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Cinema

Carnefici e vittime di un riflesso distorto.

Peeping Tom: lo specchio che uccide

Locandina Peeping TomQuel “guardone” di Tom non seppe fare a meno di spiare e ci rimise la vista. La leggenda narra di una nobildonna anglosassone, Lady Godiva, moglie del conte Leofrico di Coventry, che prese le parti dei propri sudditi e chiese ripetutamente al marito di alleggerire il carico fiscale che vessava la popolazione. Lui sosteneva che il denaro gli era indispensabile come per lei lo erano bei vestiti e gioielli; lei ribattè che senza di essi la sua bellezza non era meno splendente, e che anche nuda avrebbe mantenuto la sua regalità. Si dice che l’uomo, allora, dopo tanta insistenza, abbia acconsentito ad esaudire le sue richieste, ma ponendo un’originale condizione: il popolo avrebbe avuto meno tasse se Godiva avesse cavalcato nuda per le vie della città. Detto, fatto. Dopo aver emanato un proclama in cui si chiedeva alla cittadinanza di tenere chiuse porte e finestre, la donna cavalcò il suo destriero, coperta soltanto dai suoi lunghi capelli. Inutile dire che la prospettiva di avere meno tasse da pagare fece in modo che tutti rispettassero la richiesta, rimanendo chiusi in casa. Tutti tranne uno. Un tizio di nome Tom, professione sarto, non resistette alla tentazione e fece un buco nella persiana: la leggenda vuole che per questo sia stato accecato.

Nella cultura popolare di matrice anglosassone, peeping Tom (letteralmente “Tom che sbircia”) è un’espressione assurta ad un piano proverbiale con la quale si determina, in ambito colloquiale, il voyeur, colui che sente l’innata necessità di spiare, osservare morbosamente per trarre una soddisfazione fisico-psicologica. Il voyeurismo, o se si preferisce scopofilia, è già di per sé un argomento piuttosto pruriginoso; pensare di porre questa perversione al centro di un’intera pellicola alla fine degli anni ’50 era qualcosa che difficilmente sarebbe passato per la testa ad una mente avveduta. In particolare, per la cinematografia inglese, quello a cavallo con gli anni ’60 era un periodo piuttosto difficile, in cui le più grandi personalità del settore (basta pensare a Lean, Reed e Mackendrick) stavano emigrando negli Stati Uniti, e allo stesso tempo si stava sviluppando l’esperienza documentaristica del movimento di contestazione/innovazione del free cinema. Per tutti questi motivi, quando il regista inglese Michael Powell, da sempre troppo in anticipo sui tempi per essere compreso appieno, annunciò un thriller psicologico sull’ossessione di un uomo per la paura altrui, molti avevano già stabilito che sarebbe stato il suo tanto atteso passo falso. Vedendo di cosa trattasse nello specifico, la critica affilò la punta alle proprie penne: trovare il pretesto per negare l’indole geniale dell’uomo sembrò un gioco da ragazzi.

La storia di Peeping Tom (questo il titolo del film che in italiano è divenuto L’occhio che uccide) è quella di Mark Lewis, un cineoperatore, torturato da piccolo dal padre biologo, che lo sottoponeva ad ogni tipo di spavento per testare le reazioni del sistema nervoso infantile. Da adulto, Mark è ossessionato dalla paura altrui, e questa sua necessità fisiologica di osservare il terrore lo porta ad uccidere giovani donne e a filmare lo choc che queste provano nel sentire (e vedere) la loro gola penetrata da una punta metallica nascosta nel treppiede della cinecamera. Quando il film apparve nei cinema inglesi, il 16 maggio 1960, tutti già sapevano come doveva essere giudicato: la critica lo stroncò e la pellicola venne praticamente dimenticata, per poi essere rivalutata, già a partire dagli anni ’70, divenendo un cult, e venendo riconosciuta come uno dei capolavori della cinematografia britannica. Peccato, però, che la carriera di Powell fosse stata ormai definitivamente arrestata.

