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Palcoscenico

L’Arena in stallo…

A Berlino ho avuto una conversazione molto seria con Strauss, ed ho tentato di mostrargli lo stallo in cui si era cacciato. Sfortunatamente non è riuscito a seguire fino in fondo quello che volevo dire
Gustav Mahler, 1979, Lettere a Alma

Stagione areniana 2009

Così scriveva Gustav Mahler a sua moglie Alma a proposito di un colloquio avuto con Richard Strauss sulle sue ultime opere, Salomè (1906) ed Elektra (1908), ritenute da Mahler troppo ispirate a Wagner, la cui produzione, a partire dalla metà del XX secolo, aveva diviso l’opinione pubblica, scatenando quello che venne definito da Nietzsche “Il caso Wagner”. Come diceva Debussy, deceduto Wagner bisognava “cercare dopo Wagner, non secondo Wagner”.
Un fenomeno analogo sembra attanagliare il cartellone areniano da qualche anno: la Fondazione Arena di Verona sembra incapace di svecchiare o innovare la sua offerta operistica.

La programmazione è stanca e ruota attorno alle solite opere verdiane, rossiniane, pucciniane con qualche rara escursione esterna. Le sceneggiature e le coreografie sono spesso forgiate ad uso e consumo dello spettacolo turistico fino a snaturare ogni collegamento con l’originale idea compositiva, infine manca del tutto l’azzardo verso produzioni contemporanee. Paradossalmente, questa scelta tradisce lo spirito dei grandi compositori italiani dell’otto-novecento, che hanno rivoluzionato a vari livelli il mondo dell’opera e della musica lirica del tempo. Questa gloriosa eredità tutta nostrana sta agendo da ostacolo alla modernizzazione nel senso della evoluzione della lirica italiana, impelagata a piangere su se stessa per via dei continui tagli al Fondo Unico dello Spettacolo e incapace di fare cassa da una tradizione culturale unica al mondo. Qualcuno, a torto o ragione, potrebbe obiettare che, a differenza di altri palcoscenici, l’Arena deve rimanere un “teatro” prettamente ad uso e consumo del turista; folgorato più dalla magnificenza scenografica che dalla qualità e dalla originalità delle soluzioni registiche. Fatta una eccezione per l’Aida, kolossal verdiano onnipresente e incredibilmente suggestivo per l’anfiteatro romano, presente nel cartellone scaligero da tempo immemore, qualche intervento di restyling sembra più che urgente.

Stagione areniana 2009

La questione della crisi (o delle crisi di pubblico e idee ) del teatro italiano in genere è legata principalmente all’equivoco mai risolto se la lirica debba essere considerata un patrimonio culturale da salvaguardare, e quindi da finanziare fino alla copertura totale dei costi, o un prodotto economico dal quale trarre reddito. Bilanci dei teatri di tradizione italiani alla mano, gli incassi derivanti dalla riscossione dei biglietti d’ingresso contribuiscono alla copertura delle spese di gestione in percentuali che non arrivano alla doppia cifra. Quindi, il taglio indiscriminato dei fondi pubblici senza una visione d’insieme che sciolga definitivamente l’equivoco accennato e definisca chiari obiettivi, indirizzi e criteri gestionali per l’intero comparto, sembra contribuire significativamente al rafforzamento di un conservatorismo dilagante. Insomma, più che produrre spettacoli, si riproducono spettacoli già visti e rivisti.

A complicare terribilmente le cose, negli ultimi anni si è assistito a una proliferazione dell’offerta culturale in genere, che ha sensibilmente ridotto le quote di mercato in ognuno dei suoi comparti. Tengono bene i musei, mentre cadono in picchiata i biglietti staccati da cinema e teatri di prosa.
Ad ogni modo, cosa propongono i grandi teatri lirici d’oltre Brennero?
Prendiamo ad esempio tre paesi a noi vicini, ovvero Gran Bretagna, Germania e Francia, dove la tradizione operistica è sicuramente presente e dove esiste un sistema di finanziamento pubblico, senza il quale nessun teatro potrebbe sopravvivere.

La Gran Bretagna mette in scena opere quasi sconosciute in Italia con Monteverdi, Händel, Engelberg Humperdinck, Jacques Offenbach, Leóš Janáček e Benjamin Britten; la Germania (bacino d’utenza per eccellenza per le produzioni scaligere) da ampio spazio a Andrea Bernasconi, von Weber, Alban Berg e Hans Pfitzner, mentre la Francia alterna Manrique Lopez o il Bellini meno noto solo agli intenditori d’opera.

