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Percorsi

Cuba Little

Sigari e inutili tracce di Cervantes

Al volante, Alcide pare condurre la rossa Chevrolet con il cipiglio e la fierezza d’un ammiraglio che infili una portaerei nella mancha cubana. Il verde sperone occidentale dell’Isla Grande è landa estatica che può folgorare l’ipersensibilità, come fece l’epica del Cervantes col Quijote. Salpati all’alba da L’Avana, scopriamo campi delimitati tra sontuosi declivi. Di repente, un mulino o una casupola in legno con il tetto impagliato si stagliano all’orizzonte come una fata morgana inaspettata. Corsi d’acqua offrono rifugio a caimani considerati antiche divinità.

La Mancha Cubana

La regione di Pinar del Rio è terra fertile di tabacco e de los chistes più divertenti che l’isola confezioni; terra di foschie, fumo e barzellette che l’ironia cubana ambienta volentieri in questi luoghi, rendendo protagonisti i nativi guajiros, come si fa con i carabinieri – chissà per quale misterioso motivo – da noi. A Viñales non è difficile scorgere lucide automobili da turismo parcheggiate accanto a bovini enormi, o a casupole dove si essicca il tabacco migliore del mondo. Depositi simili a fienili, in cui le foglie riposano nella prima fermentazione. Ramiro, agghindato da cowboy, ci spiega come le foglie più basse d’una pianta di tabacco si utilizzino solo per il trinciato delle sigarette. “Man mano che il fusto sale, le foglie si fanno più pregiate. Solo quelle della corona si arrotolano in sigari a mano che poi Cohiba, Montecristo o Romeo y Julieta, smerceranno in ogni angolo del pianeta. I sigari si arrotolano negli stessi casolari dove le foglie fermentano. Ambienti di paglia e legno che permettano arieggi ottimali. Qui i rappresentanti delle case produttrici più rinomate scelgono i tabacchi migliori. Spesso ci chiedono, oltre alla prima, due successive fermentazioni in acqua. Solo così il tabacco raggiunge l’aroma fragrante e intenso d’un lanceros”.

A Pinar pare che la gente non sappia cosa sia la politica, né a cosa serva, poveri, semplici, fedeli alla terra, concentrati e inchinati sui campi come sembrano. Sciocchi o savi che siano, qui non c’è l’ombra d’una pattuglia di carabineros. Microcosmo fermo, zona franca dell’epica bucolica fuori dal tempo, dove tra ironia, fumo e poesia, sia possibile farsi scivolare accanto l’esistenza con lievità. In questi strani posti, dove apparentemente non accade nulla e la gente si fa saggia semplicemente con il passare degli anni, potrebbe accadere di veder saltar fuori da una curva un vecchio allampanato in sella a Ronzinante, lancia in resta, bacinella da barbiere in testa e un paffuto palafreniere di nome Sancho a inseguirlo col fiatone.

Auto d'epoca sulle strade di Cuba

Allucinazioni da viaggio, le mie, fomentate probabilmente dall’irrequietezza dei cileni che, giunti ormai a fine corsa, tentano d’acquistare qualsiasi sciocchezza a prezzi stracciati. Caccia grossa al souvenir da mostrare, al ritorno, come trofeo nella bigia Santiago del neo-capitalismo sudamericano. Il proscenio del bizzarro rapporto schizofrenico che s’instaura tra i pinarenos e i miei amici è ben rappresentato dal frontone sgargiante di colori della cueva dell’Indio a Viñales. Tutte le guide la citano come un murales preistorico e i cileni ne restano ipnotizzati. Lo sarà anche – un murales – ma è indubbio che sia stato ritoccato con vernice per graffiti da qualche invisibile writer. Mentre i metropolitani latinoamericani, con fotocamere digitali da taschino, danno la caccia alle migliori sfumature del bucolico, con nostalgia cerco nella piana incendiata dal sole l’abbaglio dell’eroica corazza del Quijote. Com’è che ne avverto la presenza senza scorgerlo ancora?