Scritto da uno sceneggiatore di origine ebraica, Leo Marks, che durante la seconda guerra mondiale aveva lavorato come decifratore di codici presso l’intelligence inglese, L’occhio che uccide è effettivamente un’accurata indagine, un tentativo di codifica di processi comportamentali umani posti sotto la lente del microscopio. Ed è proprio un duplice interesse verso le profondità della psiche a tenere in piedi l’edificio cinematografico: se da un punto di vista intradiegetico il protagonista è interessato alle reazioni alla paura, da quello extradiegetico è la sua stessa ossessione a suscitare nello spettatore l’interesse per le sue zone d’ombra. E così, il film che nessuno voleva finanziare, distribuito dalla Anglo-Amalgamated (casa di distribuzione che aveva raccolto il testimone della Hammer Films, specializzata in film del terrore), evita la cifra horrorifica e diviene un thriller sottile, che non fa balzare sulla poltrona, ma s’insinua in profondità, con lo scopo di insediarsi in maniera permanente. “Peeping Tom non mi fa desiderare di scappare fuori dal cinema urlando; piuttosto mi fa venire i brividi a posteriori, nel cuore e nella mente più che negli occhi. […] non abbiamo mai avuto un orrore così insinuante, sotto pelle, e assolutamente mai uno sforzo così blando per farlo apparire non destinato a persone anormali, bensì a un normale, semplice spettatore cinematografico, esattamente come voi e me [1].

Locandina Peeping Tom

Abbandonato lo storico, fidato sceneggiatore di origine ungherese Emeric Pressburger, Powell appoggia quindi Marks nella sua volontà di spogliare l’uomo di artifici e sovrastrutture, di ridurre a brandelli il mantello con cui si coprono oscenità e perversioni; i due, insieme, riescono nella scommessa di ritrarre il mostro senza sbatterlo in prima pagina, senza biasimarlo né tinteggiarlo di demoniaco, ma semplicemente lasciando che si muova sulla scena, con la triste necessità di chi si nutre per sopravvivere. Ma non si limitano a questo. L’ossessione, di per sé, sarebbe soltanto un caso clinico, non privo d’interesse, certo, ma pur sempre limitato ad una dimensione di studio. Powell e Marks si spingono oltre, firmando la loro condanna: creano un personaggio distorto, una sinfonia di ombre che mostra quante tonalità possa assumere il nero, e, facendolo, lo rendono simile a uno qualsiasi di coloro che dalla sponda della diversità credono di mantenersi a debita distanza.

La struttura filmica di Peeping Tom permette di operare delle schematizzazioni, di individuare una struttura, sottesa al percorso che compie il protagonista lungo il film: dal primo omicidio al finale in cui, ormai soddisfatto, chiude il proprio cerchio togliendosi la vita, Mark Lewis opera un graduale soddisfacimento della sua pulsione voyeurista, affonda sempre più nell’altrui paura fino a mantenere l’ultima necessità di nutrirsi della propria. È un percorso segnato da un numero limitato di tappe, quattro in tutto, ovvero i tre omicidi compiuti ai danni di tre ragazze e il gesto estremo che l’uomo fa su sé stesso. Si potrebbe affrontare l’analisi di questi quattro momenti – ma sarebbe forse più opportuno dire tre, visto che il terzo omicidio è eliso quasi del tutto dalla rappresentazione filmica – utilizzando le più disparate chiavi di lettura, e già molto è stato scritto (non bisogna dimenticare che, praticamente sconosciuto in Italia, L’occhio che uccide è in America e Gran Bretagna uno dei film più studiati). C’è però uno strumento, un oggetto utilizzato da Mark nel momento delle sue sevizie sulle vittime e su se stesso, che permette di indagare il complesso rapporto che lega i due poli opposti di queste azioni criminose: uno specchio concavo.

