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Cinema

Tendenze del cinema contemporaneo (I)

Modernità e Postmodernità

Immagine articolo Fucine MuteRipercorrere le tappe salienti del cinema di questi primi anni del nuovo millennio è un’impresa particolarmente ardua per diversi motivi. Parlare di cinema contemporaneo provoca una serie di perplessità e imbarazzi difficilmente risolvibili, perché “contemporaneo” è un concetto particolarmente evanescente, senza fondamenti teorici o cronologici determinati. In questa impasse d’altronde inciampa la storiografia dell’arte, per lo meno quella accademica: parlando di arte contemporanea si fa riferimento ad artisti di 30 o 40 anni fa, da Warhol a Pollock, da Rothko fino a sprofondare negli albori del secolo scorso. Duchamp e il dadaismo, Klee, l’astrattismo sono tutti riconducibili alla definizione di “arte contemporanea”, di certo per ragioni pragmatiche e approvabili perché legate alla necessità di ordinare il decorso dell’arte nel suo divenire. “Contemporaneo” rimane quindi un termine convenzionale.

Diversa è la funzionalità di un concetto quale quello di “modernità”: molti, da Max Weber a Walter Benjamin, hanno trattato della modernità definendo diverse peculiarità che ne profilano il senso. Possono essere principi relativi alla società o all’economia o — meglio ancora — alla politica: di solito, per “modernità” intendiamo l’epoca dell’affermazione dei sistemi democratici svincolati ed emancipati da ogni modello teologico ereditato dal passato. La modernità, dunque, nascerebbe con l’Illuminismo per affermarsi con più forte incidenza nel corso di tutto l’Ottocento (con l’avvento della società borghese, del consumo di massa, della “moda”, dell’urbanistica metropolitana…). A dire il vero, il tema è ben più complesso e ci porterebbe fin troppo lontano.

È chiaro però che, per quanto dibattuti, opinabili e flessibili, la modernità si rifaccia a dei principi che la collocano in un determinato posto all’interno della storia dell’umanità occidentale. Al contrario di “Contemporaneità”, appunto.

Questo non ci obbliga, tuttavia, a rinunciare alla possibilità di parlare di un cinema “contemporaneo”. Abbandonando tutta la complessità relativa al concetto di “modernità” in termini generali, proviamo a vedere che cosa intendiamo dire quando parliamo, più nello specifico, di un “cinema moderno”. Anche questa tematica meriterebbe centinaia di pagine; molti teorici e studiosi di cinema hanno interpretato a loro modo la “modernità” in relazione alla settima arte. La peculiarità — sulla quale molti insistono — propria degli autori moderni è di relazionarsi al film come un artista fa con la sua opera. Può sembrare un’ovvietà, ma ai tempi della commedia classica americana, l’importante per la riuscita di quello che era ritenuto essere un “buon film” era il “mestiere”, la capacità di adattare un codice convenzionale di regia, un linguaggio consolidato in grado di garantire successo economico perché già testato in precedenza. Intendiamoci, anche l’epoca del cinema tradizionale annovera degli autentici geni, come Hawks, Capra, Ford, autori coscienti dei mezzi che adottavano; ma loro stessi, vincolati dallo star system ed essendone espressione, erano ligi all’adozione di stilemi, soluzioni, formule di classicità che evitavano di mettere in mostra la “forma” puntando invece sul “contenuto”, ovvero sull’istanza narrativa. È un punto più volte messo in luce da Christian Metz, il maggiore semiotico del cinema; afferma Elena Degrada : “[…] Metz ipotizza che il cinema classico sia assimilabile a un tipo di enunciato volto a privilegiare scelte linguistiche che occultano le tracce della propria enunciazione (per esempio attraverso un montaggio «invisibile», che punta a non essere avvertito dallo spettatore), diversamente da ciò che caratterizza il cinema moderno, intenzionato a esibirle ”[1].

Un altro nome imprescindibile è quello di Gilles Deleuze, autore dei testi più affascinanti, complessi e indispensabili per la teoria del cinema; mi riferisco ai due volumi Immagine-movimento e Immagine-tempo. Deleuze fa tre nomi esemplari per fare riferimento al cinema moderno: Orson Welles, Alan Resnais e Jean-Luc Godard. Questi registi, pur in maniera differente, si sono emancipati rispetto a un modo classico e tradizionale di fare cinema, che aveva fatto la storia dell’epoca d’oro di Hollywood. Mentre il cinema classico era volto a subordinare gli elementi strutturali e formali all’azione implicata dalla sceneggiatura, realizzando le cosiddette “immagini-movimento”, il cinema moderno emancipa l’immagine offrendola al tempo. È più necessario che l’immagine abbia un legame logico-deduttivo con l’immagine successiva o con quella precedente, non c’è più una rigida consequenzialità degli eventi. Il regista classico avrebbe rimosso ogni singola immagine non funzionale alla storia, perché “avrebbe annoiato”; il regista moderno, invece, fa esordire i tempi morti, i luoghi svuotati, le attese, le azioni senza finalità né scopo.

