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Percorsi

Da Trinidad a Baracoa

Anche a Cuba, come avviene in molte periferie del terzo mondo, la gente del campo girovaga dopo cena, a piedi, a cavallo, in moto, o mulinando i pedali d’una bici. Lo fa, sempre e comunque, senza fari e senza luci, simili a gatti fermi agli incroci neanche fosse mezzogiorno.

Trinidad de Cuba

Il micro-bus non è comodo come avevano spergiurato: otto posti che, avendo a bordo anche un copilota, si riducono a sette, bagagli compresi. Accomodiamo con precedenza e come meglio ci riesce chioccia Evelin e i suoi pulcini. Nestor, Ivo ed io sappiamo già che non chiuderemo occhio.

Il Viaggio appare e scompare dalla memoria con i rapidi flash back che il dormiveglia concede: mezzanotte e dintorni a Camaguey per il rifornimento gasolio. Il conduttore è un orso che veste la divisa blu della Via Azul, la compagnia ufficiale dei trasporti di stato. Tira continuamente su con il naso martoriato dall’aria condizionata e il finestrino aperto per poter fumare alla bisogna. Seconda tappa presso un chiosco il cui gestore dorme lasciando il compito di sorvegliare la baracca e le tre di notte a quattro galline. Stufo di non dormire scendo a pisciare sotto una tappezzeria di stelle. Santiago la passo via nel sonno scosso subito dopo da un posto di blocco sul bivio per Guantanamo. Risvegli nella notte che mi permettono di puntar bandierine sull’ideale cartina geografica cubana studiata prima di partire.

A una pompa di servizio messa giusto fuori una città sconosciuta, l’orso in divisa chiede indicazioni sulla strada da prendere per Baracoa. Quando spiega che è partito alle 21.00 da Trinidad lo prendono per matto. Una ragazza, nera come il buio, scherza sguaiata con la pistola del rifornimento in mano. Ne individuo, oltre il finestrino, le palle bianche degli occhi, il profilo si delinea appena: sembra lo stesso che ci ha fatto gasolio a Camguey. La stessa persona, un riflesso della santeria o un dejà-vú che paga pegno al sonno? Poco dopo, l’alba mi sorprende rivelando l’entità della città invisibile che stiamo attraversando. Guantanamo: un fitto via vai di gente tipico di un’ora di punta non fa trapelare il fatto che a pochi chilometri da qui esista una base americana centrata proprio nel cuore malinconico dei guantanamera. Questa riflessione priva d’importanza si dissolve davanti a una strada che s’infila tra due infinite linee d’alberi.

L’emozione che il paesaggio mi trasmette non mi permetterà più di chiudere gli occhi, spalancati ormai nella natura circostante. Il ponte d’alberi è scortato ai lati da campagne che trattengono il sapore di un mattino primordiale raccolto all’orizzonte da una corona di rilievi. Il sole, alzato da poco, assieme a nuvole basse, è un ornamento rosa indaco e pompelmo. Passaggio bucolico delimitato a oriente da un piatto oceano. Sulla via scorrono piccoli borghi animati da ragazzi che si recano a scuola. Quando la rotta piega da est verso nord, capisco che si è dato giro all’ultimo promontorio dell’isola.

Cuba, foto di Paolo Ghiotto Marin

La costa rocciosa lascia spazio a spiagge nere di natura vulcanica? L’oriente di Cuba è pregno in ogni sua minima sfumatura del nero più profondo: è la patria della musica più nera, eredità degli schiavi più neri, dediti alla magia più nera: il palo monte. Roba che Zucchero potrebbe patinarci un video Vodú con tanto di galline sgozzate, per intenderci. La strada sembra attratta da una forza invisibile sugli strapiombi al mare. La micro, come per sfuggire la minaccia, inizia ad arrampicarsi in una selva di palme imprigionate da colline che ci mettono pochi chilometri a sembrare montagne. Tutto sa di umidità, di tempesta appena quietata. Tiro fuori la cartina e noto che l’intero profilo orientale dell’isola è una sorta di baluardo, uno sbarramento per le nubi cariche di piogge che incrocino sul mar dei Caraibi.