«Sai qual è la cosa più spaventosa che ci sia al mondo? La paura. Perciò ho fatto una cosa molto semplice, molto semplice… Quando sentivano questa punta che toccava la loro gola, e sapevano che le avrei uccise, le costringevo ad assistere alla loro stessa morte, le obbligavo a guardare il terrore che appariva nei loro occhi e, se la morte ha un volto, vedevano anche quella…» Poco prima di togliersi la vita, Mark svela ad Helen, la ragazza del piano di sotto di cui si è innamorato e che non vuole in nessun modo sottoporre alla sua tortura, la sua perversione. Facendolo, scioglie così un enigma che lo spettatore si porta dietro sin dalla prima uccisione, l’enigma di un riflesso luminescente che appare sul volto delle donne prima che vengano ammazzate. Lo specchio deformante che il ragazzo appende ogni volta sopra la cinepresa, mentre sguaina la lama da una gamba del treppiede, non è un semplice particolare macabro: anzi, in questo modo il processo di formazione della paura all’interno dell’individuo trova il suo apice. E ciò che rappresenta per il carnefice e per le sue vittime permette di farne il fulcro di un’analisi binaria.

Quella dello specchio che non restituisce l’elemento che riflette nella sua completezza o nella sua forma reale è, tra l’altro, un’icona che torna spesso nel cinema di Powell: basti pensare a Scarpette Rosse, Narciso nero o a I racconti di Hoffmann. A livello letterario si potrebbe individuare un parallelo nell’importanza che questo strumento ha per lo scrittore argentino Luis Borges, altrettanto interessato all’abitudine che lo specchio ha di distorcere le immagini che riproduce («Specchi e uomini hanno lo stesso orribile destino, quello di riprodurre! Bisognerebbe, infatti, che ambedue riflettessero un po’, prima di darsi da fare a replicare le cose, perché la copia spesso de-forma!»). Ma prima di descrivere la fenomenologia dello specchio deforme in Peeping Tom, è opportuno un breve preambolo tratto da Cinema e psicanalisi.

george harrison marks, pamela green e leo marks

Cinema e psicalisiIl significante immaginario di Christian Metz, che permetterà una migliore comprensione della messa in scena powelliana in rapporto all’identificazione più o meno massiccia dello spettatore con l’occhio criminale di Mark Lewis. Dice Metz: “Per capire il film di finzione devo «scambiarmi» per il personaggio, – affinché quest’ultimo benefici, per proiezione analogica, di tutti gli schemi di intelligibilità che porto in me – e devo allo stesso tempo non confondermi con lui affinché la finzione possa stabilirsi come tale: è il sembra-reale [2]”.

Se poniamo questo sistema di decodificazione in rapporto con la naturale somiglianza che intercorre tra il voyeur e lo spettatore cinematografico (il desiderio di osservare è il perno dell’attività di entrambi, nonostante per il primo sia un’ossessione, per il secondo un semplice desiderio), possiamo facilmente capire il motivo per cui il regista abbia finemente calibrato la messa in scena degli omicidi, dapprima sovrapponendo al punto di vista del protagonista quello del pubblico, e in seguito portando quest’ultimo ad un graduale distanziamento dallo sguardo del ragazzo. Ma applichiamo ora questi principi all’analisi del dato filmico.

Il primo omicidio è ai danni di Dora, una prostituta che Mark incontra davanti alla vetrina di un negozio. Il ragazzo nasconde nel suo montgomery la fidata cinepresa. Poco prima di seguire la donna, la macchina da presa si avvicina gradualmente all’obiettivo della cinecamera di Mark, fino a una totale sovrapposizione. Da quel momento lo spettatore vede con gli occhi del ragazzo, o meglio con quelli della sua cinepresa, che sono poi una sorta di protesi di quelli naturali, e comincia quella che François Jost[3] ha definito “ocularizzazione interna primaria”: non solo osserviamo con gli occhi del personaggio, ma la suddivisione dell’immagine nei quattro rettangoli tipici delle cineprese dell’epoca è una chiara marca identificativa di questa sovrapposizione. Quando i due entrano nella camera di lei, Dora comincia a spogliarsi; lui (posto fuori campo, visto che il suo occhio coincide perfettamente con il nostro sguardo) estrae qualcosa, sulla parete antistante e sul volto della donna seduta sul letto compare un riflesso luminescente. Dopo un istante di smarrimento, Dora sembra capire cosa sta succedendo; l’obiettivo della macchina di Mark si avvicina sempre più al volto della donna, mentre questa, con lo sguardo fisso in un punto sopra l’obiettivo, emette un grido straziato: la sequenza si chiude con un primo piano, preso da una prospettiva rialzata, sulla faccia terrorizzata della donna urlante. Quando Mark riguarderà il suo girato nella personale stanza di proiezione posta nel suo appartamento, scopriremo che l’immagine si blocca esattamente con un primissimo piano della bocca di Dora, che nel “bestiario” cinematografico della paura umana sta esattamente a fianco dell’occhio vitreo di Marion Crane in Psyco (sempre del 1960: per un occhio che uccide, un altro viene ucciso).

