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Musica

Francesco Forni

Quattro chiacchiere al Blue Venom Bar

Esco dalla redazione. Fuori è notte, ormai. Sono nuovamente in ritardo con l’amore, con i sogni, con la vita. È il buio a colorare le speranze di certi uomini. Sono proprio Tempi Meravigliosi questi.

Francesco Forni

A pranzo il direttore mi ha raccomandato di non essere troppo estremo, di mediare, di scendere a compromessi. A compromessi con l’inferno. M’incammino verso la fermata del sei-sei-sei. Attendo il notturno in compagnia di un uomo pestato a sangue dalla malinconia. Dice di chiamarsi Fred. Ha il cilindro per cappello, due diamanti per gemelli, un bastone di cristallo, la gardena nell’occhiello, e sul candido gilet un papillon, un papillon di seta blu.

Sgancio lo sguardo su di lui, e da una tasca dei jeans tiro fuori il mio iPod, ma quello che vedo sono le mie mani da ragazzino sfilare un vinile di Django Reinhardt. Vorrei che il direttore fosse di nuovo davanti a me, ora. Vorrei che vedesse questi occhi. Questi occhi troppo belli. Il rumore della puntina che scorre sul disco è il miglior sipario di sempre. Minor Swing sembra aver capito dove voglio andare. È un giorno qualunque, ma forse con più voglia in corpo.

Se ti fai prendere da uno swing in la minore
Le cose intorno cambiano senso
Prova a vedere con i tuoi stessi occhi
Ti porto giù nel
Blu Venom Bar
Le strade della città a quest’ora dormono
Mentre succede tutto in quella buca di folli
Pensaci bene se sei ancora lucido
Entrare può voler dire non uscirne più

Salta giù con quello scivolo
Prendi una birra un whisky o meglio un rum
Uno schianto di donna regala crisantemi
Mentre un pinguino compra e vende anime
Ha una palla da biliardo in testa
Puoi vederci i tuoi occhi riflessi
Le nostre sedie vanno a tempo di tip tap
Lucifero apre le danze con il charleston

Persi ritrovati e persi di nuovo
Le teste rotolano sul parquet
Lo zingaro nell’angolo ha una chitarra magica
Riesce a suonare senza dita
Una donna grigia con dei grigi baffi da gatta
Non si stacca più mi strapazza di smancerie
Provo a dirle che sono ubriaco abbastanza
E chiama i suoi beccamorti a sotterrarmi

Le strade della città a quest’ora dormono
Mentre succede tutto nel Blue Venom Bar
Pensaci bene se sei ancora lucido
Entrare può voler dire non uscirne più

Decido di entrare: ho un appuntamento al quale non posso mancare. Anche l’avanguardia di un sogno ha una tradizione da rispettare. La speranza è un suono che mi fa dondolare…
Mi siedo al bancone e ordino un rum. Vicino a me si siede un ragazzo dagli occhi blu(es). Una, due sorsate da mandare giù.
“È da molto che aspetti?” chiede Francesco.
“Da trent’anni, più o meno” rispondo.
“Prendo da bere e iniziamo subito…”.
“Ehi! Ehi svegliati! Non stavi aspettando anche tu il sei-sei-sei?”

È Fred. Intorno a lui ci sono nuovi amici, nuovi compagni di viaggio: una donna bellissima con in mano dei crisantemi, un pinguino con una palla da biliardo in testa dove c’è scritto “soul”, uno zingaro con una chitarra magica, una donna grigia con dei grigi baffi da gatta, e un uomo bellissimo con un paio di piccole corna, e una coda rossa che si affaccia sull’alba ormai prossima a venire.
“No, io… io devo assolutamente tornare in redazione. Ho un’intervista da scrivere…”.

Daniele Piovino (DP): A che età ti avvicini alla musica?

