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Palcoscenico

Francesco Torrigiani

Per un teatro umano

Allestimento della Norma al Verdi di Trieste stagione 2008-2009Ora canticchia un motivetto mimando il gesto che vuol far fare alla cantante, ora confabula con la costumista, ora discute coi tecnici luci per impostare meglio quell’entrata ad effetto, ora improvvisa una lezione accademica in scena per trasmettere proprio quell’idea lì, e non un’altra. È in costante movimento Francesco Torrigiani, non si ferma mai, se non al momento di fumarsi una meritata sigaretta nella pausa caffè. Simpatico accento toscano, sguardo vivace, battuta sempre pronta. Spesso e volentieri lo si vede con qualche libro di teatro per le mani. L’atteggiamento è di estrema disponibilità, nei confronti di chiunque, dalla maschera al direttore d’orchestra. L’abbiamo incontrato al Teatro Verdi di Trieste, prima per l’allestimento della Norma e ora per quello della Vedova allegra, entrambe le volte in veste di assistente alla regia di Federico Tiezzi.

Cristina Favento (CF): Qual è stato il tuo percorso formativo e professionale?

Francesco Torrigiani (FT): Del tutto anomalo, perché sono un musicista. Ho fatto il conservatorio, ho fatto il professionista, ho fatto musica da camera, ho fatto il solista, e poi, ad una certa età, per motivi assolutamente occasionali, ho conosciuto il palcoscenico del teatro d’opera. Da quel giorno, lì ho fatto tutti i mestieri che si possono immaginare. Dal direttore di scena al maestro collaboratore, al direttore delle luci, fino poi a fare l’assistente del direttore artistico del Teatro d’Opera della Toscana, il Segretario artistico del Teatro dell’Opera di Roma. A queste esperienze, piano piano, si è affiancata la regia perché, mentre lavoravo al Teatro Petruzzelli, ho coperto sia il ruolo di direttore di scena che di assistente alla regia. Lì ho conosciuto diversi artisti con i quali spero di aver imparato qualcosa sul teatro.

Francesco TorrigianiNon ho fatto nessuna scuola teatrale, di regia intendo, però in quegli anni ho lavorato con Dario Fo, con Bolognini, con Gruber e ovviamente con Federico Tiezzi, proprio per l’allestimento di questa Norma (rappresentata a Trieste nel gennaio scorso, ndr). Ci siamo conosciuti 17 anni fa, e da lì ho fatto un percorso con lui fino al ’98, quando sono sono diventato Segretario artistico del Teatro dell’Opera di Roma e non ho potuto più seguirlo. Dopo questa esperienza di direzione ho fatto delle regie mie e ci siamo poi ritrovati su alcuni progetti particolari, come quello allestito qui al Verdi — la Norma appunto — che era stato il suo debutto in lirica e si è trasformata in un’occasione per lavorare di nuovo insieme.

CF: Quali sono, secondo te, le caratteristiche fondamentali di un buon regista? Immagino ce ne siano diverse ma parlando proprio di quelle distintive…

FT: Avendone visti lavorar tanti, direi che sono diverse. Ogni regista ha un suo modo di intendere il lavoro. Sicuramente è importante la capacità di gestire gli esseri umani. È un lavoro nel quale devi trasmettere delle tue sensazioni, delle tue idee, una tua concezione dello spettacolo, ad altri esseri umani. Devi quindi essere capace di coinvolgerli in un’idea che non è loro. L’attore non ha la stessa idea del regista, mai, non è possibile che sia così. Il regista è colui il quale fa innamorare di sé e della propria idea delle persone che inizialmente hanno idee diverse. Ci vogliono capacità di affabulazione e di gestione, di mantenere una distanza dal palcoscenico pur vivendo e palpitando con lui. Un lavoro, insomma, sostanzialmente gestionale. La componente creativa — la capacità di immaginare un’idea, di organizzarla, di precostituirla quando si studia un testo — è ovvio che sia parte di ogni lavoro d’arte, però, se non si riesce poi a lavorare con altri esseri umani, è tutto perso. Il teatro è essenzialmente relazione. Il regista, che è il primo spettatore, il primo creatore, il primo fruitore del proprio lavoro, se non ha capacità di gestione e di relazione, rende difficile il proprio lavoro. Ho visto registi bravissimi impegolarsi due giorni per un gesto sul braccio, e poi magari quel gesto non si nota neppure.

CF: Che effetto fa, per te che sei stato musicista, vivere dall’altra parte — musicalmente parlando — un’opera lirica?

FT: È difficilissimo! Ho impiegato anni a togliermi di dosso, o meglio ad impiegare in maniera diversa, un certo approccio al teatro lirico. È sbagliato approcciarlo dal punto di vista della partitura, perché un’opera lirica, dal punto di vista registico, è un’opera di drammaturgia della partitura musicale. Quindi è teatro, e il teatro è caos, mentre la musica è matematica pura: cinque righe, quattro spazi, quelle palline messe una accanto all’altra in maniera precisa e geometrica, ti impongono una visione matematica dell’esistenza.