Insomma, una offerta impensabile per i teatri italiani, che limitano alla Turandot pucciniana la loro escursione all’età contemporanea della produzione operistica, snobbando quasi completamente la ricca produzione lirica tra le due guerre. La questione del rinnovamento dell’offerta operistica italiana corre quindi su due binari. Da una parte, la necessità di una riorganizzazione della normativa sui teatri di tradizione, dall’altra, un rinnovamento che vada nella direzione della decontestualizzazione creativa dell’aspetto scenografico da quello musicale e una decisa apertura verso opere moderne, anche se collocate ai limiti del genere. Il messaggio che filtra attraverso l’Europa è quello di modernizzare il classico e classicizzare il moderno!

Stagione areniana 2009

In questa direzione, un piccolo passo avanti e un piccolo passo indietro sono stati fatto dalla Fondazione Arena in occasione dell’inaugurazione della sua 87a stagione. La celeberrima Carmen di Bizet, firmata nel 1995 da Zeffirelli, rivista scenograficamente nel 2003 in occasione di una ripresa televisiva, è stata drasticamente asciugata di quei colori sfarzosi e pittoreschi che nulla avevano a vedere con quella giornata di fuoco, passione e desolazione che Bizet seppe dipingere magistralmente. Purtroppo, la ripresa di Marco Gandini rimane ancora troppo fedele allo stile del kolossal, ovvero una certa devozione alla componente visiva e spettacolare: balli e canti affollano la scena distraendo il pubblico, appunto, dal dramma descritto da Bizet.

Ciliegina sulla torta, la direzione dell’immenso Placido Domingo, che fa il pieno di ripetute standing ovation in occasione delle sue “entrate in scena”. Solido, aderente alla drammaturgia del testo, asciutto nella direzione, Domingo ha convinto in pieno, al di là del suo biglietto da visita. Nancy Fabiola Herrera è una Carmen che, nonostante una certa approssimazione nel ritmo e una voce poco convincente nei gravi, si muove bene e canta con buona proprietà al punto da entusiasmare il pubblico internazionale. Marco Berti interpreta non al meglio della sua forma Don Josè, lasciando spesso un poco troppo indietro la voce. Escamillio è Giorgio Surian, un basso eclettico con estensioni da baritono, poco convincente nei panni di un giovanotto spavaldo. Spesso sembra trasportato dalla foga e si lascia andare a emissioni forzate. Irina Lungu è una convincente Michaela, così come il resto del cast.

La solita consumata e consunta Aida, nella direzione e regia tandem di Daniel Oren e Gianfanco de Bosio, ha occupato ben diciassette date, da giugno fino alla serata che ha chiuso l’87° Festival Lirico, quest’anno dedicato al quarantennale dal debutto in Arena del tenore Placido Domingo; ospite d’onore alla serata di gala del 24 luglio. Sarà forse la presenza del celeberrimo tenore alla direzione della Carmen, ma in occasione dell’Aida si è assistito ad un gradito ritorno, ovvero un Daniel Oren composto ed equilibrato, brusco nelle parti più drammatiche ma senza sovraesposizioni rispetto al palcoscenico. L’impianto scenografico nell’allestimento di Gianfranco De Bosio rimane più o meno immutato rispetto all’edizione scorsa, anche se si nota un lavoro di limatura e asciugatura.

Manca, come spesso nelle produzioni scaligere, il lavoro di regia sui personaggi e sulle interconnessione tra questi, spesso isolati nella loro perfomance rispetto al contesto ancora troppo ricco di effetti estranei al continuum narrativo. Nel cast i coniugi Dessì-Armiliato, ormai talmente affiatati da garantire da soli la buona riuscita dello spettacolo. Ottima se non con qualche sbavatura nei momenti di tessitura più acuta la Dessì; imperioso e maestoso Armiliato, capace di momenti di sublime lirismo e frenetico eroismo, tali da renderlo uno dei Radames più convincenti nel panorama operistico contemporaneo.