Baracoaè una città di chiara impronta coloniale. La prima fondata a Cuba, dove, secondo la tradizione locale, cadde lo sguardo di Juan Rodriguez de Triana, vedetta di prora della Pinta che scarrocciava verso le nuove indie. Nei diari di bordo di Colombo, infatti, esiste la descrizione d’un promontorio simile a un’enorme incudine piatta, che indubbiamente si riconosce nella montagna del Yunque. Quando l’avvistò, il navigatore ipotizzò che si trattasse di un’isola interna. Di fatto è il punto più alto della provincia di Guantanamo, municipio di Baracoa, e domina vaste foreste pluviali disseminate di palmeti. Il nome dell’antica etnia indigena, dal cui nome deriva Baracoa significa: “luogo ricco d’acque”. La città, oggi, trattiene l’atmosfera d’una landa estrema, folgorata dal rigoglio che la circonda e dalla cattedrale dov’è conservata un’antichissima croce. Studi al carbonio 12 hanno provato che risale alla medesima epopea di Colombo; probabilmente l’unica superstite delle ventisette croci che il genovese portò con sé dal vecchio continente, durante la seconda delle molte attraversate che effettuò in seguito all’entusiasmante scoperta di un nuovo mondo. Nella zona ricca d’acque scorre il fiume Toa che significa rana. La leggenda vuole che un cacique — medesimo termine con il quale in altre etnie dell’America Latina si contraddistingue il ruolo d’un capo villaggio — per misteriosi motivi decise di dividere gli uomini e le donne della sua tribù. I figli, separati da uno dei genitori, versarono talmente tante lacrime da dar vita a un fiume, il Toa appunto, che prese nome da quello dei fanciulli che per abitare le loro stesse lacrime si trasformarono in rane.

Cuba, foto di Paolo Ghiotto Marin

Le spiagge del golfo sono nere quanto scuro è il mare circondato da un teatro d’immensi palmeti cangianti al sole. Il Tao nasce nel nord più impervio e selvatico della regione, per poi cambiare nome nei pressi della foce meridionale dove prende quello di Miele, punto in cui i pescatori imbrigliano le correnti con le reti. Nell’entroterra montuoso di Baracoa pare d’incrociare una latitudine ferma nel tempo, abitata da antichi cubani rimasti ancorati, sì, nei secoli scorsi, ma in un microcosmo sguinzagliato da qualsivoglia controllo, denso, magico. Una Cuba affacciata alla fine del mondo o ai sui primordi?

Rebecca e Regina sono due sorelle, amiche di Luis, che ci ospitano nella loro casa coloniale. Si nota subito come, dopo essersi informate sulla direzione che piglierà il nostro viaggio, tentino di mettere in cattiva luce Santiago de Cuba, per trattenerci il più possibile a Baracoa. Mi vien da sorridere pensando come ogni piccolo e infinitesimo luogo dell’isola si tramuti immancabilmente in una minuscola Circe intenta a conquistarti e imprigionarti con qualsiasi mezzo, lecito o illecito che sia. In guerra e in amore, a conti fatti, non esistono regole.

Perché volete passare per Santiago? È la città più pericolosa e violenta di Cuba. Qui si sta bene. C’è una natura rigogliosa, cibo squisito, donne meravigliose e disponibili. La voce suadente di Regina rimbomba nei soffitti dai volumi alti quanto uno spot che tenti di vendere il meglio del meglio del mercato nero. Dove invece il governo centrale fa cassa, grazie al turismo internazionale, è con i trasporti della “Via Azul”, la rinnovata compagnia di autobus. I prezzi sono davvero elevati e se rapportati al movimento che interessa circa tre milioni di turisti all’anno è davvero un’entrata considerevole.