Francesco Forni (FF): Non ho un ricordo di me senza la musica. Non riesco veramente a ricordare un momento dove la musica non fosse così fondamentale. Già da piccolo, mio padre mi esibiva come fenomeno (sorride, nda), perché riuscivo a canticchiare delle melodie che avevo ascoltato anche una sola volta molto tempo prima.

DP: Sei nato con la musica…

FF: I miei genitori hanno sempre ascoltato tantissima musica. La nonna di mia madre era concertista di pianoforte, il fratello di mio padre, con cui ho trascorso molto tempo da piccolino, è un’insegnate di pianoforte al conservatorio; mio padre, da giovane, cantava e suonava la chitarra, mia madre studiava piano. Grazie ai miei nonni materni ho ascoltato tutta la canzone italiana fino agli anni ’60. Mia madre ascoltava molto cantautorato degli anni ‘70: Dalla, De Gregori, Vecchioni…

Francesco Forni

DP: De Andrè?

FF: Di De Andrè aveva un sacco di singoli, di 45 giri. Ma ero io che lo ascoltavo meno. Sai, per un bambino è più ostico De Andrè. La maggior parte dei pezzi erano chitarra e voce, e nei testi usava parole abbastanza difficili. Poi dopo, crescendo…

DP: E con tuo papà invece cosa ascoltavi?

FF: Tantissima musica popolare, dal Sud America agli Inti-Illimani (INTI-ILLIMANI (gruppo vocale e strumentale cileno, nda), dalla musica balcanica alle varie tradizioni europee, alle colonne sonore.

DP: Poi hai deciso di prendere in mano la chitarra e suonare. Perché proprio la chitarra?

FF: In realtà, all’inizio, la chitarra l’avevo snobbata perché la suonava mio padre, che ci eseguiva solo pezzi popolari. Da piccolo mi annoiavano un po’, poi li ho adorati.

DP: Quindi non hai iniziato con la chitarra?

FF: Iniziai con il pianoforte, dopodiché, invece, verso i dieci anni, volevo suonare la batteria. Il mio idolo era Stewart Copeland, il batterista dei Police. Ho martellato per anni i miei genitori, ma non mi hanno mai regalato una batteria (sorride, nda). Mi sono avvicinato alla chitarra quando avevo tredici anni. L’età critica, l’età nella quale vai contro tutto.

DP: E perché cambiasti idea sulla chitarra?

FF: Abitavo in una casa in affitto insieme ad altri amici. Ricordo che era estate. E tra questi amici c’era un ragazzo che secondo me era un genio, riusciva a fare di tutto con la chitarra. Trascorsa questa estate, a settembre, mia madre mi regalò una chitarra classica per il mio compleanno. Studiai da autodidatta, riuscendo a imparare tantissime cose, mi piaceva. Iniziai a studiare chitarra classica fino a fare l’esame del quinto anno. Ma devo dire che, mentre stavo studiando armonia, già suonavo la chitarra elettrica in diversi gruppi.

DP: A proposito della tua formazione, ho letto che hai studiato anche a Los Angeles con chitarristi eccezionali come Scott Henderson. Mi racconti qualche aneddoto?

FF: Ho apprezzato moltissimo tutto il lavoro di Scott Henderson, soprattutto per quanto riguarda il blues. Qui in Italia è famoso per la fusion, ma a Los Angeles suonava di tutto: metal, hard rock, anche in cover band dei Led Zeppelin e Steve Ray Vaughan. Mi è capitato di rivederlo qui in Italia molti anni più tardi, andai a salutarlo dopo un suo concerto e lui mi disse: “Ah Francesco, il ragazzo che suonava bene il blues!”.

DP: Fantastico. Non capita tutti giorni di sentirsi fare un complimento del genere da Scott Henderson. So che hai anche incontrato il cantante dei Led Zeppelin, quando venne in Italia per il suo concerto a Napoli. Hai avuto modo di scambiare due parole con Robert Plant?

