l’approccio di chi non pretende che l’arte e la cultura orientali abbiano su di noi lo stesso effetto e la stessa funzione che hanno in patria, di chi guarda tutto con distacco razionale, con occhio indagatore, assetato di conoscenza e curiosità. E l’ambito della sua ricerca e della sua interrogazione diviene proprio quella gigantesca (ma non infinita) zona di distacco tra “noi” e “loro”, zona che — oltre a dividerci — ci mette perpetuamente in comunicazione. Guardando le opere d’arte dei maestri giapponesi, la domanda più pertinente e sicuramente più pregna di effetti è proprio: “cosa posso comprendere io di ciò che sto vedendo?”

Ci sentiamo trascinati e avvolti da suggestioni del genere, uscendo dalla magnifica mostra Hiroshige, il maestro della natura (visitabile fino a giugno al Museo Fondazione Roma). Un allestimento di classe, particolarmente curato nei dettagli, ci proietta nella terra del Sol Levante, per condurci attraverso l’opera di uno dei più grandi pittori giapponesi di sempre. La mostra si compone di una gran quantità di opere provenienti dall’Honolulu Academy of Arts, l’ente occidentale che detiene il maggior numero di opere di Hiroshige, artista del XIX secolo vissuto in un Giappone difficilmente immaginabile oggi, precedente al piano americano McArthur che seguì alla disfatta della guerra mondiale e la bomba atomica.

HiroshigeUn allestimento — dicevamo — che, a voler essere rompiscatole, ci condurrebbe a quella logica deleteria della cultura giapponese come “circo”, come mondo fantastico di plastica da consumare quasi fosse un panino di McDonald. Sono fiducioso che le prerogative dei curatori non fossero queste (perdono anche che le impiegate siano state costrette a vestirsi con tanto di kimono…): sicuramente l’intenzione era quella di creare un ambiente nel quale ci fosse la possibilità di integrare, all’osservazione delle tele del maestro, tutta una serie di sensazioni adeguate a valorizzarle al meglio: il sottofondo del cinguettio di uccelli, dello scrosciare dell’acqua di una piccola cascata, del soffio del vento e del rumore dei carri trainati da uomini col capo chino che si proteggono dal sole coi tipici sugegasa, ovvero i cappelli di paglia a forma di cono. Per quanto fossi propenso a vedere in questi artifici un inutile surplus sinestetico che riduce l’attenzione dedicata all’arte per portarci ad un’esperienza molto simile a quella che si vive nei tunnel e sulle giostre di Mirabilandia, ammetto che sia innegabile l’efficacia di tali soluzioni al fine di creare un’atmosfera adeguata alle intenzionalità della pittura di Hiroshige.

Hiroshige è uno dei massimi esponenti della pittura Ukiyo-e, ovvero dell’Arte del Mondo Fluttuante, movimento che si diffuse in Giappone tra il Seicento e la fine dell’Ottocento e che annovera, tra gli altri, artisti come Hokusai e Utamaro. I temi preferiti dall’Ukiyo-e sono i paesaggi naturali, gli scorci ambientali con gli animali come soggetti, le scene di vita quotidiana dei quartieri popolari, realizzati tramite una tecnica di “stampa” su tavolette di legno, caratteristica dell’estetica nipponica. Come già accennavo, dinanzi a queste immagini siamo costretti a una doppia lontananza: da un lato la lontananza palese dovuta alla differenza culturale insopprimibile; dall’altro lato, una distanza storica, cronologica, relativa al fatto che le immagini di Hiroshige appartengono ad un passato sempre più sepolto in un oblio imposto dalla colonizzazione americana che il Sol Levante ha subito negli ultimi 60 anni, che ha portato alla ben nota rivoluzione elettronica e industriale, pagata con lo scotto della rimozione e dell’occultamento di una tradizione millenaria.

Ora, questa doppia distanza è sì insopprimibile, ma non è sinonimo di totale e radicale incomprensibilità, ovvero un divieto ad interrogarsi sul significato di queste immagini. Le distanze sono contemporaneamente opportunità di confronto, in entrambe le concezioni.
Il divario che ci separa dall’oriente è un’idea astratta: dove sono i confini, nell’epoca della simultaneità della circolazione di informazioni? L’epoca di Hiroshige, l’Ottocento, è il secolo della modernità, epoca in cui ha inizio la reciproca curiosità e conoscenza tra occidente e oriente. Gli artisti e gli intellettuali europei cominciano a guardare, stupiti e ammirati, all’arte giapponese: pensiamo a Klimt, Monet, ma soprattutto a Van Gogh (la mostra di Roma gli dedica una sala).

E gli orientali non sono da meno, basti pensare che la soggettività dichiarata dell’autore dell’opera è un principio che l’oriente ha acquisito dall’occidente, quindi solamente in questo XIX secolo; principio che era radicato in Europa già nel tardo medioevo (come ci ha raccontato esaustivamente Burckhardt). Oltre a ciò, alcune delle opere esposte, rompendo con la convenzione della bidimensionalità assoluta dell’immagine giapponese, dimostrano una raffinata padronanza nella tecnica della prospettiva.

Hiroshige

Potremmo poi parlare di come, nel Novecento, i più grandi registi giapponesi abbiano fatto riferimento agli autori americani ed europei per ispirarsi e crescere artisticamente (un esempio su tutti, quello di Kurosawa, che alimentava i suoi film con sceneggiature tratte da Shakespeare e Dostoevskij e al contempo ispirava Hollywood).
Così lontani, così vicini, appunto.

