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Cinema

Tendenze del cinema contemporaneo (II)

Kill Bill:

Segue da Tendenze del cinema contemporaneo (I)

“Voglio che questa scena di combattimento diventi per i film di Kung Fu quello che la scena della “Cavalcata delle Walchirie” di Apocalypse Now è diventata per i film di guerra”.

Così Quentin Tarantino parlava a proposito della celeberrima scena del combattimento nella Casa delle Foglie Blu, centro nevralgico di Kill Bill Vol. I.

Scena tratta da Kill Bill Vol. 1

La sequenza in questione vede contrapposta Beatrix Kiddo agli “88 folli”, ovverosia l’esercito privato di O-Ren. Al di là del vestiario dell’eroina (esplicito omaggio a L’ultimo combattimento di Chen, celebre film di Bruce Lee), a livello formale e registico molte sono le soluzioni che collocano la scena all’interno della sensibilità propria del cinema di Kung Fu, come le inquadrature dello sguardo dell’eroina che perlustra lo spazio circostante, espediente costante dei film di azione, nonché del western di Leone tanto amato dal regista americano (basti pensare al montaggio alternato dei dettagli degli occhi dei protagonisti di Il buono, il brutto e il cattivo nella storica scena del duello finale). Il movimento di macchina che risale lungo la spada, accompagnato dall’introduzione di una ritmata musica di sottofondo, e che arriva al primo piano della protagonista che di scatto si pone in posizione di combattimento, prosegue in un plongée volto a immortalare il cerchio dei nemici con lei al centro.

Tutto questo segmento svolge un’opera di mitizzazione della protagonista, che acquisisce fascino soprattutto per merito della costruzione filmica che la incornicia (in maniera molto simile a quanto accadeva negli anni ’60 per Bruce Lee).

A fondamento del modo in cui Tarantino fa riferimento al cinema di genere, vi è un’ intenzionalità intrigante e complessa: l’universo filmico di Kill Bill è dichiaratamente fittizio, e il cinema inteso come mondo immaginifico si instaura come unica realtà. Qui, il culto del cinema e la vita fanno tutt’ uno, e non è più possibile districarli nettamente; questo è uno degli elementi che rende godibile e accettabile alla percezione dello spettatore la violenza parossistica delle scene.

I personaggi sono intenti a effettuare acrobazie improbabili, piroette che non rispettano tanto le regole della fisica, quanto le leggi del cinema, o meglio di un “certo” cinema, quello d’azione, caratterizzato, appunto, dal parossismo della visione. Quando Tarantino “cita”, o meglio adotta, le tecniche e gli stilemi della storia di un certo genere, lo fa, a differenza di molti altri, con profonda coscienza. Per questo le sue immagini sono sempre elevate “alla seconda”, e questo si palesa nella scena da noi presa in esame: da un lato la sequenza può essere goduta per la straordinaria tecnica di ripresa, per il montaggio serrato, le inquadrature geniali, che alimentano nello spettatore un fervente coinvolgimento emotivo; dall’altro lato, il film parla soprattutto a quei fruitori “preparati”, che appartengono alla stessa cerchia di appassionati a cui appartiene Tarantino. Così facendo, l’immagine si rivela essere una “finzione” in quanto non pretende di raccontare una “realtà”, bensì una “falsità” dichiarata attraverso il rimando perpetuo ad altri film. Un film di Bruce Lee adotta le stesse soluzioni grammaticali e sintattiche (dal ralenti al montaggio cadenzato), e anche nei film di Bruce Lee si sovvertono le leggi della gravità; ma il film di Bruce Lee non dichiara la sua falsità, al contrario intende spacciarsi come reale, e, in questo, acquisisce un fascino particolare nella possibilità offerta allo spettatore di immedesimarsi coi personaggi.

Antonella Mascio, in uno studio dedicato a Kill Bill Vol. I, rifiuta la definizione di metatestualità a proposito del film di Tarantino, in quanto la metatestualità sembra una definizione più adeguata a quelle opere che intendano svolgere una “retrospettiva” del cinema passato. A questo proposito, la studiosa preferisce, al termine “citazione”, quello di “allusione”. La natura elevata a potenza dell’immagine consiste nel mantenimento costante di una dialettica: “Da un lato dunque viene a determinarsi una crescita della tensione narrativa e dall’altro viene posto in essere una sorta di gioco cinematografico del riconoscimento, il cui effetto, ogni volta, non può che condurre a una caduta della tensione. ”[1]