Il teatro, per sua natura, parla invece dell’essere umano, vive anche di razionalità ma poi viene sistematicamente sconvolto da dinamiche irrazionali. Imparare a costruire un percorso professionale e creativo basandosi su questa “competenza del caos” per me è stato faticoso. Ora però, sperando di essere un pochino più competente da questo punto di vista, la base musicale diventa fondamentale perché capisci, da musicista, che certe idee drammaturgiche hanno il loro fondamento in quella frase musicale piuttosto che in quella scelta ritmica piuttosto che in quella variante armonica. Sai gestire quindi gli attori che vanno in scena in maniera musicalmente coerente e, per certi versi, hai un linguaggio che ti accomuna a loro e che fa sì che ti sentano dalla loro parte e si affidino alle tue comunicazioni.

CF: Quanto conta in tutto ciò la componente estetica? Nelle regie di Tiezzi, ad esempio, l’attenzione all’estetica è un tratto peculiare: come si combina con tutto il resto, come viene costruito l’impianto estetico di uno spettacolo?

FT: Prima ti dicevo che ogni regista ha un suo modo di approcciare la regia. Il Maestro Tiezzi, nasce e compie i suoi studi teatrali nel campo della storia dell’arte e quindi la componente — non direi tanto estetica quanto — pittorica è fondamentale. Lui ha tutto un suo mondo di riferimenti all’arte occidentale e non solo. Se uno pensa, ad esempio, all’Iris che abbiamo messo in scena qui a Trieste si accorge di come sia piena di riferimenti all’arte contemporanea — e non giapponese — che sono fondamentali per lui, perché fanno parte del suo mondo. Fondamentali ma pur sempre strumentali.

Allestimento della Norma al Verdi di Trieste stagione 2008-2009

Non si può leggere un’opera di Tiezzi semplicemente come una citazione di un mondo neoclassico piuttosto che romantico, rinascimentale piuttosto che contemporaneo giapponese. Sono strumenti che lui usa per creare qualcosa di nuovo che è un’opera “d’arte”, per quanto lo può essere un’opera teatrale, strettamente contemporanea e firmata da lui. Tant’è vero che quasi sempre usa strumenti visivi che ha già usato, come se avesse una serie di pennelli che riutilizza: un certo tipo di sipari, di prossemica degli artisti, un uso della prospettiva spaziale dell’immagine molto personale. Sono suoi linguaggi che usano pretestualmente delle citazioni pittoriche. Non parlerei però di uso estetico quanto di uso di fatti visivi a fini poetici.

CF: Il discorso può essere legato in qualche modo anche ai riferimenti alla tradizione… Tornando a te: qual è il tuo rapporto con la tradizione? Quali i tuoi riferimenti specifici quando si tratta di allestire e di progettare uno spettacolo?

FT: Facendo le dovute cautele, magari escludendo qualche nome, riconosco che nel teatro italiano vi sia una carenza che, a mio avviso, lo lascia privo di una grande eredità, quella di Giorgio Strehler: credo fosse il più grande regista della seconda metà del secolo scorso in Italia — questo penso sia indubitabile — e aveva, per lo meno nelle cose che ho studiato e che poi ho fatto io, una voglia assoluta di lavorare con gli uomini — non è un caso che la sua raccolta di scritti si chiamasse Per un teatro umano — che vedo poi nei decenni successivi essersi perduta.

Nel mio piccolo, tanto per essere chiaro, cerco e vorrei tener conto di quella lezione. Il teatro è qualcosa che un regista — che è un essere umano — concepisce come relazione con altri esseri umani, che sono gli attori — e per attori intendo attori, macchinisti, costumisti, sarte, comparse, coro, chiunque — partecipi al fatto creativo e che devono restituirlo al pubblico nella stessa identica concezione di relazione. Perché il teatro non è nel regista, non è negli attori, non è negli spettatori ma è sempre tra di loro. Perché uno spettatore torni a casa essendosi fatto un teatro della mente, c’è bisogno che degli attori abbiano la voglia di arrivare ad un altro essere umano. E questa credo sia una lezione di Strehler, un’eredità che non so quanto sia stata colta dopo la sua scomparsa. Però, ripeto, cerco di tenere questa lezione per me nelle mie possibilità.

Allestimento della Norma al Verdi di Trieste stagione 2008-2009

CF: Professionalmente hai dei rimpianti?

FT: No, non ho rimpianti. Ho compiuto degli errori, però insomma.. chi non fa non falla! Mi manca molto suonare, questo si. Professionalmente dico, perché personalmente suono per diletto il mio antico strumento. Il mondo della musica è un mondo stupendo. Far l’amore con i suoni assieme ad altre persone — soprattutto la musica da camera — è qualcosa di impagabile.

CF: Un progetto che ti piacerebbe curare?

FT: Sono due! Mi piacerebbe fare un Verdi, qualunque Verdi. Perché sono padre e credo stiamo vivendo un’epoca in cui la trasmissione di eredità tra una generazione e l’altra sia in crisi — fatto drammaticamente grave per la nostra società. Penso che un padre potrebbe leggere, ad un pubblico contemporaneo, un Verdi in una maniera che potrebbe essere interessante. L’altro progetto non centra niente perché invece è una Butterfly, per la quale mi piacerebbe ragionare sull’identità della protagonista in relazione alla cultura giapponese. In termini un pochino diversi rispetto a quanto è stato fatto fino ad ora.

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