FF: Non c’è stato tempo, una stretta di mano e via. Noi facemmo questa apertura del suo concerto con La Sezione Ritmica, il gruppo nel quale suonavo ai tempi, dove cantavo e scrivevo le canzoni. Come genere eravamo abbastanza rock. Per quell’occasione ci organizzammo in modo tale da includere in tutti i nostri brani una citazione dei Led Zeppelin, forse in maniera anche un po’ ruffiana (ridiamo, nda). In realtà, volevamo rendere omaggio alla musica fondamentale della nostra crescita. Sergio Quagliarella, il batterista che suonava con noi, era contentissimo. Era cresciuto con Bonham.

DP: Grandissimo, personalmente ritengo John Bonham uno dei più grandi batteristi di sempre. Nelle vesti di chitarrista hai anche partecipato ad un tributo ai Mad Season di Lanye Stanley, il cantante degli Alice in Chains. Pensi anche tu che quel progetto non abbia avuto il giusto riconoscimento?

Francesco ForniFF: Diciamo che sicuramente, in quegli anni, durante l’esplosione della scena di Seattle, chi ne ha tratto più giovamento sono stati, da una parte, i Nirvana e, ancor più dei Soundgarden, i Pearl Jam, che comunque negli anni hanno acquisito musicalmente un carattere molto americano. Ten (primo disco dei Pearl Jam, nda) ha il sound di Seattle, sulla scia dei Mother Love Bone, dopodiché sinceramente li ho persi molto presto. I dischi successivi per alcuni aspetti erano meno interessanti, secondo me. Ma devo dire che ero un grandissimo fan di Chris Cornell dei Soundgarden. E in un certo senso mi disturbava l’eccessiva attenzione ai Nirvana, che comunque sono stati dei grandi. In quegli anni vivevo praticamente nell’unico negozio di dischi a Napoli che aveva musica d’importazione, per cui ero riuscito a procurarmi il primo singolo dei Soundgarden su vinile. Poi ci fu il progetto Temple of the dog, che è stato per molti anni un mio disco di riferimento.

DP: Ti faccio una domanda riguardante una delle tue attività principali, la realizzazione di colonne sonore: ora che è uscito il tuo disco Tempi Meravigliosi, continuerai a scriverne?

FF: Certo, continuerò sicuramente perché scrivere per il teatro è una delle mie attività principali.

Locandina di Le Conseguenze dell'Amore di Toni ServilloDP: Scrivi solo per il teatro o ti occupi anche di cinema? Se non vado errato, hai lavorato anche per il film Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino.

FF: Sì, mi capita di lavorare anche per il cinema. Ma per quanto riguarda Le conseguenze dell’amore, sono stato chiamato direttamente dalla produzione. Il regista aveva scelto un brano da un mio spettacolo teatrale.

DP: E tu?

FF: Ho detto: “Ah bene.”

DP: E poi?

FF: E poi mi è stato comunicato il compenso.

DP: E tu?

FF: Ho detto: “Ah bene.” (ridiamo, nda)

DP: Come si chiama il brano?

FF: Terapia interrotta. È una roba un po’ strana.

DP: Scrivere per il teatro ovviamente è diverso dallo scrivere canzoni. Da dove inizi quando devi scrivere una colonna sonora?

FF: Premetto che la canzone per me è stato l’ultimo gradino, per questo solo adesso esco con un disco di canzoni. Nel senso che, nella canzone, non solo c’è la composizione, l’arrangiamento, il suono, ma anche il testo, quindi la voce e l’interpretazione, che sono state gli ultimi aspetti che ho affrontato nella mia carriera. Tra l’altro, la differenza principale di questo disco di canzoni (Tempi meravigliosi, nda) rispetto agli altri progetti passati, come La sezione ritmica di cui ti accennavo prima, è che in questo disco le canzoni partono tutte da un testo. È un percorso molto simile a quello che faccio nel teatro, nel senso che quando scrivo le musiche di scena inizio sempre dalla lettura del copione, per sentire le prime sensazioni, dalle quali nascono le prime sonorità. Successivamente inizio a parlare con il regista, con gli attori, osservo i colori della scena, le luci. Devo dire che è sempre una scommessa, perché inizio a scrivere le musiche il giorno in cui iniziano le prove per lo spettacolo. E calcola che dalla prova al debutto trascorrono dalle tre alle cinque settimane. In questo lasso di tempo io devo immaginare, scrivere, correggere il tiro, e registrare le musiche. Si tratta sempre di una full immersion.