Per Evelin, i figli, e suo fratello Nestor, è l’ultima notte in Habana Vieja. Io proseguirò in solitaria per un’altra settimana, ne sento davvero il bisogno. Ultima cena nella Casa Alta di Elvira come ai vecchi tempi. Beh, non proprio come nei bei tempi andati. Certo, il bendiddio è lo stesso, ma i residui e i reduci dell’antica cerchia, pur spremendo tutte le generazioni possibili, sono solo Dayana, Luis e Caluca; gli altri si aggirano nel salone delle sedie a dondolo come aliti di fantasmi che facciano scricchiolare i pavimenti. Si sono uniti anche Gregorio, l’autista massone di Via Azul conosciuto a Santiago de Cuba, e la sua famiglia. Si beve rum da due soldi, si fumano buoni sigari, si mangia negritos y cristianos, allegri per il Natale ormai alle porte, malinconici perché l’avvento non porterà con sé nulla di nuovo. Evelin, d’un tratto, va in delirio, accusandomi d’aver avuto poca attenzione e carineria nei confronti suoi e dei suoi figli durante l’intero viaggio. Presenta il conto e colpisce basso, confrontando il poco riguardo ricevuto con la quarantennale accoglienza che la sua famiglia ha offerto, da sempre, in Cile. Il bello è che non capisco con chi se la prenda! Nestor mi si avvicina e mi porta in disparte sul terrazzo che s’affaccia in Habana 326. Un microcosmo che sento violato e violentato; chissà se per vendetta di tutti i cubani che in più di dieci anni ho a volte criticato o capito poco: “Non ti preoccupare di mia sorella. Sono tutti gli Orishas che non ha incontrato, ne tanto meno compreso, a tormentarla. Tu sei come a casa tua qui, e io sono fiero d’aver indossato i panni del Pancho dietro al Quijote! Grazie hidalgo cubano”. Ecco dov’era finito quel riflesso non visto, che ora non consola per niente.

Il Male con ?

Passo giorni interi sulla terrazza della casa di Luis a scrutare il mare. Albe e tramonti, a dicembre, non sono mai incendiari e questo – giuro – fa davvero bene agli occhi. Si pennellano timidi sullo spazio immenso delimitato dalla riga del Male con a far da frontiera, passaggio levatoio o linea di guardia? Stasera, come mai mi era capitato d’osservare, le architetture di Habana Vieja mi appaiono inconcluse. Non capisco se quel loro grigio sia il colore degli intonaci, che qualcuno deve patinare ancora, o lo sfondo che qualcun altro dovrà pur prendersi la briga di dipingere, prima o poi.

Habana Vieja

È la sospesa sensazione d’una storia incompiuta che mi rende triste e che le rende tristi di riflesso. Ma quand’è che si compie la storia? E se si compie, lo fa davvero, o si delinea per mera presunzione dell’ego umano? E se fosse tutta colpa del mare, invece? Tutto quel salso spinto a mordere le macerie da venti e maree. C’è chi potrebbe tirar fuori scuse simili, se riuscisse a leggermi il pensiero, e, nel dubbio, forse è meglio non pensare. Se non pensi a fondo, non trivelli. Certo che è un limite, perché accontentandoti di pensare lievemente galleggi nell’estetica senza nemmeno sfiorarla, l’etica. Ma l’etica, in un mondo d’imperfetti, non è mai radiosa – anzi – è dolorosa, e allora perché scottarsi? La si esclude, quindi, per sopravvivenza o per semplice difesa personale, solo così il panorama delle calli diventa perennemente sorprendente. Solo così i palazzi si fanno gioielli grezzi, pezzi unici, ma sempre grezzi, che i ghetti indossano inventando meraviglie oniriche brulicanti e indimenticabili: quel tesoro irripetibile, romantico e affascinante, gioielleria spesso confezionata soltanto per chi poi da qui se ne andrà. Fascino che abbaglia e non permette di cogliere l’unico e certo tesoro della vecchia Avana: gente viva e sospesa allo stesso tempo, curiosa e indolente per contrasto e controsenso.

