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Scrittura

Great Jones Street

La celebrità esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice e non la sobria rinomanza degli statisti sul viale del tramonto o dei sovrani dal mento sfuggente. Per celebrità intendo lunghi viaggi in uno spazio grigio. Intendo il pericolo, il confine di tutti i vuoti possibili, un uomo che impone l’erotismo del terrore ai sogni della Repubblica.
Incipit di Great Jones Street, Don DeLillo.

Copertina del libro Great Jones Street
Titolo: Great Jones Street
Autore: Don DeLillo
Anno di pubblicazione: 2009 (prima ed. italiana 1997)
Traduzione: Marco Pensatore
Editore: Einaudi, Torino
Collana: Super Tascabili
Pagine: 237
Prezzo: 12 Euro
ISBN: 9788806189846

DeLillo è sempre DeLillo. Sebbene questa non sia la sua miglior prova, anche in Great Jones Street, il grande narratore postmoderno analizza con sguardo lucido e preveggente l’importante mutamento avvenuto, e che a tutt’oggi si compie, nella società degli Stati Uniti e in quella occidentale in genere. D’altronde è difficile confrontarsi con opere quali Rumore Bianco, con cui nel 1985 vinse il National Book Award, o Underworld, dove l’autore concretizza il sogno di ogni scrittore statunitense: scrivere il “grande romanzo americano” capace di contenere e unire le diversità e il melting pot di tutta la nazione.

Di origine italiana — nato da emigrati che, dopo la prima guerra mondiale, hanno lasciato il proprio paesino nella provincia di Campobasso per inseguire il sogno americano — ma cresciuto nel Bronx, DeLillo è stato accomunato a figure quali Pynchon — dal quale riprende gli argomenti della paranoia e della cospirazione, e Salinger — per il disegno dell’uomo immerso in una società alienante. Oltre a questi elementi però, lo avvicina ai due artisti soprattutto la riservatezza che lo contraddistingue.

Facendone quasi uno scrittore di nicchia, se non di culto, le prime pubblicazioni dei testi dell’autore in Italia le dobbiamo a case editrici quali Pironti o Il Saggiatore. Proprio per quest’ultima Great Jones Street uscì per la prima volta nel 1997, mentre oggi Einaudi ci ripropone il romanzo nella collana Super Tascabili. Scritto e pubblicato negli States nel lontano 1973, il testo — al tempo era il terzo dell’autore — sorprende per l’attualità dei contenuti e delle tematiche trattate. La storia è narrata dal protagonista, la rockstar Bucky Wunderlick, frontman di un gruppo all’apice del successo che, durante una tournée, decide di mollare tutto.

Si rifugia appunto in un appartamento di Great Jones Street, a Manhattan, per poter scappare alla fama e al culto della personalità, nei quali non crede più. Ciò che DeLillo vuole qui indagare è la relazione che corre tra la dimensione pubblica e quella privata dell’artista, sviscerando ante tempo delicate questioni sulla tutela della privacy. Ma c’è anche dell’altro. Autoesiliatosi, lontano dal mondo e alla ricerca di uno spazio interiore che possa essere stabile, Bucky rappresenta lo straniamento dell’uomo moderno: “Il letto era come un grande organismo accogliente, una coltura marina o una pianta sintetica completamente rapita nell’oggetto che assorbiva. Nel mio sprofondare tra nebbie e leggende, nelle immagini ventose sull’orlo del sonno, mi parve quasi che il letto stesse sognando e che fossi io il suo sogno”.
Senza punti di riferimento, la stessa intuizione della realtà è resa difficile, in una condizione liquida che rischia di far sfumare il soggetto.

Don DeLillo

Mentre DeLillo ci esprime con tratti onirico cinematografici la “balorda e mitica” New York degli anni Settanta, ritratta attraverso quartieri quali NoHo, Greenwich Village o l’East Side; nella stanza, nel palazzo e nella via di Great Jones Street gli intrecci si spiegano: giornalisti a caccia di interviste e scoop sull’artista impersonano una chiara critica al mondo dello spettacolo dominato dai media; l’agente del cantante alla ricerca delle “incisioni della montagna” ancora inedite, a dimostrare una presenza ossessiva da parte del mercato e dell’industria discografica; strani e misteriosi individui di una “comune agricola”, che trattano una nuova e potente droga trafugata al governo degli Stati Uniti capace di inibire il linguaggio, rappresentano, invece, l’elemento della cospirazione, già presente in altri romanzi di DeLillo.

