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Musica

Have Boss, will travel (II)

Vienna

Segue da Have Boss, will travel (I)

Quando siamo partiti alla volta di Vienna immaginavo che sarebbe stato difficile scrivere su questa seconda tappa un racconto che fosse di piacevole lettura anche per coloro che — curiosamente — non hanno interesse nell’argomento Springsteen.

Bruce Springsteen

Ora, invece, ho molta più fiducia, perché sono diventata l’unta del Signore. Senza contare che per scrivere ovviamente uso Lamano. Potrei scrivere di qualsiasi argomento, non importa se con competenza, se in uno stile accattivante o meno.
Proviamo: Astanblanfemininkuntan!
Visto? Stupendo, non è vero? Eh, miei piccoli lettori, che volete farci? Ora tutto ciò che faccio con Lamano dà risultati meravigliosi, compreso il digitare sulla tastiera. Ma voglio essere originale: comincio dall’inizio.

Vienna è vicina e si opta per il mezzo preferito: l’automobile. Avendo avuto tempo, saremmo andati in auto anche a Stoccolma e il vero motivo per cui non siamo ancora andati a vedere Springsteen negli USA è che non abbiamo avuto ancora la garanzia che le date dei suoi concerti in patria coincidessero con la gelata dello Stretto di Bering.
Eccoci, dunque, il 4 luglio al parcheggio di Opicina, appropriatamente nei pressi di Strada per Vienna, in formazione completa. Con noi, due impiegati di banca e uno psicologo, che è naturalmente il più spostato di tutti. Il clima è consono al calendario e l’auto parte traboccante di entusiasmo.

Anche il sedile dietro trabocca e, arrivati a Maribor, ho il buon gusto di cedere il posto davanti al passeggero soprannominato Slonc. I lettori a ovest del Timavo sappiano che slonc è dialetto carsolino e va pronunciato, secondo la fonetica slovena, “slonz”, che significa — in questo caso l’assonanza aiuta — “lungo”. Si dice anche di una bibita allungata o molto abbondante. Esempio:
– Ciò, xè de morir de caldo, te vol quarcosa de bèver? [“Caspita, si muore di caldo, gradisci una bibita?”]
– Ma sì ah, dàme un slonz che no stago in pìe! [“In effetti soffro un po’, andrà bene tutto, purché abbondante!”]
Comprenderete insomma che, nonostante fossi l’unica donna presente, avendo a bordo uno spilungone, aver occupato per duecento chilometri il posto anteriore è stata una mossa da “dieci e lode per lo stile, ma meno parecchi milioni per l’idea”.

Dopo tanti concerti e dopo aver perfino toccato Bruce, ho cominciato a comportarmi come quei fan che non molto tempo addietro definivo — non senza critica — snob. Ossia quei sofisticati che “questa l’ho già sentita”, “questa la suona sempre”, “questa era meglio la versione di due anni fa”, “piuttosto che questa avrebbe fatto meglio a suonare quell’altra” e via dicendo. Il più delle volte la mia indole ingorda ha la meglio e mi entusiasmo per l’ennesima esecuzione di Thunder Road (“Evabbè, grazie, è Thunder Road!”, diranno — a ragione — i miei piccoli lettori), tuttavia cado sempre più spesso in comportamenti selettivi.

Per esempio, ora, sono nella fase Before the fame e vorrei tanto ascoltare dal vivo qualche rarità dei primi anni Settanta. Before the fame è il titolo del doppio album apocrifo di Springsteen. Lo chiamo album e non bootleg perché non si tratta di registrazioni pirata di concerti o di incisioni trafugate, bensì di brani registrati in tempi precedenti al contratto di Springsteen con la Columbia — a tutt’oggi legalmente di proprietà dell’allora produttore di Springsteen — e pubblicati, in virtù di questo vecchio contratto che compare anche in copertina, alla luce del sole sotto un’altra etichetta. Non mi sentirei di consigliare ad un neofita di avvicinarsi alla produzione springsteeniana con questo disco (oltretutto — tema assai caldo tra i fan di Springsteen — c’è gente che ha avviato le pratiche del divorzio in seguito all’eterna disputa Born to Run /Darkness), tuttavia, chi già ha avuto modo di amare questo artista anche per i lavori realizzati prima di Born in the USA, ne apprezzerebbe di sicuro l’ascolto.
Manco a dirlo, il brano che avevamo richiesto a Stoccolma è presente in questa raccolta.