Il Male con è un capogiro litoraneo: Habana Vieja, El Morro, Cientro Habana, Vedado, Miramar: la tromba d’un nero seduto sul suo muro di cinta inizia a riflettere i primi segni dell’alba, anche se ne avevi già indovinato la presenza per via di quelle note argentine brilluccicanti nell’attimo notturno che precede il mattino. Il bello è che potrebbe essere un sontuoso solista del jazz; uno dei tanti che girano i circuiti dei festival jazzistici europei: soltanto che lui non lo sa, ne lo saprà mai. Mulatti sfilano via come ombre inseguite dai lampi intermittenti del faro della Cabaña, che trattiene in sé il retroverso giro mistico dei Sufi. Che senso può avere questa lirica leggera che mi concede il pensare lievemente? Che senso hanno per un cubano quei lumini in mezzo al mare che segnalano la posizione o la fonda d’una nave? Cos’è una nave per i pescatori attaccati a una lenza di nylon trasparente e trattenuta soltanto con un dito per pescare, per sentire, o per l’assenza d’un galleggiante? Il Male con è un muro di confine che gli uragani smembrano, a volte sfondano, ma che continua a essere alcova d’amanti senza tetto, scrittoio per poeti, o qualcos’altro che il mare, i pensieri poco profondi, e la conseguente assenza dell’etica non spiega né spiegherà mai.

Il luogo dell’Archeologia spirituale

Sulla sponda opposta del golfo interno di L’Avana esiste un sobborgo sorto, durante le origini della città, come dormitorio per gli schiavi: La Regla. Oggi come allora quel borgo non è più L’Avana, tanto risulta una sorta d’appendice estranea ed estraniata dalla capital.

La Regla

Eppure solo da quel punto franco, confine tra mare, cantieri arrugginiti e campagne, Habana Vieja te la godi in plain air come un pittore perditempo che l’abbia raggiunta, per pochi pesos, a bordo d’una vecchia caffettiera camuffata da traghetto per volti tristi. La presenza d’una basilica, voluta ed eretta dai discendenti degli schiavi graziati, al tempo, da una pestilenza devastante, trasforma il posto in una sorta d’isola di Barbana, ed è proprio questa mistura tra pellegrinaggio e gita che da sempre mi affascina.

L'Orisha YemayàAll’interno della chiesa è conservata una madonna nera vestita d’azzurro: una Virgen de la regla che occulta, per santeria, la presenza dell’Orisha Yemayà, protettrice di marinai e pescatori. In dieci anni di vagabondaggi vi sono approdato spesso e sempre da solo. Il “microcosmo” mi piace, tra l’altro, anche per le pieghe dell’approssimazione e dell’assenza che prendono le mie sensazioni nel momento in cui le traduco in un Moleskine: “qui non ci viene mai nessuno e il tempio è quasi sempre vuoto”. “Luogo comune” che comunisti e rivoluzionari non frequentano per ovvie, opportune e dogmatiche ragioni di stato, o molto più probabilmente, perché marinai e pescatori a L’Avana, con buona pace di Hemingway, sono mestieri ormai appannaggio d’un ben altro stato: la via d’estinzione che della clemenza del mare non ha più bisogno.

La Regla, invece, io l’adoro ancora: solo qui trovo il miglior succo di canna da zucchero che L’Avana possa offrire. Lo compro da anni dallo stesso vecchio che me lo spreme, senza riconoscermi, utilizzando un tornio in disuso. Mi godo la gente che s’arrabatta con calma tra ferri vecchi, mentre assembla motocicli con quel che trova secondo il motto: Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, o che attende la sera tra i tavolini di un’improbabile “casa del popolo”. Un posto estraneo dove raramente incrocio gente straniera; un “non luogo” che mi fa sentire a casa nel bel mezzo della discendenza scalcagnata d’antichi schiavi e servi della gleba, da quando L’Avana è orfana dei tanti amici che avevo. La basilica della vergine nera è sempre pulita e profumata. Uno dei rari luoghi di culto al mondo, dove recupero ancora l’ispirazione d’una chiacchiera al divino che non sia mera ripetizione di litanie, come è capitato pure a San Juan Chamula, in Chiapas. Le mani nere di qualche anziana sono le uniche a congiungersi, ormai, per chiedere clemenza o per inventare, a punto croce, qualche centrino con cui ornare l’altare dell’Orishas. Siamo anime antiche, dedite alla cura d’un caravanserraglio spirituale, che più nulla s’attendono dalla propria vita nella Capital de Cuba. Ritorno al tramonto: il sole tra le nubi replica all’infinito il falso segnale d’un giudizio universale che, comunque vada, giungerà con il solito ritardo esagerato.