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I tre autori citati si relazionano alla modernità ciascuno con il proprio approccio. Welles punta al “barocchismo” della visione, sperimentando nuove soluzioni registiche, inaugurando nuove tecniche di ripresa e riservando un valore forte alla “costruzione formale”. Resnais punta invece alla destrutturazione della linearità temporale e narrativa del cinema classico: nelle immagini che compongono i suoi film, memoria e percezione, passato e presente, virtuale e reale si condensano finendo per risultare indistricabili. In Godard, invece, c’è una radicale sovversione alla grammatica affermata dal linguaggio del cinema classico: nei suoi film, tutte le regole sintattiche vengono violate, dai raccordi di montaggio alla costruzione dell’inquadratura, dal valore dei dialoghi all’ordine dato alla successione degli eventi. Il singolo elemento linguistico assume una dignità mai avuta, diventa significante di per sé, senza nascondersi e annullarsi a tutto vantaggio della storia raccontata. Attraverso continue procedure metalinguistiche, attraverso, cioè, l’assiduo smascheramento della “macchina-cinema”, Godard può essere ritenuto il vero e proprio padre della modernità cinematografica.

A questo proposito, è doveroso fare riferimento a un altro testo che tratta direttamente dell’argomento in questione, adottando una visione pregevole e originale. Nel suo saggio Il concetto di modernità nel cinema, Giorgio De Vincenti passa in rassegna quelli che per lui sono da qualificare come “autori moderni” (condividendo l’idea che Godard sia uno di questi). De Vincenti tiene a precisare come, in un senso prettamente sociologico e tecnico, tutto il cinema sia moderno di per se stesso: “Tutto il cinema, in quanto procedimento tecnico, utilizzato per la produzione di merci indirizzate a un pubblico di massa, è moderno […] ”[2].

Ovviamente, risulta più intrigante e fruttuoso, da un punto di vista critico, definire una “modernità” secondo criteri di distinzione estetici, formali e concettuali. La posizione di De Vincenti è vicina a quella di Deleuze, sebbene sia più concreta e circoscritta: “È proprio la combinazione dell’impegno metalinguistico con il recupero dell’aspetto riproduttivo del cinema (film come testo secondo, produzione nuova, e critica di un testo preesistente) il motivo di fondo che definisce a nostro avviso il moderno cinematografico propriamente detto ”[3]. Un cinema, quindi, avente funzione metalinguistica, ovvero coscienza espressa e dichiarata dei mezzi adottati dal regista, e funzione riproduttiva. La “riproduzione” può assumere svariate connotazioni, può definirsi come ritorno alla funzione originaria del cinema di “cogliere la vita sul fatto” — nobile tradizione che dai Lumière, passando per Vertov, arriva al Neorealismo — oppure può intendersi “riproduzione” di un testo già consolidato in ambito letterario o teatrale, e perciò gioco di trasposizione estetica (che può valere anche in rapporto alla pittura). De Vincenti, a guisa di conclusione, dedica poi alcune pagine al tema che più ci sta a cuore in questa occasione, ovvero il cinema “postmoderno”, al quale appartiene anche il cinema contemporaneo; da questa prospettiva gli stimoli dello studioso sono meno pregnanti ed esaustivi, persino confusi (tentando di definire la ricerca di un autore come Visconti nella dimensione al limite tra modernità e postmodernità). Ma c’è un aspetto che viene ben evidenziato e che può esserci utile: “Se nel moderno il metalinguaggio si esprime attraverso gli indici del realismo, nel post-moderno esso azzera quegli indici nella manipolazione di residui culturali che sono già pienamente appartenenti all’immaginario dell’autore ”[4].