La prostituzione vista dal di dentro

Le sere a Baracoa, come qualsiasi inizio notte che si schiuda a Cuba, rimettono immancabilmente in moto il volano dell’amore oscuro. Poco oltre la cattedrale, dove il crinale inizia a montare sui colli lussureggianti, un selciato ampio conduce ai piedi d’una terrazza bucolica che domina il mare. In alto già s’indovinano luci stroboscopiche e schiamazzi. Lascivia che si mistura con la sacralità del tempio appena lasciato alle spalle, diluendone i confini in un sottofondo di risacche. È una discoteca all’aperto, un pastino del divertimento notturno, il più frequentato di Baracoa. Per raggiungerlo è necessario salire una scala dei santi intagliata nella pietra. Ai piedi della rampa, un nugolo di ragazze attende gli argonauti giunti d’oltreoceano, pronte a irretirli ammiccando occhiate cariche di promesse e movimenti sinuosi. Ivo e José Manuel, giovani come sono, ne subiscono l’attrazione fatale. È bastato un attimo perché perdessero la Trebisonda in mezzo alle correnti ormonali che le mulatte sanno scatenare al minimo sguardo. In men che non si dica i due le invitano a ballare. Ecco come inizia il lavorio delle mulatte, fatto di manovre e accerchiamenti ai fianchi — dico a Nestor — Una volta dentro, vedrai che non dedicheranno più molte attenzioni ai più giovani, tentando l’abbordaggio ai matusa come noi. Sono clinicamente allenate a capire chi sia dotato del miglior portafoglio.

Piuttosto che intrattenermi con i soliti fiancheggiamenti, preferisco defilarmi e chiedere ai ragazzi di Baracoa che effetto faccia assistere al flirt delle loro amiche con impacciati e libidinosi stranieri. La mia curiosità, pur lasciandoli di stucco, riesce a far breccia nella loro vita privata: Ciò che proviamo noi ragazzi sono sentimenti che raramente importano a qualcuno. Certo che è dura vedere quanto poco basti, per uno yankee, ritrovarsi addosso le ragazze con le quali siamo cresciuti assieme. La confidenza tra noi è durata fino a quando a loro sono spuntate le tette, accentuando le curve dei corpi. Il momento migliore – sospira Vincent. Quel che fanno assieme agli stranieri per noi è soltanto inimmaginabile fantasia, ma sai cos’è il bello? Non capire se valga la pena invidiarvi.

Cuba

Ma allora perché tanto fastidio? gli chiedo consapevole della provocazione insufflata in quella domanda buttata lì. Perché ci fa sentire trasparenti, poca cosa. Sono situazioni che sviliscono in partenza qualsiasi gioia giovanile, lo stesso nostro amor proprio; certo che siamo giovani, ma la nostra gioventù invece d’iniziarci all’amore ci costringe ad assistere a queste porcherie facendo finta di niente; è il nostro buon viso al vostro cattivo gioco che vi permette di star bene, di passare una vacanza felice. Perché rovinarvi l’illusione che ciò che vivete qui sia davvero un divertimento per tutti, una predisposizione normale dei cubani, la cosa più naturale del mondo? Osservalo dal nostro punto di vista: a noi è negato il piacere del corteggiamento e delle sue schermaglie. Non vedi come siano le mulatte a prendere l’iniziativa corteggiando soltanto Yankee? C’è un ribaltamento incrociato dei ruoli che ci esclude dall’amore, e non mi pare poca cosa.

Il ragazzo seduto accanto a Vincent ha seguito il discorso in silenzio, poi mi chiede una sigaretta. Si chiama Alejandro ed è venuto a Baracoa da L’Avana per trovare il suo amico. Scopro così che vive di fronte al Capitolio. L’emozione di Habana Vieja e i corsi e ricorsi che sembrano inseguirmi dappertutto non mi esimono dal chiedergli se conosce Xavier, il fotografo che viveva tra il Floridita e il Capitolio prima d’esiliarsi a New York. Sì, L’Alain Delon di Habana Vieja, siamo cresciuti come fratelli! Mentre la festa sul pastino si è scatenata da un pezzo, noto che le ragazze-compagnia di Ivo e José Manuel vengono avvicinate da due filibustieri dalle facce già viste. Ma certo! Sono i ragazzi incontrati in piazza durante la cena e che già avevamo conosciuto nel pomeriggio mentre giocavano a calcio in un campo da baseball.