Esodo verso l’isola della Gioventù

Il terminal omnibus si trova dietro Plaza de la Revolucion e i suoi palazzoni in stile sovietico, dove gli ascensori sono inutilizzabili da decenni. La torre che domina la piazza, invece, l’ascensore ce l’ha, ospitando già dalle prime luci turisti e fotografi appassionati di albe a L’Avana. Dal terminal partono bus per ogni località, soltanto che per assicurarti il posto a bordo devi metterti in lista sin dalle cinque del mattino e attendere, più tardi, l’appello del tuo cognome. Un’immensa sala d’attesa composta da un humus prevalentemente cubano. Colpisce il numero di giovani alcolizzati che girovagano nella stazione. I tre messi sulla panchina di fronte, alle dieci si sono già scolati per colazione due bottiglie d’una mistura che potrebbe assomigliare a rum e che li ha messi fuori gioco per qualsiasi destinazione. I rari clienti di lingua inglese chiacchierano divertiti, belando i loro Yeeeh Yeeeh. Il terminal pullula di procacciatori di camere in affitto sull’isola della Juventud, o di taxi per il centro di Nueva Gerona, la sua città principale.

Isla de la Juventud

Nell’attesa, una flotta di ambulanti vende dolci enormi, accendini, caramelle e minuscoli pappagalli da compagnia. La sfilata di magliette dei principali club di football europei potrebbe illudere di trovarsi sotto la curva d’uno stadio enorme. In mezzo a giovani madri con i loro bebè arrancano barboni d’ogni sesso, tipo ed età. La maggior parte è fuori di senno, situazione che accentua bruttura e disperazione. Essere poveri a L’Avana deve essere un inferno che ci mette nulla a farti uscire di cotenna. Nullatenenti in un mondo d’umiliati e offesi da assurdi meccanismi politici. Un trend che si comincia a percepire anche nella nostra cara vecchia Europa composta, sulla carta dei diritti, da stati “civili democratici e civilizzati”, ma che in realtà sono guidati da grezzi e volgari rappresentanti commerciali abili a offrire al mondo un globale supermarket di cianfrusaglie e paccottiglie. Un po’ come accadeva un tempo tra colonizzatori e colonizzati, dove gli ultimi della catena umana ricevevano specchietti in cambio di oro. L’unica consolazione che mi viene in mente riguardo a questi “clochard caraibici” è la clemenza del tempo: almeno qui esime le esistenze dalla morsa del gelo. Terminal Omnibus, luogo d’attesa che nell’etimolgia castellana assume con il medesimo termine lo stesso significato della speranza: lugar de espera. Secondo le previsioni si doveva partire verso Batabanò, punto d’attracco dei traghetti per l’isola, alle otto e trenta del mattino, ma un po’ per gli autobus stracolmi, un po’ per quelli rimasti senza gasolio, ci si muove appena alle undici e trenta. Il tragitto di settanta chilometri attraversa una piana apatica, se non fosse per le distese di girasoli rivolti tutti fronte al padre, e alla meravigliosa sensazione d’essermi restituito al solitario vagabondare “rasoterra”: unica dimensione possibile per il viaggiatore proteso verso ciò che è sconosciuto. Durante le soste i cubani sembrano impazzire d’entusiasmo di fronte a chi vende trecce d’aglio sui cigli della strada. In pochi minuti i contadini le vendono tutte, trasformando i passeggeri degli autobus in giulivi turisti, che al confronto con quelli giunti alle Hawaii, vivono la medesima felicità, portando al collo, invece dei fiori, collane d’aglio e cipolle. Ma Batabanò non è Honolulu: all’una, lo scalo marittimo è un brulicare di controllo biglietti, passaporti e connotati. C’è chi ipotizza che il traghetto non attraccherà prima delle 14.00, altri spergiurano che mollerà gli ormeggi non prima delle 15.30. Una cosa è certa: per percorrere le cinquanta miglia marine che separano la costa dall’isola della Gioventù ci impiegherà cinque ore.