Dopo questo primo segmento narrativo, uno spettatore ignaro non sa quasi nulla: l’identità dell’assassino gli è stata celata, la stessa arma del delitto non è stata svelata, e se, dopo i titoli di testa, non venissero mostrate le indagini della polizia, persino il compimento di un assassinio rimarrebbe una pura ipotesi. L’unica sensazione in chi guarda è quella di aver preso parte a qualcosa, e questo risponde esattamente alle prerogative di una ripresa in soggettiva. D’altra parte, osservare quello che l’obiettivo di una camera ci mostra è abitudine per chi abbia una frequentazione, pur saltuaria, con il cinema. Ma due quesiti rimangono tuttavia senza una risposta: cosa è successo a Dora? E cos’era quel riflesso sulla parete?

L’omicidio di Vivian, il secondo in ordine temporale, si discosta dal primo, non tanto per le sue modalità di esecuzione (che si presumono pressoché identiche) ma per il tipo di messa in scena, che ha l’obiettivo di chiarire, in parte, ciò che per lo spettatore era rimasto oscuro durante il primo assassinio.

scena di peeping tom

Innanzitutto, il pretesto di un provino alla giovane controfigura, nel quale essa metta in mostra le sue doti drammatiche, permette a Mark, cineoperatore di professione, di fare una sorta di “dichiarazione di poetica” riguardante la sua perversione, fingendo di creare in lei un terrore fittizio, che si rivelerà, al contrario, fin troppo necessario. Illustrando la sua metodologia d’azione, il giovane mostra anche allo spettatore l’arma del delitto e il modo in cui agisce nel momento in cui risponde alle proprie pulsioni. Sul piano registico ciò è reso possibile dall’utilizzo di un tipo di ripresa che risponde ai principi della cosiddetta “ocularizzazione zero”: se durante l’omicidio di Dora lo spettatore si appropriava degli occhi dell’assassino e vedeva esattamente ciò che questi vedeva, ora assiste al delitto da una – pur minima – distanza di sicurezza.

«Immagina uno che avanzi verso di te, uno che voglia ucciderti, infischiandosi di tutte le conseguenze…»
«Un pazzo allora…»
«Sì. Lui sa di esserlo, ma tu no. Ucciderti soltanto a lui non è sufficiente. Immagina che sia questa l’arma destinata a ucciderti.»
«Sì, fa una certa paura.»
«E non è ancora tutto…».

A questo punto, Mark estrae qualcosa, qualcosa che noi non vediamo, si riconosce soltanto il retro dell’oggetto, una sorta di disco nero. Powell avvicina la macchina da presa al suo protagonista, componendo un primissimo piano di profilo, che vede affiancati il volto di Mark e la sua cinecamera. A quest’immagine si intervalla il primo piano della donna che fissa terrorizzata un punto posto fuori campo. L’uomo si avvicina alla ragazza, reggendo il supporto del suo treppiede dal quale ha sguainato la lama. La scena si chiude con un primissimo piano fuori fuoco dell’occhio terrorizzato di Vivian. Cosa è cambiato rispetto al precedente omicidio, sul piano strutturale della rappresentazione filmica? Proprio il modo in cui lo spettatore ha partecipato all’evento: se nel primo caso si era reso complice dell’atto criminoso (il suo occhio ha ucciso quanto quello di Mark, dal momento che lo sguardo di entrambi coincideva), nel secondo si interpone tra i due una sorta di barriera minima, come a dire: voyeur sì, assassini – magari – no. Un interrogativo rimane, però, ancora insoluto: che cos’è quell’oggetto che terrorizza le vittime molto più di una lama affilata?