Ce ne hanno raccontate talmente tante: si sono spacciati come campioni nazionali di lotta libera, titolo che hanno dichiarato d’aver vinto per cinque anni di fila nonostante siano in due e non abbiano più di vent’anni. Sono gli stessi che ci hanno caldeggiato questa discoteca, e sembrano davvero in combutta con le ragazze impegnate a flirtare con Ivo e Josè Manuel; le avvicinano di quando in quando sussurrando qualcosa all’orecchio per poi ridere divertiti. Ora che rifocalizzo la scena, mi pare che le ragazze attendessero proprio noi all’inizio della serata. C’è qualcosa che non quadra e avviso Nestor di tenere gli occhi aperti sui ragazzi.

A notte inoltrata, quando sembra che la discoteca stia per chiudere, sono proprio loro ad avvicinarmi: Perché non compriamo una bottiglia di Avana Club della coca-cola e assieme alle ragazze continuiamo la festa a casa nostra? Avete una casa? Certo, ed è famosissima per il divertimento che riusciamo a imbastire lì dentro. Decido di stare al gioco e sgancio i quattrini. Ci vediamo in casa, ma dei due e delle bottiglie non avremo più notizie. Ivo, il sedicenne gigante cileno sembra imbizzarrito. Non ne vuole sapere di mollare la ragazza che lo istiga e lusinga, senza peraltro concedergli nulla se non una volta giunti all’alcova.

La mezza scusa e mezza verità che racconta è la solita: correrei seri rischi se la polizia mi pizzicasse con te per strada. Ivo è in piena tempesta ormonale e nonostante abbia sedici anni, devo sudare sette camice per convincerlo a lasciar perdere, incazzarmi sul serio e trascinarlo via di petto. Finalmente soli nella notte posso spiegarmi: Ivo della tua vita puoi fare davvero ciò che credi, ma non adesso, e non sicuramente sino a quando sarò il responsabile di quel che combini. Stammi a sentire: la festa organizzata da questa gente era una trappola bella e buona. Erano tutti d’accordo, sia le ragazze con cui avete passato la serata, sia i due filibustieri che ci sono ronzati attorno sin dal primo pomeriggio… ma a quelli, ovviamente, voi non li avete proprio notati, vero? Certo che ci saremmo divertiti nella casa misteriosa, ma loro certamente di più. È sufficiente che nel Cuba Libre infilino del sonnifero e siamo belli che fatti. Addio denaro, orologi e vestiti. Pensi davvero che sia solo basato sul sesso il gioco che propongono? Spesso è un paravento per allocchi che facilita i furti ai danni d’ignari stranieri. Il gioco del gatto e la volpe con Pinocchio, insomma. Non è la prima volta che ne sento parlare, e ti assicuro d’aver visto con i miei occhi più di qualche babbeo, gabbato dalla mania del sesso, piangere disperatamente e attraversare Habana Vieja per raggiungere l’albergo in mutande, dopo una notte brava.

Punti di vista sulla natura, dall’anima degli argonauti

Cuba, foto di Paolo Ghiotto Marin

Sotto una pioggia battente che va avanti sin dalle prime luci dell’alba, decidiamo di raggiungere la vetta del Yunque, il monte ad incudine che sovrasta Baracoa e il cui avvistamento permise agli uomini di Colombo di scoprire l’America. È anche il punto d’enorme valenza strategica che i rivoluzionari del generale mulatto Antonio Maceo, “il titano di bronzo” braccio destro e armato di Josè Martì, conquistarono alla fine dell’Ottocento, quando, sbarcando da Oriente, misero in moto l’idea d’una guerra d’indipendenza che non si sarebbe più arrestata.