Il viaggiatore Girardengo

Una persona si reca sull’isola per godersi principalmente la parte meridionale: spiagge sublimi, natura incontaminata, grotte con pitture preistoriche, immersioni. Dal 2003, però, il turismo fai da te non è permesso. La regione è considerata zona militare off limits, che tradotto in cubano significa visite guidate con jeep a 75 dollari al giorno per un minimo di quattro persone, pernottamenti esclusivi all’hotel Colony, costruito sulla punta Frances, al costo di 50 dollari a notte, e immersioni organizzate solo dall’albergo a 100 euro al dì. Un investimento non indifferente per un viaggiatore a fine corsa. Non porto ancora collane d’aglio al collo, ma non posso esimermi dal tirar due conti, e la scarsa disponibilità mi trasforma in un puro cubano a pasto unico e scarso svago. Non mi resta altro da fare che sganciarmi dall’ingranaggio, far base a Nueva Gerona, scorazzare l’isola in bicicletta per tre euro al giorno con pneumatici e camera d’aria di riserva a tracolla, ripercorrendo i segni della sua storia fino a quando polpacci nervi e tendini reggeranno. L’Isla de la Juventud è una landa campestre dove gli aratri vengono tirati da buoi enormi e l’irrigazione affidata ad impianti che risalgono ai tempi mitici dell’archeologia industriale. Frutta e pomodori, vagando in bicicletta, li puoi cogliere per strada; un bel modo d’integrare la dieta, rubando ai cubani! Un rombo perduto nella campagna aperta mi fa indovinare dietro a quale promontorio si nasconda l’aeroporto. Lo raggiungo dopo aver scollinato due gran premi della montagna. Le spiagge di Cayo Largo, tra le più rinomate al mondo, disterebbero solo venticinque minuti di volo dall’aeroporto di Nueva Gerona, e di voli ne esistono due al giorno, ma trasportano solo cubani dell’Isola della Gioventù che lavorano sul Cayo.

Spiaggia di Cayo Largo

Il pilota dell’aereo postale, per la modica mancia di venti dollari, mi ci porterebbe anche – bicicletta compresa – senza però garantirmi il ritorno: “troppo rischioso. Se mi pizzicassero rischierei non solo il posto, ma la galera: Cayo Largo è stato letteralmente venduto al mercato turistico mondiale. Acquistare il pacchetto d’una settimana sull’isola dei balocchi, da una qualsiasi agenzia europea, viene a costare la metà che non acquistarlo a L’Avana senza garanzie di successo. Se tu volessi andare a Cayo Largo da qui, dovresti ritornare in Capital e lì metterti in lista d’attesa. La controprova di questo monopolio straniero su Cayo Largo lo puoi verificare tu stesso: trovare un charter diretto sull’isola è perfino banale. Diventa altra musica, quando, dopo il periodo di mare sul cayo, volessi prolungare la vacanza con un giro a Cuba: è impossibile! È come se fossimo isole di due stati distinti, e forse, lo siamo diventati davvero. Per i cittadini cubani, ad esempio, è del tutto inaccessibile, a parte il personale di servizio. Come si potrebbe, d’altro canto, permettere il confronto tra la quotidianità All Inclusive “allo champagne” per stranieri e quella d’una qualsiasi città cubana? Oltre alla posta, che si limita alle cartoline che i turisti spediscono dal punto di vacanza, noi trasportiamo verso l’isola i generi necessari a far girare l’intero business di Cayo Largo. Il personale raccomandato, invece, arriva da L’Avana”.

Dopo aver “intervistato” il pilota, intuisco che la necessità di ridurre i costi, può rendermi l’interessante opportunità di radiografare l’isola pedalando e parlando con la gente, come un viaggiatore Girardengo. Capisco il perché dei tanti controlli a Batabanò: sull’isola della Gioventù non incontri un poliziotto neanche a stanarlo, d’altro canto chi potrebbe lasciare quest’isola di confino? Seguendo la dorsale collinare tiro verso il presidio Modelo.

Il Presidio ModeloUn tempo carcere di massima sicurezza, fu eretto tra il 1921 e il 1926 durante il regime repressivo di Gerardo Machado, che replicò le architetture del penitenziario Jolet nell’Illinois. Oggi, come un tempio abbandonato, triste e fatiscente, è costituito da quattro enormi torri ocra circolari più una quadrangolare centrale. Potevano ospitare fino a venticinquemila detenuti. Fu qui che Fidel Castro, neo laureato in giurisprudenza, fu incarcerato dopo il fallito assalto alla caserma Moncada del 26 luglio 1953. Batista lo rilasciò, per amnistia, due anni più tardi, sottovalutando la minaccia mortale che il Lider Maximo, di lì a poco, gli avrebbe scatenato contro. Il fatto che Castro vi sia stato imprigionato vale 3 c.u.c. per la visita. Un’abbondante colazione costa uguale e ci rinuncio. Fatta la gamba decido, invece, d’esplorare quelle che potrebbero essere le spiagge dove accontentarmi. Playa Bibijagua è una sorta di campeggio deserto delimitato da spiagge nere. Perdendomi in chiacchiere con un mandriano, mi spiega che prima della caduta del muro il posto era un vero gioiellino: cabañas con aria condizionata, aiuole con magnolie, alberi da frutto. Ora non è altro che il ritratto dell’abbandono e della miseria, sussurra in un filo di voce, mentre le sue vacche spellano i fili d’erba superstiti. Diversa, invece, l’area gestita che si trova sulla punta del promontorio: Playa Paraìso ha un certo carattere e infonde un non so che di pacifico. Il costo dell’entrata vale un peso cubano. Quel che fa al caso mio.