Pertinace come un venditore di Folletto, stavolta sono attrezzata per sottoporre come si deve “La Richiesta”. Stavolta le condizioni atmosferiche non mi fregheranno, ho preparato il cartello plastificato e resistentissimo, rivestendo con il DCFix i singoli fogli che lo compongono e riplastificando le giunzioni fra di essi. Stavolta l’ho fatto flessibile e indistruttibile, resistente alla pioggia e agli strappi. Stavolta, se Dio decide di punire gli uomini col diluvio universale, tutto quello che troveranno gli alieni su questa terra tra una manciata di secoli, sarà uno striscione con scritto Zero and blind Terry.

Ora io non tedierò il lettore con la pubblicazione integrale del testo e della sua approfondita analisi, ma sia detto che il valore di questa canzone non risiede solamente nella sua antica datazione. A differenza di alcune produzioni coeve, piuttosto rudimentali, questo reperto presenta già la maturità compositiva del periodo classico, manifestando anche la peculiarità della poetica springsteeniana: la sintesi.
I testi di Springsteen sono, con poche eccezioni, perfetti soggetti di film (veri critici e scrittori migliori di me hanno sviscerato in precedenza il rapporto di reciproca influenza tra le canzoni del Boss e il cinema) e Zero and Blind Terry ne è uno dei primi esempi. Con il valore aggiunto di essere ancora un po’ distante dall’esattezza narrativa della maturità e di mostrare spontanee ed ingenue concessioni alla romantica fantasia di ventenne visionario.

È il topos dell’amore osteggiato — un po’ Romeo e Giuletta, un po’ West Side Story — tra Zero, a capo della gang dei Pythons, e Terry, che ci immaginiamo socialmente più elevata. Il di lei padre è naturalmente contrario all’unione perché ritiene lui un inaffidabile, un ladro e un bugiardo. Così, una notte, Zero sbuca dall’oscurità e le bisbiglia (e se avete presente come bisbigliava Springsteen a vent’anni capireste perché tanto entusiasmo) di far su armi e bagagli. I due fuggono di corsa, come se l’indomani la Terra avesse dovuto essere avvolta dalle fiamme. Non è mica finita, il paradigma cinematografico “situazione — colpo di scena 1 — confronto — colpo di scena 2 — risoluzione” è fedelmente rispettato: il padre di Terry ingaggia dei soldati per uccidere Zero e riportare Terry a casa. Ma i Pythons difendono la fuga del loro leader, sbarrando la strada e ingaggiando un combattimento con le truppe vestite di bianco — i primi armati di pistole futuristiche, i secondi di spade laser. Una manciata di anni prima di Guerre Stellari.

fans Springsteen

Zero e Terry possono così allontanarsi e — altro cliché — il finale è aperto, poiché le voci che corrono sul destino dei due innamorati sono diverse: alcuni dicono che sono stati acciuffati e riportati indietro, altri che sono riusciti a fuggire… Tuttavia, suggerisce il narratore, pare che guardando bene nel punto dove si sono affrontati gli schieramenti, si possano scorgere Zero e Terry che scappano, facendo l’autostop lungo le strade del cielo. Una manciata di anni prima dellla Guida galattica per gli autostoppisti.

In questo brano, Springsteen nomina due animali: le silver foxes, che vengono sguinzagliate per rintracciare Terry, e i reindeers, alla cui corsa paragona la fuga della coppia. Sono certamente immagini insolite, perché — tipicamente — sono i cani che vengono lanciati all’inseguimento delle volpi, e non viceversa, e perché il caribù è una creatura un po’ poco poetica per simboleggiare la corsa degli amanti. È da notare, a questo punto, che “silver fox” è il nome di un’operazione militare messa in atto dall’esercito tedesco, durante la seconda guerra mondiale, sul fronte russo, per la conquista di un porto sul Baltico, preceduta da una manovra per la conquista di una miniera di nickel in Finlandia, denominata — guarda un po’ — operazione “Reindeer”.