L’ultimo quesito da svelare non viene sciolto in occasione del terzo ed ultimo omicidio compiuto da Mark (ad essere uccisa è Milly, una modella di foto osè, ma, come anticipato, questa scena è quasi del tutto elisa da Powell). La rivelazione arriva invece nel momento in cui il ragazzo, messo alle strette da Helen, si trova a confessarle i suoi delitti. Non stupirà che, anche in questo momento, l’enfasi maggiore non venga utilizzata per l’arma del delitto vera e propria, ma l’attenzione sia per l’ennesima volta spostata su quell’oggetto misterioso che lascia sulle donne uccise, come affermato dalla polizia, la stessa identica espressione di terrore, “mai vista prima”. Mark si avvicina alla ragazza, ripreso di spalle; d’un tratto solleva qualcosa di scatto e l’immagine successiva è la sua mezza figura, singolarmente modificata: lo specchio concavo tondo che tende di fronte alla ragazza sostituisce, nella composizione dell’inquadratura, la sua testa, in modo che il suo busto sembra sorreggere non la sua nuca, ma il riflesso deformato di Helen.

Si tratta di uno snodo fondamentale nella pellicola di Powell, in quanto la sovrapposizione esatta del soggetto con la paura altrui raggiunge, anche visivamente, il suo pieno compimento e, allo stesso tempo e per questo motivo, si realizza il processo di parziale distanziamento da parte dello spettatore.

L’ultimo gesto del protagonista è togliersi la vita nella stessa modalità riservata alle sue vittime. La sua figura, ripresa dalla vita in su, occupa quasi due terzi dell’altezza dell’inquadratura ed è posizionata sulla sinistra; le fa da contrappunto la cinecamera fissata sulla destra; la distanza tra i due è segnata dalla gamba del treppiede che Mark si punta dritta alla gola (distanza che marca il suo passaggio dal “dietro le quinte” alla scena vera e propria).

Riprendendo quanto affermato da Christian Metz, è possibile riscontrare nelle scelte registiche di Powell la volontà di mettere in scena proprio il processo di identificazione/allontanamento descritto in Cinema e psicanalisi. È evidente che l’omicidio iniziale, quello della prostituta Dora, veda una pressoché totale partecipazione dello spettatore, che si trova però a brandire un’arma del delitto della quale non conosce nemmeno la forma. Questa immedesimazione è stata uno dei motivi che hanno fatto gridare allo scandalo quando Peeping Tom uscì nei cinema: “Noi siamo implicati nella faccenda, questo credo sia stato l’elemento iniziale che ha condotto molte persone a sentirsi così a disagio riguardo al film, non tanto per il soggetto trattato e la sua evidente franchezza, ma per il fatto che tutto ciò implica che noi siamo spettatori. Qualcosa sta accadendo e noi siamo parte di ciò[4]”. Man mano, però, che la trama si dipana, lo spettatore (o se si preferisce il voyeur di secondo grado) si allontana gradualmente dal protagonista. Nonostante quest’ultimo susciti compassione per la sua assoluta incapacità di controllare una perversione che lo ha letteralmente brutalizzato, chi osserva dalla poltrona riprende in mano la propria identità e lentamente sembra indietreggiare. In tutto ciò, lo specchio concavo – vero lampo di genio, scoprirlo essendone inconsapevoli è un piacere proibito – diviene, nel suo rivelarsi al pubblico, una spia, un segnale che mette in guardia chi osserva da un’eccessiva identificazione. Quando un volto deformato dal terrore si sovrappone al viso del nostro alter ego di celluloide, lo spettatore si ritrae e si produce quello che Metz definiva il sembra-reale. Sì, ma il rischio corso è stato grande.