DP: Finisci per vivere in teatro…

FF: Sì, in pratica mi porto lo studio in teatro. Devo essere lì. Perché anche quando parto da una sonorità, sono talmente influenzato da quello che vedo e che mi arriva durante le prove, che poi mi ritrovo a consegnare delle musiche che non avrei mai scritto se non avessi vissuto anche io quel percorso.

DP: È da qui che nasce anche una certa originalità?

FF: Sì, ogni spettacolo ha ovviamente un suono, un carattere diverso. Ci sono delle musiche che tuttora mi sorprendono per le direzioni che hanno preso. Il teatro è un mondo che non lascerò mai.

DP: E il cinema?

FF: Il rapporto con il cinema è nato per caso. Recentemente mi hanno chiesto di scrivere una colonna sonora originale, però, anche in questo caso, hanno preso alcuni pezzi che avevo scritto precedentemente per il teatro. Francamente non mi dà la stessa soddisfazione. Anche perché nel cinema l’interazione avviene sempre in modo più semplice: tu vedi delle scene e t’immagini una musica sopra. E di solito la funzione che assume la musica in questo processo è di accompagnamento. Questo vuol dire che, se il film non è totalmente visionario, la struttura finisce per essere abbastanza predefinita. Nel teatro non è così. La musica per il teatro è molto più vicina alla musica contemporanea.

copertina Tempi Meravigliosi Francesco Forni

DP: Intendi dire che hai più possibilità di sperimentare?

FF: Non proprio. Non è questo il punto. Anche nel teatro alla fine il risultato è qualcosa di totalmente organico con il resto. Però è una musica che se viene isolata, risulta più interessante che qualsiasi altra musica scritta fine a se stessa. Anche rispetto alle colonne sonore per il cinema.

DP: Ma c’è un autore di colonne sonore cinematografiche che apprezzi particolarmente?

FF: Certo. Per esempio, al di là di classici come Morricone o Danny Elfman, pensando alla chitarra, un autore che mi piace moltissimo è Ry Cooder. Mi piace molto anche Jon Brion, che in Italia credo sia conosciuto solo per il film Magnolia. Mi è capitato di vedere ultimamente I Heart Huckabees, e le musiche di Brion su quel film mi hanno colpito moltissimo. Danno un valore aggiunto alle scene incredibile. Sono musiche diverse dal classico tema. Scompare il fattore prettamente estetico: non è un tema da ricordare, ma un mezzo per entrare ancora di più all’interno del film. Così facendo, la musica assume un ruolo simile a quello della fotografia o della scenografia. In un certo senso, è quello che succede anche nel teatro.

DP: Tornando appunto al teatro, quali sono le tue musiche di scena che ricordi con maggior soddisfazione?

FF: Direi Il custode e Il feudatario, entrambi spettacoli con la regia di Pierpaolo Sepe. Sono musiche alle quali sono molto legato, anche perché hanno un chiaro marchio di fabbrica — come mi è stato poi detto in ambito teatrale — cioè chitarra elettrica e orchestra. Ho sentito una grande soddisfazione anche quando sono stato chiamato per le musiche dell’adattamento teatrale di Gomorra di Gelardi/Saviano.

DP: Il feudatario è un testo di Goldoni, se non sbaglio?

FF: Sì, è uno spettacolo incentrato su questo testo minore di Goldoni completamente rivisitato da Letizia Russo, una ragazza dal grandissimo talento che ha già vinto qualsiasi premio, veramente eccezionale.

DP: Parliamo del Collettivo Angelo Mai di cui fai parte. Come nasce? E perché nasce?