Insensibili all’immensità di questo componimento, i miei compagni trascorrono il viaggio dileggiando la mia richiesta. I folli non approvano la scelta e inizia il dibattito: “Il signboard: uno scontato capolavoro o una rara porcata?”. Io mi ostino a spiegare loro che ci sono anche le vie di mezzo e che Zero e Blind Terry è — come chiaramente dimostrato poc’anzi — tutto fuorché una porcata. Non ci sentono, lo psicologo è a ruota libera e se ne esce con “Allora chiedi Pony Boy! Anzi, fagli un rebus: disegna un cavallino e un bambino e vediamo cosa fa”. Se il lettore non sa cosa sia Pony Boy, va benissimo. Lo esorto a non documentarsi. Pony Boy è una delle cose di cui ogni fan di Springsteen si vergogna, preferiamo non parlarne e dimenticare. Abbiamo tutti fatto la pipì a letto da piccoli, ma non per questo nostra madre deve raccontarlo nei particolari ogni volta che portiamo a pranzo una fidanzata. È capitato, pazienza, passiamo oltre. Mio marito, salomonico, dirime la disputa facendo ascoltare il brano della discordia e anche gli altri passeggeri ammettono che sì, è bello.
Branco di ignoranti di nessuna fede, come osavate dubitare?

Vienna

Un altro fattore, sempre secondo lo psicologo, insidia le mie possibilità di ascoltare questa canzone: Bruce non se la ricorda. So bene che ha ragione e, memore di Stoccolma, ho preso i giusti provvedimenti: sul retro dello striscione ho scritto parole e accordi. È una richiesta a prova di rimbambito! Il mio cartello vince anche l’obiezione mossa il giorno prima dal mio collega preferito, il quale aveva tentato di annientarmi ventilando: “E se lui la fa in un’altra tonalità?”. Obiezione legittima, penseranno alcuni, tuttavia io non ho, come ogni chitarrista avrebbe fatto, scritto gli accordi con cui suono il brano, bensì — essendo uno dei rari casi di individuo affetto da amusia — ho copiato quelli “ufficiali” che si trovano su internet, cioè, presumo, quelli con cui il brano è suonato sul disco.

Before the Flame

Casomai, vorrà dire che assisteremo all’unica esecuzione della Storia di Zero e Blind Terry in diversa tonalità! Non ci sono pericoli, né scuse, né ragioni per cui non dovrebbe farla. Tranne quello che — siamo appena dopo Maribor — avanza ora il bancario con la faccia da sergente istruttore: troppo sax. Ha tragicamente ragione: ci sono ben due assoli di sax, Big Man non ce la fa. Suvvia, Big Man suona per tre ore come tutti gli altri, e in tre ore di concerto — sebbene stia spesso seduto, abbia un assistente che gli massaggia le gambe e un assistente che gli porge gli strumenti per risparmiargli lo sforzo di stendere il braccio — fa ben più di due assoli di sax, la maggior parte dei quali non sembrano ridurlo in fin di vita. Perciò perché non dovrebbe suonare questa? Basterà mostrargli il cartello, basterà fargliela venire in mente.

Macché! I miei compagni sono spietati: “È più probabile — infierisce lo psicologo — sentirgli fare Jersey Girl che Zero”. Baggianate! Jersey Girl è un brano (stupendo) di Tom Waits eseguito spesso negli anni Ottanta e poi divenuto un’inconcepibile rarità, suonato — ovvio — solo nel New Jersey, solo in serate speciali. Nessuno in Europa lo sentirà mai. Baggianate!

Anche la receptionist dell’albergo mi è ostile e mi si rivolge in inglese, mentre io voglio a tutti i costi mein Deutsch verbessern. Davvero non capisco questa sua ostinazione a volerci comprendere reciprocamente. Quando mi pare di sentirle dire “Kein Zero”, rinuncio e cedo il posto al bancone a mio marito, il quale — come è noto — non parla, ma tutti lo capiscono.
Uscendo col proposito di fare un giro in città, passiamo accidentalmente davanti allo stadio intorno alle diciotto e apprendiamo che ci sono centoventicinque persone in lista. Il fragore che udiamo è il rumore delle nostre velleità di conquista della prima fila che si schiantano al suolo.

In compenso, saliamo sulla metro con il cuore assai più leggero. Ammiriamo il teatro dell’Opera, il palazzo Hofburg, il duomo di Santo Stefano e la bella architettura austro-ungarica (e anche qui, prevedibilmente, le analogie con Trieste si sprecano: ve le risparmio). In verità badiamo solo superficialmente ai monumenti, mentre giriamo allerta e guardinghi come ninja, pronti a stanare Springsteen ovunque si nasconda, a costo di dover rovesciare ogni singolo portavaso. Con un poco di fortuna, potremmo incontrarlo dietro al prossimo angolo, mica come i fulminati che passano la notte davanti allo stadio. Ah, ah, ah! Che scemi!