I sentieri che s’inoltrano in una natura lussureggiante, puntellata da banani, palme di cocco, caffè, piante del cacao, aranci, mandarini e cedri non sono nient’altro che un pantano rossastro e scivoloso. Eppure, nonostante la fatica, si va su accompagnati dalla sensazione di violare un giardino dell’Eden. Nonostante d’umani non si scorga l’ombra, ci guida un ragazzo di diciannove anni, Fernando Sourt. A piedi nudi si porta sulle spalle i quindici litri d’acqua necessari per la giornata ma che, al nostro passo, potrebbe tenerci testa con un carico triplo.

Ci vogliono ore di fatica e umidità grondante per raggiungere la vetta dello Yunque. Un cammino da paradiso terrestre puntualmente rotto da un’arca di Noè d’invisibili versi, e che sul finale ci regala ampie schiarite di cielo. Lassù è come se ci si trovasse su un aereo, tanto la veduta è ampia e grandiosa. Per uno che a Cuba, o per dire meglio a L’Avana e dintorni, è sempre stato abituato al piatto, la vista dal Yunque, crocevia di momenti storici, di terra e di mare, si carica di potenza e grandiosità. Un religioso silenzio fa da degna cornice agli sguardi che cercano qualcosa d’ineffabile ben oltre a ciò che ci è permesso scrutare. Dopo la discesa e prima di raggiungere le amiche cilene che hanno preferito una giornata alla spiaggia, notando che Fernando Sourt ha il mio stesso numero di piede, decido di regalargli le mie scarpe, anche se inzuppate all’inverosimile. Quando capisce le mie intenzioni gli si accende un sorriso che vale la giornata.

Le spiagge che contornano Baracoa sono belle e bianche anche se imbruttite dai rifiuti e dall’assalto dei locali che tentano di venderti qualsiasi cosa, dalle oche ai monili, passando per i cuccioli di cane. Evelin, Gabri e Rosita le incontriamo proprio in compagnia di tre cani e un bambino, che si comporta esattamente come se fosse un cagnolino. Non sembrano soltanto affrante. Lo sono davvero: non puoi nemmeno immaginare il degrado che esiste sulla spiaggia. Questo bambino, ad esempio, è tutto il giorno che gira da solo assieme ai cani. È come se fosse stato abbandonato e mi fa una pena terribile.

Evelin mi fa una tenerezza inaudita perché riesce a infondere il suo smisurato senso materno non soltanto in famiglia, ma perfino sulle cose e nelle evenienze che immancabilmente finiscono per coinvolgerla. Tento di spiegarle che la situazione è esattamente opposta a quella che appare. Non è un caso che i suoi genitori abbiano lasciato il bimbo, che non avrà più di tre anni, da solo sulla spiaggia. Lo hanno fatto proprio perché c’eravate voi, nella speranza che gli regalaste qualcosa, o mal che andasse, per esimersi dallo sfamare una bocca in più. Un modo per approfittare della presenza degli stranieri. È un destino spesso crudele, quello di vedersi costretti a vendersi già a tre anni.

Cuba, foto di Paolo Ghiotto Marin

Evelin, la donna con la quale ho condiviso anni di amicizia intellettuale, che ha superato con coraggio gli anni bui della repressione di Pinochet nel suo paese, non riesce a sopportare più nulla di questa Cuba. A volte mi sembra che abbia nostalgia della sua Santiago, proprio nel momento in cui stiamo per approdare in quella di Cuba… sicuramente il punto più nero e dirompente dell’isola. Questo viaggio, il primo dopo anni di vagabondaggi solitari, il mio primo vero viaggio sull’isola, mi pone di fronte ad un’assenza quasi completa di condivisione proprio da parte degli stessi compagni che l’hanno ispirato. Una relazione che si fa, giorno dopo giorno, sempre più pesante e disastrosa. Se non ci fosse la compagnia di Nestor e l’isola a darmi gioia, potrebbe rivelarsi il peggior viaggio della mia vita.