Il tenore genovese, qualcuno ci dice con alle spalle un passato da musicista/cantante di musica leggera e per anni nel coro del teatro Carlo Felice di Genova, rappresenta un degno erede del compianto Maestro Luciano Pavarotti. Ambrogio Maestri è un sempre apprezzabile Amonasro, anche se spesso sembra perdere la regalità necessaria per interpretare il Re etiope. Appesantito da costumi che poco hanno a che fare con il dramma descritto da Verdi, Maestri non rende al meglio delle sue possibilità. In definitiva un tentativo di innovazione abortito in partenza, per una Aida ancora troppo legata alla tradizione, anche se più libera e agile degli scorsi anni.

Stagione areniana 2009

Terza opera in cartellone la Turandot di Puccini: l’incompiuta del grande compositore lucchese, considerata l’ultima grande opera verista italiana. Puccini era particolarmente attento alla scelta d un soggetti che dovevano essere in grado di sviluppare una tensione emotiva nel pubblico, attraverso momenti carichi di melodie incisive, alternati a colpi di scena. Puccini pensava al popolo e per questo scriveva opere facilmente comprensibili ma al contempo estremamente pregne di tensione emotiva. Per questi motivi, in Puccini la psicologia dei personaggi è un aspetto fondamentale e tutta la sua musica è devota alla costruzione e maturazione del personaggio, nel quale il popolo poteva identificarsi con comodità. Turandot, opera conclusa nel 1926, due anni dopo la sua morte, rappresenta quindi uno stacco rispetto allo spirito nazionalistico e antisemita dell’epoca.

Stagione areniana 2009

Per questo, la musica di Puccini non ha rappresentato un modello di riferimento per i compositori dell’epoca. D’altro canto, lo stile musicale pucciniano, che accarezzava le emozioni per portarle fino alla loro sublimazione nella morte o nel sacrificio, è stato adottato e adattato dall’industria cinematografica fino alla metà degli anni cinquanta, allo scopo di conferire spessore alle situazioni ed emozioni archetipiche. L’edizione di quest’anno della celebre incompiuta puccinina era già stata vista negli scorsi anni, per la regia di Yuri Alexandrov e la direzione di Daniel Oren. Già allora qualche purista dell’opera si era espresso contro l’allestimento caratterizzato da uno spettacolare elemento sferico semimobile posto al centro del palco, dal quale emergeva una enorme Robo-Turandot illuminata, che a tratti emetteva vapori stile fantascienza anni settanta.

Il pubblico, a tratti stupito, alla fine apprezza e applaude le evoluzioni greco-romane dello scatenato Oren, che scatta, sobbalza e conferisce un tocco di dinamismo a una Turandot anomala certo, ma sicuramente rinnovata e innovata, in linea con lo stile pucciniano già calato appieno nel Novecento. Peccato per la prestazione di Giovanna Cassolla, sicuramente una sublime Turandot ma forse non in forma perfetta per affrontare i numerosi acuti disseminati nella partitura. Ottima la prova di Piero Giuliacci nei panni di Calaf, dotato di una voce potente anche se magari non troppo elegante, dal timbro sicuramente unico nel panorama lirico italiano. Hui He è ormai una gradita habitué dell’Arena, ogni tanto imprecisa per eccessiva sicurezza, è dotata di una voce dolce e vellutata, dizione comprensibile che unisce a una discreta capacità nel fraseggio. Non all’altezza il Timur di Carlo Striuli, visto in ben altra forma in altre occasioni, mentre offrono una buona interpretazione Filippo Bettoschi, Enzo Peroni e Stefano Pisani, nei panni di Ping, Pong e Pang.

Stagione areniana 2009

Quarta opera in cartellone, Il Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, celeberrimo melodramma buffo in due atti, proposto nell’allestimento dell’argentino Hugo de Ana, che ha curato la regia, le scene, i costumi e le luci. Il Barbiere è un’opera musicata ormai già da una decina di compositori; trae origine da una commedia scritta nel 1775 da Beaumarchais, ma sicuramente deve la sua fortuna alle versioni prima del Paisiello (1782) poi di Gioachino Rossini (1816) e dalla presunta, più che effettiva, rivalità artistica tra i due compositori. Nella versione del Paisiello e del suo librettista Petrosellini, la storia di questo barbiere che tutto fa tranne che il suo lavoro rimane troppo aderente al testo di Beaumarchais. Sarà solo dalla collaborazione di Rossini con Sterbini che Il Barbiere unirà al movimento imposto dal maestro pesarese una trama vivace e incalzante, tale da rendere questa una delle opere più divertenti e briose del panorama operistico italiano.