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Il passaggio al postmoderno implica mutamenti radicali nell’estetica cinematografica e nella maniera in cui viene concepito il lavoro di costruzione di un film. Il termine “postmoderno” è stato coniato negli anni ’80 da Jean Francois Lyotard, nel celeberrimo saggio intitolato La condizione postmoderna. L’autore assume che la contemporaneità sia contraddistinta dal tramonto delle cosiddette “grandi narrazioni”, caratterizzanti la modernità dalla fine dell’Ottocento in poi. La modernità nacque, per così dire, già nel Seicento, attraverso la messa in dubbio di alcuni principi, ma il Secolo d’oro rappresenta una fase di passaggio, durante la quale iniziano a “scricchiolare” le antiche strutture egemoniche culturali (è il secolo di Caravaggio, di Galilei e di Shakespeare, tra gli altri); con l’avvento dell’Illuminismo, sorge il “mito” del trionfo della razionalità emancipata; con l’avvento della società borghese, quello dell’affermazione del singolo individuo e l’inaugurazione di una nuova concezione di “potere politico”. Insomma, tutte la fasi che hanno scandito la storia della modernità mostrano l’adesione ad una “grande narrazione” volta a ricondurre ad unità significante la frammentazione degli eventi che caratterizzano il mondo.

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Ciò a maggior ragione all’indomani della tabula rasa rispetto a valori e verità assolute generata dal pensiero di Nietzsche, Darwin e Freud, che hanno permesso l’emancipazione del pensiero dalla dottrina religiosa e da fondamenti ereditati dal passato. La grande narrazione tenta di fare ordine nel caos, di spiegare e comprendere i vari fattori secondo un principio comune che possa metterli in relazione.

Tornando al Novecento, dopo la caduta definitiva delle antiche credenze, diverse nuove “grandi narrazioni” hanno caratterizzato la nostra epoca: la fede nel progresso scientifico, i nazionalismi, la psicoanalisi, il marxismo nelle sue innumerevoli manifestazioni… anche il nichilismo romantico di chi si angustia dinanzi all’insensatezza del mondo e della vita può venire ricompreso come grande narrazione, per quanto inconscia, ovvero come tentativo di dare ordine ai fatti. Ora, dice Lyotard, col postmodernismo avviene la caduta delle grandi narrazioni, dopo la quale resta la frammentazione, la proliferazione di spunti individuali senza connessioni; ogni singolo fenomeno acquisisce una dignità assoluta perché non riduce la sua funzione alla totalità finale e all’unità di senso. Ciò che sostituisce la grande narrazione è un pragmatismo relativo alle singole occasioni, alle specifiche esigenze di volta in volta mutevoli.

Vediamo come applicare questa teoria al cinema contemporaneo o, per lo meno, ad alcune delle sue manifestazioni più celebri e efficaci; tenendo anche presente la posizione di De Vincenti al riguardo. Per ragioni pragmatiche, il presente lavoro approfondirà film realizzati nel corso degli ultimi 8 anni. È chiaro che il cinema di questo periodo storico si sia dovuto relazionare, spesso suo malgrado, all’evento che ha drammaticamente inaugurato il nuovo millennio: l’attacco terroristico dell’11 settembre, vero e proprio spartiacque — culturale, sociale, politico e cinematografico — tra due epoche; Mauro Carbone, in Essere morti insieme, evidenzia proprio come le connotazioni postmodernistiche siano implicate a tale evento. Il mito dell’inattaccabile potenza americana, la fiducia nel progresso e nelle istituzioni internazionali, la garanzia della sicurezza territoriale, erano tutte grandi narrazioni forti che sono state spazzate via insieme alle due torri newyorkesi. La garanzia del potere economico degli Stati Uniti, inoltre, è stata scossa dalla crisi internazionale e dall’ascesa del “Bric” (Brasile, Russia, India, Cina), provocando, così, un totale spaesamento di convinzioni fin nelle fibre della società americana.

I film che esamineremo, quindi, si relazionano inevitabilmente con questo scenario, sebbene riteniamo sia il caso di rimandare uno studio specifico a favore di una trattazione che prenda in considerazione anche una serie di differenti problematiche.
Innanzitutto, lo scenario cinematografico internazionale conferma la logica della frammentazione, della dispersione dei generi. Il genere è spesso assunto per venire de-costruito e, a differenza delle decadi precedenti (come negli anni 60 e 70), non esistono più gruppi di registi riuniti intorno a un manifesto di intenti, o legati da convinzioni politiche, da principi estetici e da categorie artistiche definite. Tale frammentazione è confermata dal fatto che ogni autore, autonomamente, segue la propria strada e la propria ricerca.

L’universo immaginario di queste pellicole — e in questo ha ragione De Vincenti — punta sempre alla metalinguisticità. Non ci arriva, però, attraverso la “riproduzione” del reale o di altri testi, bensì per soluzioni originali intenzionate a ricercare di volta in volta una possibilità di “straniare” lo spettatore, di provocare uno choc. Conseguentemente, il cinema contemporaneo si esprime di frequente attraverso la cifra del “cinismo”, che spesso si traduce in un buon successo ai botteghini, specie tra le nuove generazioni.