Sempre decisa mein Deutsch zu verbessern, approfitto della cena in una birreria storica per ripassare il lessico. Ossia, perdo tre quarti d’ora per leggere attentamente tutto il menu, incappando infine nelle misteriose Erdäpfel. Proprio non mi capacito di cosa possano essere queste Erdäpfel. Traducendo letteralmente dovrebbero essere “mele di terra”. Facile: le patate, come in francese. Eppure, se fossero patate sarebbero Kartoffeln. Poco, ma sicuro. Lo sanno tutti che patata in tedesco si dice Kartoffel, vuoi che non lo sappiano a Vienna? Per fortuna, il solo piatto che non contiene carne ha queste benedette Erdäpfel di contorno, così lo ordino e fugo ogni dubbio. Sono un po’ delusa dalla competenza linguistica dei viennesi quando mi ritrovo due mezze patate nel piatto.

La birra è particolarmente beverina, poco gassata e dolce com’è, e alla fine del primo mezzo litro siamo nel pieno del nostro passatempo preferito: il comaraggio springsteeniano. Già, perché il fan di Springsteen, in condizioni di relax all’interno del suo branco, si lascia volentieri andare al più sfrenato pettegolezzo provincialesco. Non il gossip, intendo, che si esaurirebbe con “dicono che abbia cornificato la moglie con un’altra rossa”. No, noi proprio finiamo col criticarlo acidamente, come una portinaia con il commendatore del quarto piano. Lo psicologo osserva, infatti, che è in fondo un uomo meschino, sa benissimo cosa passiamo per lui e se ne frega. Sa benissimo quanto costano i biglietti per i suoi concerti e gli sforzi che affrontiamo, ma lui se ne frega e rimane sul piedistallo. Tanto è partecipe e si concede al pubblico durante gli show, tanto è schivo giù dal palco concedendosi ai fan il minimo indispensabile, e neppure poi così spesso.

Particolare architettonico ViennaTutto sommato, anche se ci tiene alla sua allure da working class, è un fighetto come tutti gli altri, che va in giro con la bodyguard. Alla fine del secondo mezzo litro, lo psicologo arriva a etichettarlo come superficialotto e questo termine diventa il tormentone della serata. Se non fosse un superficialotto — azzarda sempre lo psicologo — adesso passerebbe a salutare i disgraziati che fanno la coda davanti allo stadio, anziché starsene in albergo a farsi fare massaggi e manicure. Il sergente istruttore è, invece, un acceso difensore della genuinità di Bruce e la disputa fra i due prosegue vivace tutta la sera.

Rientrando in albergo, passiamo ancora una volta inutilmente per lo stadio e apprendiamo che, intorno alle 21, Springsteen è davvero passato a salutare i fan in coda e si è persino fermato a mangiare della pizza… Lo psicologo capisce da solo che è ora di finirla. Io, mio marito e Slonc ci scambiamo una fugace occhiata di intesa, pronti a bloccare il sergente istruttore qualora, comprensibilmente, fosse colto dall’impulso di ucciderlo. Anzi, quasi quasi non lo fermiamo e testimoniamo che si è trattato di un incidente.

La mattina del giorno del concerto il piano è semplice ed infallibile: prendere il numero della coda, fare l’appello delle nove, andare a fare colazione e tornare a mettersi in coda. L’appello è spostato alle dieci e i bar sono tutti chiusi. Ottimo, avevamo proprio bisogno di un contrattempo per innervosirci prima di un’attesa lunghissima.Optiamo per il mendicare la colazione all’albergo e, data la necessità della situazione, il mio tedesco si fa comprensibile e persuasivo, lasciando tutti stupefatti, me compresa. Torniamo a digerire davanti allo stadio, accomodandoci su un pezzo di asfalto in ombra, che non sarà la quintessenza dell’igiene, ma, con il sonno post-prandiale che mi ritrovo addosso, è tutto quello che mi resta da desiderare.
Componiamo la fila all’una e ci accomodiamo fra le transenne. Compare finalmente il Furlano — dite la verità, miei piccoli lettori, eravate in pensiero ché non l’avevo ancora nominato — fresco come una lattuga, dicendo di essere in coda all’altro cancello. Mi fa bersaglio di un paio di sfottò di circostanza e se ne torna in fila.