Una vicenda dall’inizio quasi kafkiano, con il protagonista involontariamente al centro di un’oscura trattativa, che sfocia poi in una trama orwelliana, con strani giochi di potere e di censura: “Leggiti Kafka. Cazzo, leggiti Orwell. Lo stato genera paura per mezzo della forza”, esclama un personaggio nell’opera; ma, soprattutto, a tornare alla mente è il già citato Pynchon.

Ancora ad Orwell si pensa quando l’autore affronta il tema del controllo dell’individuo diventato massa: “Il potere vero scorre nell’underground. E questo è il segreto meglio difeso dei nostri tempi. […] Sono i presidenti e i primi ministri a concludere gli affari underground e a parlare il vero idioma dell’underground. Le multinazionali. Le forze armate. Le banche. È questa la grande rete underground. È in questi ambiti che succede tutto”.
DeLillo vuole sottolineare l’illusorietà della libertà. Anche se le maglie del controllo sono larghe, o non si vedono, comunque ci sono. L’uomo è vittima di un sistema che tende a governare e ad omologare facendo affidamento sulla mediocrità dell’individuo.

Ad ogni capitolo si avvicendano personaggi nevrotici, maniacali, grotteschi, descritti dalla soggettiva del protagonista. Ne è un esempio Eddie, il vicino del piano di sopra, scrittore incompiuto, alla perenne ricerca della storia che gli apra le porte del successo. Eddie articola parole usando un linguaggio ossessivo, ripetendo che “il mercato è come una ruota che gira e gira”: le sue nevrosi manifestano l’incapacità di sopportare le frustrazioni imposte dalla società.
Non c’è spazio per il sentimento in questo romanzo, sostituito da un ambiguo cinismo.
DeLillo alterna pezzi di pura prosa lirica — spesso digressioni del pensiero e delle percezioni intime del protagonista — a dialoghi surreali e quasi iperrealistici partoriti attraverso le figure che costellano la trama:

– Ogni volta che passiamo da New York, devo caricarmi di droga. Sono tutto in ebollizione come una caldaia a vapore. New York è troppo vera. È l’entità più vera dell’universo osservabile.
– Qui stiamo allevando una razza di giganti — dissi. — Non è ancora evidente, ma lo sarà presto. Uomini, donne e bambini. Tutti giganti. Pronti a mangiare vetro e a spaccare cemento a mani nude.
– Mi faccio, amico. Mi somministro pozioni strane. È l’unico modo che ho per sopravvivere a un realismo del genere.

Don DeLilloPer la figura di Bucky, l’autore si è forse ispirato a Bob Dylan, esponente di quella controcultura nordamericana che cerca di emergere dal libro. Ma altri grandi artisti isolatisi nell’introspezione vengono alla mente: il pianista canadese Glenn Gould, ed il jazzista Thelonious Monk, protagonisti e vere sintesi del quesito che DeLillo pone in quel distillato della sua ricerca che è Contrappunto (Einaudi, 2008): “Ma cosa succede quando l’introspezione raggiunge un’intensità tale da annullare il mondo circostante?”
Il finale resta aperto ed ambiguo. Frammenti e riflessioni non trovano risoluzioni o risposte certe: a Bucky non resta che camminare per le vie di Manhattan senza avere le parole per esprimere la sua condizione esistenziale.

Don DeLillo è nato nel 1936 nel Bronx. È considerato il grande maestro della narrativa postmoderna americana. Presso Einaudi sono usciti Underworld, Libra, Body Art, Rumore bianco, Valparaiso, La stanza bianca, Mao II, Cosmopolis, I nomi, Giocatori, Running Dog, Love-Lies-Bleeding, L’uomo che cade, Americana, Contrappunto e Great Jones Street.

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