Finora si è visto l’effetto che lo specchio concavo ha sul carnefice, l’omicida (e di riflesso anche su chi con lui ha un rapporto di parziale identificazione). Per capire cosa significhi quello strumento per le vittime (le donne che vengono uccise e lo stesso Mark nel momento in cui si toglie la vita), sarà utile chiamare in causa una categoria cara a Powell, quella del perturbante freudiano.

I racconti di HoffmannNel breve scritto Das Unheimliche[5] (Il perturbante) del 1919, Sigmund Freud riprende un tema analizzato in precedenza da Ernst Jentsch, e affronta un tipo di disposizione al sentimento della paura generato da persone o cose che appaiono come familiari ed estranee al tempo stesso, e producono quindi nell’individuo confusione e incertezza. Parte del saggio è dedicata, tra l’altro, da Freud al racconto L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann (preso ad emblema di questo tipo di sensazione), racconto portato sul grande schermo proprio da Michael Powell nella pellicola I racconti di Hoffmann. Non sarà un caso, perciò, che la prima categoria alla quale si può pensare per descrivere il processo psicologico innestato dallo specchio deformante in Peeping Tom sia proprio quella del perturbante.

Lo specchio restituisce generalmente un’immagine che si conosce ed è rassicurante ritrovare nel riflesso una fisionomia, dei tratti che ci appartengono. Il perturbante nasce, nel caso de L’occhio che uccide, proprio dalla discrepanza tra l’istantanea mentale che le vittime hanno del proprio volto e la deformazione che ad esso porta quello strumento, facendo sì che esse stentino a riconoscersi. Ma non è tutto. Dopo un primo momento di totale incomprensione, le donne ritrovano in quei lineamenti vorticosi la propria mappatura somatica, ed è proprio in questo istante che il disegno di Mark raggiunge il suo obiettivo. La deformità fisica diviene specchio di quella interiore, lo stravolgimento di chi non sa cosa stia succedendo, ma sente nascere in sé qualcosa di tremendo che si impossessa dei suoi occhi, della sua bocca (allo stesso modo Peter Lorre in M. Il mostro di Düsseldorf tendeva con le dita gli angoli della sua bocca davanti ad uno specchio, riproducendo fisicamente l’abbrutimento morale di cui era vittima). Questo significa ciò che il protagonista definisce “vedere la morte in faccia”: avere davanti agli occhi il proprio volto, con impressi i segni di un terrore che si vede nascere ed ingigantirsi, e un destino che sembra via via più certo.

In quel momento lo specchio concavo è forse molto più onesto di qualsiasi altra superficie riflettente, perché rende manifesto qualcosa di interiore, facendone un ritratto stravolto ma quanto mai veritiero. E quando la vittima fissa terrorizzata e si ritrae, non è perché non riconosca l’immagine di sé che ha davanti, bensì perché capisce che quel grumo nodoso di linee allungate e distorte appartiene proprio a lei. Se da un lato Narciso si innamorava della sua immagine poiché in essa non si riconosceva, al contrario le vittime di Mark riconoscono se stesse e sbarrano gli occhi. Al ragazzo, invece, non rimane nient’altro da fare che nutrirsi di quel cupo terrore da lui stesso creato, e, quando arriva il suo turno di guardare dentro lo specchio concavo, lasciare un emblematico epitaffio: «Helen! Helen! Ho paura… e sono contento di aver paura!». Quando il carnefice diviene vittima. E lo rivendica dinnanzi al suo riflesso deforme.

Powell

Note:


[1] I. Quigly, The Spectator riportato in E. Martini, Michael Powell & Emeric Pressburger, Il Castoro cinema, Firenze 1989, p.77.
[2] C. Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Marsilio Editori, Venezia 1980, p.60.
[3] F. Jost, L’œil caméra. Entre film et roman, Presses Universitaires de Lyon, Lione 1987.
[4] I. Christie, Commento al film contenuto in Peeping Tom, Optimum video, 2007.
[5] S. Freud, Il perturbante, pubblicato per la prima volta sulla rivista Imago nel 1919.

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