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Oltre a questo, il cinema contemporaneo non rinuncia all’istanza narrativa, non punta, cioè, alla sperimentazione formale e visiva senza l’ausilio di una storia da raccontare. Tenta di esplorare modi sempre nuovi di raccontarla, data la fiducia di cui gode di poter narrare senza esaurirsi in modalità ovvie di rappresentazione e in costruzioni classiche. Consideriamo anche che i registi moderni assumevano un forte riferimento alle “grandi narrazioni” di cui abbiamo parlato: un esempio su tutti, quello di Godard che, rinunciando spesso all’istanza narrativa, piuttosto che raccontare storie si dedicava al tentativo di esprimere dei “concetti” attraverso la visione di gesti, forme, posizioni e soluzioni sperimentali in genere. Sono sempre “concetti” tipici della mentalità moderna, primo tra tutti il comunismo e il messaggio rivoluzionario ad esso implicato.

Il cinema contemporaneo è più disincantato, “cinico” appunto, offre molto più difficilmente risposte esaustive, appaga lo spettatore raramente, e, quando lo fa (come in Tarantino), ci riesce nella spudoratamente dichiarata falsità del film. Ma ci sarà tempo per prendere in esame i singoli film; al momento ci basti ribadire come l’unico carattere in grado di aiutarci a comprendere tanti film così diversi tra loro, l’unico punto in comune, sia la volontà di choccare. Tale volontà esprime il rifiuto di scuole, generi, stili, condivisione di intenti, adozione di soluzioni già consolidate: si tratta di un principio/non-principio, perché conferma la frammentazione, la singolarità irriducibile di ogni realizzazione. Lo choc è una dichiarazione di “isolamento” del film, del suo rompere con le convenzioni, del suo non volersi ridurre ad un’unità di significato. Si ottiene uno choc quando si rompe con la prevedibilità, quando la familiarità viene violata, quando accade qualcosa a cui non si era preparati. In questo senso i film contemporanei sono cinici, sia formalmente che moralmente, perché in questa “possibilità di choccare” lo spettatore hanno individuato una strada per stimolarne il pensiero e la riflessione.

Per concludere, Giulio Canova, nel suo L’alieno e il pipistrello (dedicato al cinema postmoderno degli anni ’90, quindi differente per molti versi dal cinema di cui ci occuperemo) riassume quelli che per Frederic Jameson, uno dei più grandi esperti (e critico) del postmodernismo, sono i fondamenti della postmodernità:

Ibridismo: Il postmoderno nasce per Jameson dal crollo della distinzione fra cultura d’élite e cultura di massa. [..] Il populismo si configura insomma come una sorta di “populismo estetico”.

Frammentarietà: Se il soggetto moderno era alienato, il soggetto postmoderno è frantumato e disorientato dalla crisi e dalla caduta tendenziale di tutte le forme identitarie tipiche della modernità.

Superficialità: A sostituire[…]i modelli di profondità si afferma un insieme di pratiche, discorsi e giochi testuali a cui Jameson da il nome di intertestualità.

Euforia: Il soggetto postmoderno frantumato reagisce alla dispersione che lo circonda (e che lo insidia) con una strana forma di “allegria allucinatoria” definita dall’autore come “sublime isterico”.

Omogeneizzazione dello spazio: Se il moderno si fondava su gerarchie spaziali molto evidenti, spesso strutturate secondo schemi antitetici (la città contrapposta alla campagna e al villaggio , con la “piccola città” o la “provincia” come elementi di mediazione fra i due poli), ora queste distinzioni scompaiono.

Presentificazione del tempo: Radicale indebolimento della nozione di storicità […]. Le categorie moderne della temporalità, della memoria e della durata subiscono un brusco declino a favore dell’emerge di un eterno presente […]. Il passato diventa così un grande serbatoio di immagini da ripescare di volta in volta con atteggiamento nostalgico o ludico[5].

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Segue con Tendenze del cinema contemporaneo (II)

Note


[1] Elena Dagrada, L’analisi testuale del film. Uno sguardo storico in Metodologie di analisi del film, a cura di Paolo Bertetto, Laterza, Bari 2006, p. 21
[2] Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche editrice, Parma 1993, p. 13
[3] Ivi, p. 19
[4] Ivi, p. 237
[5] Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani, Milano 2004, pp. 9 – 14

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