L’intesa che si instaura tra autore e spettatore attraverso lo strumento dell’allusione serve a rendere tollerabile il massacro della sequenza, perché, seppur in modo subliminale, interviene a ricordare insistentemente la matrice irreale e fumettistica di ciò che stiamo guardando. Perciò il ralenti, i dettagli degli sguardi dei contendenti, l’introduzione della musica e il suo azzeramento, i movimenti di macchina lenti e insistiti nei momenti di stasi, ma soprattutto la ripetizione di gesti, mosse, azioni già comparsi nella storia del cinema di genere, sono volti all’instaurazione di uno spazio concettuale condiviso con lo spettatore. Siamo al di là anche dei processi di mitizzazione che la macchina-cinema aveva costruito intorno a Bruce Lee: ripetendo le stesse tecniche volte per quello scopo, non solo Tarantino “mitizza” Beatrix Kiddo, ma dichiara tale mitizzazione come un’operazione di pura finzione, mettendo in evidenza il “cinema”.

Scena tratta da Kill Bill Vol. 1

Per queste ragioni, dal momento che i personaggi di Tarantino parlano, combattono, muoiono, “come” di solito vediamo fare al cinema, nei suoi film vita e finzione si compenetrano, abbattendo il confine che li aveva sempre separati. Il mondo di Kill Bill è fatto di cinema e, dato il livello di intertestualità dell’opera, non solo di esso (la sequenza del massacro al ristorante è debitrice, ad esempio, delle logiche di rappresentazione proprie del videogame). Tutto contribuisce a fare dell’universo filmico di Kill Bill non un mondo fantastico, quanto un mondo che risponde alle regole e alle leggi del “cinema”; e se ogni film è “cinema”, Kill Bill è perciò “cinema alla seconda”: “i personaggi vivono […] una esistenza che è soprattutto cinematografica ma non per questo meno vera. […] in Kill Bill la realtà è film, l’universo del film è film, nel senso che abbraccia le convenzioni cinematografiche in modo quasi feticistico. ”[2]

Innanzi al sincronismo perfetto dei movimenti delle innumerevoli comparse della sequenza, abbiamo subito la sensazione di assistere non (o non solo) a una truce e sanguinolenta lotta di uno contro tutti, bensì a una grande danza frenetica, a una messa in scena trionfalistica delle capacità del corpo. Il tema della danza ci consente di addentrarci all’interno del sofisticato problema relativo al ruolo che ha la violenza all’interno della scena, e dell’emancipazione della violenza dalla moralità in prospettiva puramente estetica.

L’intera scena, in più occasioni, mostra il debito essenziale nei confronti di un genere classico del cinema americano, ovvero il musical. Le coreografie di Berkeley, in sintonia con le sceneggiature, evidenziavano la centralità del personaggio principale rispetto al gruppo, la cui funzione era quella di incorniciare i gesti del primo o di fargli da interlocutore come accadeva per il coro nelle tragedie greche. Nella nostra sequenza, è quel che accade nelle riprese in plongée, quando — verso l’inizio — il gruppo di determinati guerrieri forma un cerchio attorno a The Bride, “centro giallo” in evidenza.

La stessa lotta a sangue, che sembrerebbe quanto di più selvaggio e scomposto si possa pensare, segue delle precise regole di armonizzazione e di ordine, ribadendo ancora una volta come lo statuto di realtà nel film si componga e si strutturi secondo le leggi della rappresentazione cinematografica. Ad un certo punto, The Bride inizia a ruotare su se stessa come una trottola, in un’autentica performance di break dance, mentre con le lame taglia i piedi dei suoi avversari. Ancor più palese diventa il riferimento alla danza (e in particolare al musical) quando vediamo combattere delle silhouette stagliate su uno sfondo blu: “In Kill Bill, violenza, danza e musica si fondono in un corpo unico. I combattimenti, con i ripetuti dettagli sui piedi sono messi in scena come balli in cui la figura principale è il cerchio. La Sposa coreografa i movimenti degli avversari e dà il tempo alla musica, che cresce in corrispondenza del culmine della violenza […]” [3]

Scena tratta da Kill Bill Vol.1

Se la danza si confonde col combattimento corpo a corpo, allora ci troviamo ad affrontare la questione più delicata che la sequenza mette in evidenza: il godimento estetico dinanzi alla rappresentazione della violenza (problema che appartiene in toto al cinema di Tarantino). Arti amputati, teste mozzate, sangue che sgorga in maniera incontrollata, urla di dolore… tutti elementi che emergono all’interno di una costruzione “teatrale”, spudoratamente “falsa” (perché, come abbiamo già detto, nel film decade la distinzione tra vita e cinema).