Poco dopo, le nubi si addensano rapide e rovesciano su di noi una pioggia fredda e abbondante, ma noi ci ripariamo con le mantelle che mio marito aveva previdentemente portato. Sarà che è saggio, sarà che è incappucciato, ma io sono sempre più convinta di aver sposato Obi Wan Kenobi. E che il Furlano porti sfiga, mi pare lampante. Trascorriamo il pomeriggio entrando e uscendo dalle mantelle, giacché a violenti rovesci si alternano schiarite, durante le quali restare sotto l’impermeabile nero potrebbe essere fatale, raggiungendo l’atmosfera temperature marziane.

L’inettitudine dell’organizzazione teutonica non mi stupisce più, però metterci in fila per dodici, poi per cinque e poi buttarci dentro a imbuto, perquisendo più gli italiani (una marea) che i locali, mi pare demenziale anche per Vienna. In qualche modo, nonostante le decine di spettatori che ci superano in volata, mentre a noi le guardie intimano nicht laufen, arriviamo alla seconda pedana da destra. Io ho la luna storta (uso chiaramente un eufemismo, tanto passerebbe il correttore di bozze ad epurare, il lettore sostituisca con la più truce volgarità che riesce a pensare), perché se fossimo entrati in ordine saremmo in prima fila centrale, ma siamo comunque dove avevamo deciso di metterci, quindi bando alle lamentele e stringiamo il coltello fra i denti per difendere la posizione. Ricordo vagamente di aver manifestato il proposito di non dilungarmi nei dettagli del concerto per non ferire i sentimenti di coloro che non hanno potuto assistervi. Mi rimangio qui ed ora la parola, perciò gli animi sensibili smettano pure di leggere.

Vienna

A Vienna ho assistito al miglior concerto della mia vita. Lo so che lo dico quasi sempre, si vede che ho la fortuna di assistere a performance in crescendo. Ma questa serata è stata imbattibile. Durante la performance non lo tocco semplicemente, non mi limito a palpargli una coscia. Di più. Gli tocco l’arnese.
Sporcaccioni, cosa avete inteso? Riesco a toccare la chitarra. Pienamente, a lungo, arrivando a pizzicarne il mi cantino. La mia mano destra ha suonato la chitarra di Springsteen, la stessa chitarra che compare sulla copertina di Born to Run. Ora posso aggiustare le cose imponendo su di esse Lamano, farmi saltare gli oggetti nel palmo semplicemente chiamandoli, spazzare le nubi dal cielo e resuscitare le piante. Pesto a caso la tastiera del pc e ne salta fuori per magia l’articolo per Fucine. Scommetto che guarisco anche i lebbrosi; di sicuro le croste sulle ginocchia che mi faccio cadendo dalla bici vanno via molto meglio. Sono l’unta del Signore. Ora io e Bruce siamo uniti da un’empatia costante, condividiamo percezioni e sentimenti, tipo Harry Potter e Voldemort. I suoi pensieri sono i miei pensieri. Anche Sarma, la mucca che suona l’ukulele che vive nella mia testa, è contenta: finalmente un po’ di compagnia, nel vuoto desolato del mio intelletto.

Born in the Usa, Bruce Springsteen

Inspiegabilmente, o forse perché ancora non so gestire bene i superpoteri, nonostante la nostra perfetta sintonia, Bruce non accoglie la mia richiesta. Per essere onesti, la scarta. Vede il cartello, nota la scritta perché si sofferma a leggerla, prende lo striscione fra due dita per controllare di aver letto bene. E me lo lascia qui. Non lo porta via, apre le dita e lascia andare la mia richiesta. Ora so cos’ha provato Di Caprio quando la culona sul relitto del Titanic l’ha lasciato inabissarsi in fondo al mare. E a nulla vale sbandierargli il cartello sulla faccia ogni volta che torna, a nulla colpirgli le braccia con petulante pertinacia, al fine di farmi notare, se non altro per il fastidio (come testimonia anche una ripresa visibile su YouTube: quel cartello piegato che bussa imperterrito sul braccio e poi sulla gamba di Bruce è retto dalla mia insistente e irriverente manina…).