Passando all’altro “piano” della distanza, il discorso si complica, ma il rapporto di complementarietà reciproca resta: le immagini di Hiroshige ci fanno pensare a un Passato Mitico, un Paradiso Perduto che non tornerà più, e che probabilmente non è mai esistito, se non nella nostalgia che ne abbiamo. E così, l’arte di Hiroshige si rivela vicina alla poetica di Pasolini: in entrambi la ‘scarnezza’ e povertà della rappresentazione sono un omaggio a un’epoca che rischia di venir rimossa persino dalla memoria, collettiva quanto personale. I fiori e i colori morbidi, gli animali e il verde dell’erba sono elementi che hanno la stessa sostanza della malinconia e del rimpianto. Non a caso l’ecologismo e l’amore per la Madre Terra e per la Natura sono una costante di molti artisti orientali (così è per il già citato Kurosawa, così è anche per il genio dell’animazione Miyazaki); in questi ambiti si sprigiona anche tutta la portata dell’influenza shintoista, la più antica fede religiosa in Giappone, un’autentica filosofia di vita a cui lo stesso Hiroshige aderiva. Questo culto animista e politeista, risalente alle prime e originarie tribù del territorio nipponico venera la Natura in ognuna delle sue singole manifestazioni: tutto è sacro, la montagna, l’albero, il gufo, l’uomo.

Tali entità non vengono concepite come astratte e archetipiche, bensì venerate nella loro singolarità e particolarità (“questa” montagna è sacra, “questo” fiume…). L’arte di Hiroshige incornicia un pezzo di quel mondo venerato, di quella natura pulsante di divinità, e gli rende omaggio. Quest’arte aumenta di prestigio e di implicazioni quando ci accorgiamo che il suo autore non disdegna affatto di rappresentare gli uomini. Con sincera sensibilità, Hiroshige segue le aree urbane fatte di persone impegnate nel loro lavoro, occupate a trascorrere delle ore di serenità o di divertimento con delle donne, o in corsa per ripararsi dalla pioggia. Gli uomini di Hiroshige sono — di nuovo — incredibilmente vicini a quelli di Pasolini: esseri autentici, partecipi dell’ambiente che li ha partoriti e col quale condividono la loro stessa “carne”.

HiroshigeIl Giappone e l’Italia hanno vissuto un trauma simile: in entrambi i paesi la rivoluzione miracolosa dei costumi, della società e dell’economia nel dopoguerra è scoppiata in maniera repentina, coinvolgendo società ancora fortemente ancorate al folklore delle tradizioni e alle radici rustiche e contadine. Mentre Pasolini realizza le sue immagini in un’epoca che ha già surclassato quel passato, mitizzandolo con la sua opera nostalgica e struggente, Hiroshige vive la fase del transito della prima rivoluzione industriale e urbanizzazione dell’Ottocento sulla sua stessa pelle (in quegli anni Edo sta lentamente diventando Tokyo, la metropoli attualmente più popolosa del pianeta) e, come solo le coscienze e le sensibilità più acute sono capaci di fare, avverte “qualcosa” e sente la smania di immortalare quel presente che sempre più rapidamente la modernità stava divorando.

Ma, in definitiva, con che occhi l’occidentale guarda queste immagini? Con occhi paradossalmente partecipi, in grado di parlare alla sua anima razionale e soffocata dai tempi correnti. E i nostri occhi — così assillati dalla pienezza, dal vortice e dal turbinio di immagini pubblicitarie, di rumori insensati e claustrofobici che ci negano la possibilità di fermarci a riflettere — possono trovare, in questa quiete malinconica e raggiante, un’occasione di arresto per ritornare a sentire quella comunanza e reciprocità sostanziale col mondo e la realtà. È il Wabi, ovvero il sentimento del vuoto che coincide col tutto del senso della vita, il minimalismo dei segni che riflette l’esigenza di tornare a un’autenticità perduta. Il Wabi, parola intraducibile nel linguaggio razionale d’occidente, perché, d’altronde, per quanto vicini, restiamo pur sempre lontani.


Hiroshige nasce nel 1797 a Edo, la città che verrà poi ribattezzata Tokyo. Fin da giovanissimo studia pittura presso la scuola di Kano; dopo la morte dei genitori, avvenuta nel 1809, Hiroshige eredita i beni di famiglia e questo gli permette di proseguire la neonata carriera da artista: nel 1810 entra nell’atelier di Toyohiro e, nei primi decenni del secolo, realizza le prime opere. Dopo la morte del maestro, Hiroshige si concentra sui temi che diverranno caratteristici della sua produzione, ovvero il paesaggio naturale e gli animali. A questo proposito, nel 1830 escono le Trentasei vedute del monte Fuji e i Luoghi celebri della capitale orientale. Tra il 1832 e il 1834 realizza i Luoghi celebri di Edo nelle quattro stagioni. Si afferma sempre più radicalmente il suo successo, grazie a una serie di realizzazioni di grande prestigio e importanza (Otto vedute del fiume Sumida del 1840; Serie dei porti del Giappone del 1842). In questa fase, la sua vita è attraversata da diversi eventi tragici: nel 1839 muore la moglie e nel 1845 il figlio Nakajiro. Nel 1845 adotta un suo allievo pittore che verrà ribattezzato col nome Hiroshige II. Nel 1847 si risposa con Oyasu, figlia di un contadino. Continuerà a lavorare fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1858 a interrompere la realizzazione della sua ultima serie: Cento vedute di luoghi celebri di Edo.


Mostra: Hiroshige. Il maestro della natura
Sede: Museo Fondazione Roma, Via del Corso 320 – Roma. 
Date: dal 17 marzo a fine settembre
Orari: tutti i giorni dalle 10 alle 20 (lunedì chiuso)
Prezzi: 9 euro (7 con riduzione)
Sito:  www.fondazioneroma,it


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