In molti, per spiegare il fascino e il successo della linea-Tarantino (che presumibilmente dovrebbe coinvolgere altri registi e film degli ultimi anni) hanno tirato in ballo il thanatos, ovvero la “pulsione di morte” di matrice freudiana. Saremmo attratti dalle scene di violenza radicale, in quanto il nostro coinvolgimento varca i limiti del principio di piacere, rivelando una tendenza perversa dello spettatore di apprezzare in maniera sado-masochistica la morte, la sofferenza, la tortura.

Scena tratta da Kill Bill Vol.1

Questa linea interpretativa — a mio avviso — non funziona con Kill Bill e, ancor più nel nostro caso, con la sequenza della Casa delle Foglie Blu. La pulsione di morte sarebbe sollecitata solo in un film che non dichiarasse espressamente la sua falsità allo spettatore. La palese e esplicita falsità della scena ci impone di interpretarla attraverso un diverso ordine di analisi: le immagini non ci permettono di restare da esse affascinati e coinvolti in quanto illusione di rappresentazione della vita (principio appartenuto a quasi tutta la storia del cinema, e che è a fondamento dei processi di identificazione divistica), cosa che accade col sadismo di film della linea di The Saw o Hostel. La sequenza qui in discussione non intende in alcun modo spacciarsi come reale: la realtà del film non è la nostra, ma quella del cinema. La scena del combattimento di The Bride concede la possibilità di venire assimilata e accettata, sopportata dalla visione malgrado il carico incredibile di violenza e sangue di cui si caratterizza, in quanto l’ordine logico della sequenza è al di là della morale, e la sua giustificazione è esclusivamente estetica.

In questo ordine di problemi, è rilevante fare riferimento al passaggio che il film compie dai colori al bianco e nero. L’elemento centrale di questa lunga sequenza è ovviamente il “sangue”. Bastano un paio di fendenti per far esplodere dai petti degli affiliati alla yakuza dei getti impressionanti. In un montaggio frenetico e serrato, caratterizzato da numerose inquadrature inusuali, The Bride cava un occhio ad uno dei suoi avversari; il film passa al b/n, che caratterizzerà la scena per buona parte del suo corso. Su questa scelta sono differenti le interpretazioni: la prima potrebbe essere l’attestazione da parte del regista che la visione, a questo punto, data l’eccitazione febbrile provocata dal vortice delle immagini, non necessiti del realismo garantito dai colori; la seconda ipotesi (sostenuta da Alberto Morsiani) è che il b/n esemplifichi i momenti di difficoltà della protagonista; la terza è di ordine “politico”, ovverosia interpreta la scelta dell’autore come un tentativo di mitigare l’impatto visivo, dati gli innumerevoli litri di sangue che sgorgano da ogni angolo dell’inquadratura.

Ne La nascita della tragedia, Nietzsche afferma: “solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati”. Questa proposizione è perfettamente adeguata all’universo filmico di Tarantino, e in linea generale a tutta la sua produzione, e nello specifico nel trionfo della violenza che caratterizza Kill Bill. La genialità dell’operazione compiuta da Tarantino è stata quella di ripulire il concetto stesso di violenza dalle sue (apparentemente imprescindibili) connotazioni morali; se la lotta è una danza e il film è un mondo a sé, allora mi è concesso godere delle immagini senza sensi di colpa. Tecnicamente e formalmente, questo obiettivo (ovvero quello di elevare l’immagine ripulendola dalle implicazioni di ordine morale) viene perseguito attraverso numerose e argute soluzioni di regia e di montaggio: il turbine di immagini è talmente frenetico che non ci concede la possibilità di soffermarsi sugli accadimenti. Tale sospensione ci avrebbe permesso di prendere coscienza che della gente stesse morendo senza motivo, idea inaccettabile dalla ragione e dalla legge morale di ciascuno. La spettacolarizzazione della strage concede quel distacco che offre al fruitore la possibilità di non essere attratto dal thanatos (che invece richiede coinvolgimento catartico): “La spettacolarità delle azioni e la messinscena teatrale ci aiutano a prendere le distanze dal realismo.[…] l’effetto ralenti dei fotogrammi, la mattanza coreografata in musical, i muri di carta e il palcoscenico che ospita la band musicale che disegnano lo spazio di un teatro Kabuki, ostentano la contraffazione dell’intera sequenza. ”[4]