La sera, davanti alla casa di Regina e Rebecca, è sufficiente improvvisare sulla strada una partita di calcio per dipanare apprensioni. Il gioco mette in subbuglio la calle intera. Si parte in cinque contro cinque: Baracoa contro il resto del mondo, con i cubani a gettare irriverentemente il guanto di sfida: diamogli giù a questi Yankee venuti qui solo per scoparsi le nostre donne. La notizia si sparge e il quartiere si anima. Ci si trasforma in un otto contro otto, via via in crescita, con le donne in bicicletta a sostituire spesso l’azione dei portieri volanti. I balconi delle case ai lati si riempiono come gli spalti d’uno stadio vero e proprio, con le matrone a fare il tifo. I cani abbaiano, si centrano vasi di fiori. Un oracolo ubriaco attraversando il campo di sfida finisce per essere falciato da un tackle più azzardato del solito. La partita va avanti ben oltre la calata del sole. A un certo punto si è perso il risultato, e non importa a nessuno. Conta il gioco per il gioco. Conta l’energia carburata assieme, anche da parte di quei curiosi accorsi soltanto perché convinti che si fosse messa in moto una rissa colossale. Roba che da anni non si ricordava a Baracoa.

Addio in solitudine alla fine del mondo

Mi alzo la mattina seguente con un infinita e inspiegabile tristezza. Ho bisogno di stare da solo, di spogliarmi di tutto e raggiungere Playa Blanca in costume da bagno e sandali. Ho bisogno di restituirmi nudo alla bellezza di queste lande, escludendo denari e parole, senza macchina fotografica ed evitando gli affari dei cubani. Esco. Il mare è più forte del solito: batte e ribatte facendo scomparire i miei piedi tra le schiume bianche. Circumnavigo la spiaggia, risalendo poi il fiume sino a un borgo di casoni, con l’intento di ritagliarmi un luogo primordiale.

L’ansa del Miele si affaccia sulla sponda d’un villaggio di pescatori. Il ponte che l’attraversa è divelto proprio nel mezzo, segno del passaggio devastante d’uragani. Passo dall’altra parte a nuoto godendomi l’acqua gelida del primo mattino. So dell’esistenza sull’altra sponda di un sito archeologico che si trova all’interno di un’area militare. L’ultima mania del governo centrale è quello di restringere l’accesso a parchi naturali e siti di rilevanza storica, dichiarandoli strategici e obbligando così i turisti a pagare non solo l’ingresso, ma anche l’obbligo dell’accompagnamento.

Un vecchio che fa fieno a colpi di machete mi indica l’ingresso alla zona archeologica, ma Playa Blanca è un nido per vagabondi nudi: minuscola, incastonata nella roccia, totalmente sommersa dalla schiuma dei cavalloni, se non fosse per una piccola striscia di sabbia brillante e levigata. Mi adagio in posizione yoga, e dopo così tanto tempo ripulisco lentamente i miei sette chakra con il pranha spinto su al ritmo del mio mantra segreto in contrazioni potenti. Quanto basta per tornare indietro soddisfatto.

Cuba, foto di Paolo Ghiotto MarinSul cammino percorso a ritroso, nei pressi del villaggio, un maiale consapevole di quel che lo aspetta lancia grida disperate. Poi il silenzio della fine. Riguardo il Miele quasi in prossimità della foce come se volessi individuare il punto esatto dove la forza del fiume annulla quella del mare, permettendo alle mie bracciate di portarmi dove ho deciso di andare. Nuotando a dorso mi godo i declivi colmi di palme. La solarità del Yunque emana potenze d’incudine. Brilla nella luce come un gioiello verde, proprio quando avverto la forza delle ondate sospingermi a riva.

Baracoa si vede, da qui, lontana e rilassata. I miei piedi nudi calzano e ripetono perfettamente le orme di una ciclista cecoslovacca che mi precede d’alcune centinaia di metri: Abbiamo lo stesso numero di scarpe, lo stesso di Fernando Sourt, la guida che ci ha permesso di scorgere questa fine del mondo dall’alto.

Segue con Santiago lo scuro

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