FF: L’Angelo Mai era un convitto, una ex-scuola abbandonata nel Rione Monti a Roma. Si entrava da una porticina in via degli Zingari. Nelle aule a piano terra erano state allestiti un teatro, un’osteria, delle sale prove. Era un posto occupato, inizialmente, da famiglie nelle aule al piano superiore, poi appunto dall’associazione culturale Angelo Mai, che ha dato vita a un movimento durato solo due anni, perché poi è stato sgomberato. In questi due anni però è successo di tutto: spettacoli teatrali, concerti, feste. Spesso mi capitava di salire sul palco mentre scendeva Capossela, o Teresa De Sio, Tete de bois…

DP: Poteva suonare chiunque?

FF: No, non era a palco aperto, perché comunque dovevi essere invitato dall’Angelo Mai per suonare. Era una forma per garantire quel carattere. Diciamo che c’era una sorta di selezione naturale. Potevi trovarci Peppe Servillo, Capossela come ti accennavo prima, Nicolò Fabi, Pino Marino, Roberto Angelini, Filippo Gatti, Massimo Giangrande, gli Acustimantico… Si creavano curiose commistioni. Durante i concerti succedeva sempre che ogni artista invitava sul palco altri artisti per suonare insieme.

DP: Improvvisavate anche?

Francesco ForniFF: Sì, improvvisavamo, ma in modo talmente fluido che poi alla fine è stato naturale pensare di registrare un disco per testimoniare quella situazione. E così abbiamo fatto tre giorni di registrazione dal vivo in teatro senza quasi mai provare. Non è mai successo che abbiamo suonato un brano per più di due volte, nel senso che la prima sessione di registrazione era quasi sempre quella buona. E da lì è uscito il disco del Collettivo, e quindi anche il nome e l’entità. Ora abbiamo anche la distribuzione nazionale.

DP: Il Collettivo Angelo Mai ha anche collaborato al tuo disco Tempi Meravigliosi, o sbaglio?

FF: Non come Collettivo, ma come singoli musicisti. Il mio disco è stato registrato poco dopo la registrazione del disco del Collettivo, quindi, oltre al mio trio di Napoli, mi è sembrato naturale ospitare in alcune canzoni anche una parte dei musicisti del Collettivo.

DP: Andrea Pesce alla coproduzione artistica. Com’è stato lavorare con lui?

FF: Ci avevo già lavorato nel disco del Collettivo ma, in questo caso, ci siamo divisi la responsabilità del disco — come puoi immaginare — nel bene e nel male. Nel senso che, come in tutti i rapporti creativi e/o lavorativi, c’è una fase di crisi, che però si è conclusa davvero molto bene. Adesso, oltre che essere un grande amico, è un referente musicale importante, come dire… c’è enorme stima reciproca.

DP: Come ti sei trovato nello scrivere questo disco? La struttura della canzone comporta dei vincoli maggiori rispetto ad una colonna sonora, o no?

Francesco ForniFF: Per me la cosa più importante in questo momento era la canzone. Non che mi sia dedicato meno al suono o agli arrangiamenti, ma sicuramente ho spinto di meno. Nel senso che le canzoni sono al limite della confezione educata. Quando dico “limite” intendo un confine oltre il quale ci sarebbe qualcosa che non mi piacerebbe. Il mio obiettivo era iniziare questo percorso di cantautore. Questo disco è importante perché è un punto di inizio più che un traguardo raggiunto. Avrei potuto fare la stessa cosa in maniera estrema, ma non mi sarei sentito le spalle larghe, da autore intendo. In un certo senso è stata una forma di pudore.

DP: E come è stato accolto il disco dalla stampa specializzata?

FF: Nonostante quello che ti ho appena detto, le recensioni e tutte le critiche lo reputano un disco per palati fini. Già così mi dicono “peccato che non sia radiofonico”.

DP: Personalmente credo che sia ottima musica da passare in radio.