Scena tratta da Kill Bill

La visione non ha la possibilità, ma soprattutto non ha il “tempo” di contemplare l’orrore, ovverosia di ragionare seriamente su quanto accade: stanno morendo decine di persone tra atroci sofferenze, molte altre resteranno invalide per tutta la vita, e tutto accade sotto i nostri occhi pieni di ammirazione e di godimento. Come ha fatto Tarantino a far mantenere, per tutta la sequenza e poi per il seguito dell’opera, l’aura di positività all’eroina? Come possiamo simpatizzare con lei dopo aver visto ciò che sta facendo? Abbiamo già detto come in Tarantino la provocazione risieda nel suo rifiuto del regime della moralità, perciò queste stesse domande potrebbero sembrare inconcludenti. Ma il punto interessante con cui chiudo il presente studio riguarda l’interrogativo di come sia possibile, per immagini di questo tipo, attivare un meccanismo di accettazione entusiasta da parte dello spettatore (non il “raccapriccio” di altre realizzazioni, e senza il gusto per la perversione pur presente in altri film di Tarantino, come nella celebre tortura al poliziotto ne Le iene). La stilizzazione degli eventi e degli ambienti coinvolge anche i personaggi minori presenti nel film, le comparse, che si riducono a mere “figure” e sagome che vanno “accoppate” una ad una come in un poligono di tiro.

Tarantino si impegna (attraverso l’abbigliamento, la mascherina, la velocità delle immagini) a sottrarre ai membri della massa di guerrieri nipponici ogni principio di identità, sia narrativa, sia psicologica ed esistenziale. Cosa avverrebbe se ragionassimo sul fatto che molte delle vittime dell’assurda carneficina hanno a casa una famiglia e dei bambini che aspettano il papà premuroso per cena? Ovviamente, come già sostenuto, Tarantino fa di tutto per evitare questa impasse, facendo delle vittime degli automi, che in quanto privi di vita sono anche privi della possibilità di morire in maniera autentica. Oltre a Go-go (che infatti muore con maggiore dignità, dato il prolungamento del faccia a faccia e le sue superiori doti tecniche di combattimento), c’è un’eccezione che conferma questa mia argomentazione: siamo nella scena della “danza di morte” delle ombre indistinte nel buio (dove le vittime hanno perso addirittura la connotazione fisica e le sembianze visive che li avrebbero potuto caratterizzare nella loro singolarità). Alla fine dell’eliminazione la bionda guerriera, sollevando il capo, punta davanti a sé la sua “presunta” prossima vittima. Noi spettatori notiamo subito qualcosa, che ci costringe più o meno inconsciamente a cambiare la nostra posizione: questa prossima vittima sta tremando di terrore. E proprio in questo momento, torna la luce. La scena diviene comica: il ragazzino travolto dal terrore resta immobile con gli occhi puntati dinanzi a lui. Con un sorriso sarcastico, Black Mamba si avvicina e fa a pezzi la sua spada. Lui allora alza le mani implorando pietà. Beatrix agguanta il giovane e lo sculaccia con la sua spada, concedendogli poi la grazia.

Scena tratta da Kill Bill

Questa scena è emblematica ed estremamente significativa per comprendere le tecniche di immedesimazione del pubblico adottate con grande mestiere da Tarantino: nel momento in cui una delle potenziali vittime (non a caso, senza maschera) mostra un accenno di “storia vissuta” e di definizione psicologica (il suo tremare lo rende a tutti gli effetti un “essere umano” in carne e ossa), la mdp (macchina da presa, ndr)si ferma e abbiamo il tempo di simpatizzare con la vittima. Se Beatrix lo avesse ucciso, allora il nostro rapporto di empatia con lei molto probabilmente avrebbe subito una flessione. Lei conferma di essere dalla parte del giusto concedendo la grazia al ragazzino; e non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che, sia per la visione dello spettatore sia per la sua, questo “graziato” è l’unico ad aver mostrato di “essere un uomo” e non una figura “meccanica” e senz’anima come tutti gli altri. La manifestazione della sua paura è un segno di una vita interiore, di una coscienza, di un “sentire” dell’anima, che invece i suoi “colleghi” non possedevano (o che Tarantino è riuscito a velare); la sua morte sarebbe stata autentica, reale, e l’avremmo percepita come un’ingiustizia, reintroducendo quel vincolo morale che con grande impegno il regista aveva esorcizzato nel corso del susseguirsi di tutte le immagini precedenti.

Così, in questa apparentemente banale scena che chiude la sequenza, possiamo rivelare un chiave per comprendere in che modo Tarantino lavori con la violenza, al fine di giustificarla per il suo stesso mostrarsi estetico piuttosto che accusarla o glorificarla in senso morale.

Note


[1] Antonella Mascio, Kill Bill vol. I: migrazioni interculturali e propagazioni extratestuali in Remix-Remake, Meltemi 2006.
[2] Alberto Morsiani, Quentin Tarantino, Gremese editore 2004.
[3] Simona Brancati, Quentin Tarantino. Asfalto nero e acciaio rosso sangue, Le Mani 2008.
[4] Ivi

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