Non sarà Zero e Blind Terry la chicca della serata. Dannati Viennesi. Maledizione a loro e al loro stupido gusto anni Ottanta, per soddisfare il quale ci ha già fatto sorbire Cover Me. Ebbene sì, la via del cielo è disseminata di prove alle quali veniamo sottoposti: a Vienna ha suonato anche Cover Me. Questo brano fa parte di Born in the USA, probabilmente l’album più popolare di Springsteen, specie tra i non-fan. I fan, per l’appunto, lo snobbano, proprio perché troppo popolare e perché molto legato al periodo storico in cui vide la luce e perché fa uso abbondante di sonorità sintetiche. In verità, sotto la patina di uni posca fucsia e gomma brooklin alla clorofilla, i brani cantavano sempre la disperazione dell’antieroe springsteeniano, ma l’aria scanzonata che hanno dal punto di vista sonoro fa sì che il vero fan dichiari sistematicamente che non è Born in the USA il suo disco preferito (tipicamente, per chi volesse approcciarsi con rispetto alla materia, i dischi più apprezzati sono Born to Run e Darkness on the Edge of Town. Chi scrive vota BTR, il consorte Darkness). Nonostante questo, in fondo, Born in the USA ci piace. Specie dal vivo, ci piace. Magari a piccole dosi, data l’indigestione che ne facemmo a suo tempo, ma ci piace. A parte Cover Me. Cover Me è l’equivalente musicale del castagnaccio: è pessima e stufa dopo il primo assaggio. È la capostipite degli inascoltabili e ce l’ha inflitta tra i primi brani della scaletta, così: “by default”. Ho i brividi al pensiero di cosa pescherà dal pubblico.

Invece ci sono delle belle sorprese: Growin’up non è una chicca, ma è sempre bella; poi mi sorprende favorevolmente la scelta di Rendevouz, non rarissima, ma neppure scontata. Non comprendo fino in fondo la portata di Proud Mary, solo molto dopo realizzo che non era mai stata eseguita in Europa, ma basta il brano in sé a lasciarmici quasi secca.

Il colpo di grazia me lo infligge 4th of July, Asbury Park, quella che gli intimi chiamano col sottotitolo: Sandy. I brani degli anni Settanta, particolarmente quelli meno famosi dei primi due dischi, sui quali si fondano il mito del Jersey shore e buona parte della mitologia springsteeniana, sono sempre molto emozionanti. Da quando, poco più di un anno fa, è mancato Danny Federici, questi brani — eseguiti con accorgimenti che sottolineano, anziché sopperire a, la mancanza dell’organista — fanno a tutti l’effetto “canederlo di traverso”: abbiamo un magone che non ci fa respirare, e siccome ci vergogniamo, ci concentriamo improvvisamente e intensamente su dettagli leggermente marginali — i bulloni dei riflettori, zum beispiel – per pensare a qualcos’altro e per non guardarci in faccia.
Per farla breve, tra l’unzione e le rarità, in barba ai presupposti, è diventata proprio una gran serata.
Fino all’imprevedibile.

Bruce SpringsteenFino a quando, cioè, ha accolto una richiesta talmente folle che, a mio avviso, neppure chi l’ha proposta ci credeva realmente. Benché vedessimo Bruce indicare la scritta sulla maglietta, benché vedessimo la ragazza togliersela per porgergliela e lui ostenderla al pubblico e alla band, nessuno credeva veramente che stesse per suonarla. Bruce chiede perfino se l’ha già suonata in questo tour e tutti facciamo “no-no” con la testa, mentre ciascuno nella propria lingua, a bassa voce, lo esorta a suonare. Tutti terrorizzati che gli venga in mente che non sarebbe il caso. Un po’ come quando la prof. di greco chiede “che compiti c’erano?” e tutti tirano fuori la solita paginetta di Odissea con aria disinvolta, sperando che non si ricordi che per oggi c’era anche la versione. Pregando che il secchione del terzo banco non faccia la spia. Ma Little Steven tiene la bocca chiusa e quel rintronato di Springsteen suona proprio Jersey Girl.

Prosegue con Have Boss, will travel (III)

Commenti

2 commenti a “Have Boss, will travel (II)”

  1. I prezzi poi ogni e da compagnia a compagnia, mother in genere si intorno ai 100 – 250 mese.

    Di it.weed-seeds.info | 23 Settembre 2014, 05:59

Trackbacks/Pingbacks

  1. […] che c’è stato un interessamento diretto del capo della giunta comunale, che io, grazie al contatto psichico instaurato con Bruce anni addietro, in qualche modo ho […]

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