FF: Io ho voluto suonare quello che mi diverte. È un omaggio alle sonorità che mi piacciono, al blues, allo swing. A quello che avevo da dire. E credo che non siano stati suonati in maniera manieristica, questo è uno degli aspetti del disco che mi piace molto.

DP: Proprio riguardo a questo aspetto commerciale, qual è la tua opinione sulla vendita on line della musica e sui social network come MySpace?

FF: L’aspetto positivo è che forse è più semplice partire, avviare un progetto anche in totale indipendenza, perché puoi avere da subito uno spazio nel “mondo”, seppur virtuale, e questo è molto motivante, soprattutto agli inizi. È un passo in avanti anche per quanto riguarda l’aspetto pratico: ad esempio puoi far ascoltare la tua musica alla direzione artistica di un locale a Berlino. L’aspetto negativo è che tutto ciò che è in linea con la velocità spesso è sinonimo di superficialità. Ed è anche vero che la piazza virtuale non ha regole e che i segnali sono molti e confusi, quindi il rischio è di avere tutto a portata di mano e di non riuscire a scegliere niente in maniera approfondita. Come tutti i giocattoli, dipende da come si usano e perché, e se sei tu a usarli o sono loro che ti portano dove vogliono.

DP: Parliamo della tua attività concertistica. Ad oggi è più facile o più difficile suonare dal vivo? E, se ci sono, quali sono i problemi che incontri maggiormente?

FF: Oggi è diventata veramente dura suonare in giro. Io sono uno di quelli che suona ancora, soprattutto perché mi propongo anche da solo, chitarra e voce. Ma anche così, rispetto a soli due anni fa, la storia è cambiata. Continuano a dirci che internet e i programmi peer to peer hanno ucciso la musica: balle! Si prendano le loro responsabilità! Quelli come me continuano a comprare dischi e molti sono tornati anche a comprare vinili. Il problema non è solo che hanno chiuso i negozi di dischi, ma che stanno chiudendo i negozi di strumenti musicali, i live club… C’è qualcosa che non va. La musica dei personaggi televisivi e dei video indovinati ha battuto 2-0 i cantautori e le band che vivono da sempre sul palco. Ma a che prezzo? Quello che viene proposto non arriva più a “toccare” e a legarti alla musica come è successo alle generazioni passate, come accade per fortuna ancora nei piccoli club, negli house concert e nelle radio indipendenti.

DP: Nel disco c’è anche una tua cover di Voodoo Child di Jimi Hendrix che ritengo davvero bella, intensa e soffice allo stesso tempo, con un arrangiamento particolare. Quanto è stato importante il lavoro di Hendrix per la tua formazione artistica?

FF: Certamente fondamentale per l’approccio alla chitarra elettrica, ma non solo: reputo Axis: Bold as love uno dei dischi più belli di sempre, un disco senza tempo. Ha il peso e la leggerezza dei classici, l’innovazione e la ricerca, la poesia e il blues… è una carrellata su tutto quello che poi sono diventati i generi che ascoltiamo da trent’anni. È un disco che dopo venti anni di ascolto è ancora capace di sorprendermi, è il disco di un artista completo, maturo come autore, come compositore, come chitarrista, come cantante, come arrangiatore… questo è quello che rappresenta per me Jimi Hendrix.

Francesco Forni

DP: Per quanto riguarda i testi, ho sentito nei tuoi brani speranza e malinconia, ironia e disillusione, ma senza avvertire le solite banalità. Come nascono le tue parole? E la tua vita privata ha un ruolo in questo processo creativo?

FF: La mia vita privata ha un ruolo importantissimo. La realtà è sempre lo spunto fondamentale, ma molto spesso ha appunto solo una funzione ispiratrice. Nel senso che poi da lì si parte per viaggiare con la testa e andare a indagare sui sentimenti, a volte con un tocco malinconico, ironico, o un po’ disilluso come dici tu. Però mi fa piacere il fatto che chiunque ascolti il disco, riesca a percepire in questo sguardo malinconico una speranza viva.

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