Come in ogni melodramma buffo che si rispetti, nel Barbiere si percepisce in modo netto una sottile malinconia e l’angoscia di questo personaggio, divertente quanto sensibile. Nonostante queste premesse, una leggenda mai smentita completamente o confermata da prove certe, narra di una disastrosa Prima del Barbiere; un gatto nero che compare in scena, la corda della chitarra del Conte di Almaviva che salta e di un Basilio che, dopo un capitombolo, canta con il naso sanguinante. Voci tramandate oralmente, ma sicuramente poco credibili, affermano che i sostenitori di Pasiello e gli impresari del Teatro Valle (a tutt’oggi, il più antico teatro della capitale) si siano organizzati per mandare a monte lo spettacolo. Infatti, in occasione della sua prima rappresentazione a Parigi, Rossini aveva intitolato l’operaAlmaviva o l’inutile precauzione, sia per non provocare l’amico/rivale Paisiello sia in onore del tenore Manuel Garcia, diventato celebre per le sue rappresentazioni nel ruolo del Conte di Almaviva e padre di Maria Malibran, la Callas del XIX secolo.

La scelta del’ente lirico scaligero, nella direzione di De Ana, è di riproporre un allestimento già visto, ovvero un labirinto di siepi italiane come metafora dell’intrigo amoroso. Una scenografia creata dal genio di De Ana a cavallo tra un romanticismo di maniera e un mondo vagamente neoclassico. L’effetto è gradevole, anche se forse i rossi forti e accesi dei fiori finti sono un poco ridondanti e fuori luogo, se l’idea era quello di mantenere la velata critica sociale che il Beaumarchais aveva inserito. La coinvolgente direzione dell’orchestra è stata affidata ad Antonio Pirolli che sceglie di velocizzare la sua esecuzione senza distogliere l’attenzione dai numerosi dettagli timbrici che caratterizzano una buona esecuzione dell’opera. Pregevole è sembrato il dialogo tra parti prettamente comiche con le aperture liriche. Il giovane ma già maturo tenore genovese Francesco Meli è stato un superlativo Conte di Almaviva. Dotato di una naturalezza di emissione disarmante, misurato e mai sovrastante rispetto al personaggio, Meli rappresenta una delle voci di maggior rilievo degli ultimi anni nel panorama operistico italiano e internazionale.

Stagione areniana 2009

Ottima, come ce la si aspettava, la prova del baritono Bruno De Simone, ormai in scena da quattro lustri è capace di conferire quella carica di ilarità nel personaggio di don Bartolo, mantenendo una pulizia nel suono e una emissione ampia e maestosa. De Simone è uno dei massimi interpreti rossiniani, con una ventina di titoli in repertorio, e proviene dalla scuola del compianto Sesto Bruscantini, sicuramente l’interprete rossiniano per eccellenza. Annick Massis è stata una Rosina vocalmente precisa e frizzante, capace di buoni fraseggi è risultata elegante anche nelle acrobazie e dotata di una raffinatezza sul piano scenico. Franco Vassallo è un Figaro ormai rodato e sicuramente non inferiore a Leo Nucci, al quale aveva recentemente fatto da secondo proprio in terra scaligera. Marco Vinco, veronese DOC, ha giocato in casa il suo primo don Basilio, sicuramente un ruolo complesso che richiede qualità, presenti in Vinco, sia da basso sia da baritono. Dotato di una voce piuttosto grave con possibilità di eccellenti acuti, Vinco riesce come pochi in giro a rendere quella dimensione buffa ma anche seria, quasi come se non fosse parte dell’opera, necessaria per caratterizzare Don Basilio.

Insomma, una stagione caratterizzata da qualche lieve asciugatura e una timida distanza d’emergenza dagli effetti speciali sempre vivi in Arena (Carmen e Aida), un tentativo di innovazione che forse non convince appieno per il tipo di caratterizzazione scenografica (Turandot) e un conservatorismo reso possibile principalmente dalla fama delle opere proposte (Il Barbiere di Siviglia), che sostanzialmente non muta di molto quella Weltanschaung che ci aspettiamo e sappiamo di doverci aspettare ancora per i prossimi anni.

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