Nueva Gerona è l’unica città e centro dell’Isla de la Juventud, l’antica Isla de Pinos. Sembra una città franca da qualsiasi controllo statale, fatto che potrebbe trasformarla dopo il tramonto in una Sodoma e Gomorra accalappia-turisti. L’architettura del barocco spagnolo delimita l’arteria principale, mentre a nord, è serrata dal cerro de las casas che funge da anfiteatro naturale. Mi ci arrampico al tramonto godendo dell’ampio panorama sulla città e sull’immenso pianoro circostante. Giusto sotto il cerro un assembramento di baracche ricorda una favela. È invece il porcile comunale, dove vengono allevati tutti i maiali della città. Tra le sue staccionate ragazzini giocano a baseball con i tappi e le bottiglie di plastica abbandonate. Una donna in bicicletta perde la borsa della spesa e tutti i suoi fagioli si disseminano sul sentiero. L’aiuto a raccoglierli, uno per uno, sino all’ultimo. Poi nel ringraziarmi quasi giustificandosi aggiunge: “Qui a Cuba non possiamo permetterci di buttare via nulla”. Le giornate di bici del viaggiatore Girardengo stramazzano. La sera non posso far altro che accendere la tv. Passa uno spot dove si vedono dei bambini che tormentano un cane legandolo. La casa dove abitano non è tipicamente cubana e la famiglia patinata non centra nulla con quelle che ho conosciuto girando Cuba da più di dieci anni. Il senso del messaggio diventa più esplicito: insegnate ai vostri figli il vostro amore in modo che siano in grado d’amare anche i cani. Non posso fare a meno di ricordare il bimbo che sulla spiaggia Magùanà di Baracoa era stato lasciato tutto il giorno dai genitori assieme ai cani, e comportandosi come loro ha indotto Evelin e i suoi figli a regalargli qualcosa da mangiare. Segue un servizio su Chavez che ha inviato un’equipe medica nella regione amazzonica dell’Equador: grazie a sofisticate apparecchiature d’alto livello e competenze mediche qualificate aiuta gli indigeni a recuperare la vista, messa a repentaglio da un virus endemico in sa Dio quali insetti. Poi vola in Brasile per l’inaugurazione d’una raffineria made in Venezuela. Mi addormento sulla voce dello speaker che commenta: “Ora nel Brasile di Lula c’è speranza!”

Nuova Gerona

L’anello di Josè Martì

La finca El Abra è un comprensorio colonico che riflette ancora l’atmosfera originaria d’una campagna curata quasi all’inglese e coltivata ad agrumi. Fu qui che nel 1870 Josè Martì venne relegato al confino, a soli diciassette anni, in seguito all’arresto subito a L’Avana per alto tradimento, dopo aver ammesso come proprie le responsabilità d’una congiura nei confronti della corona spagnola di cui si erano resi protagonisti, invece, quattro suoi compagni di studi, con i quali condivideva l’idea di movimentare un moto indipendentista e patriottico. Il giovane Martì era una figura fragile nel fisico quanto gigante per qualità etiche e morali. Con quell’atto, lui, cittadino spagnolo, evitò la sicura condanna a morte dei suoi compagni cubani. Dopo l’arresto, i genitori, vistisi negare la richiesta di liberazione del figlio minorenne, scongiurarono il viceré di Spagna a Cuba, che lo aveva condannato ai lavori forzati e all’esilio, di garantirgli almeno il proseguo degli studi, visto che di lì a poco sarebbe stato rimpatriato in terra castellana dall’Isola dei Pini. Gravissime, le imputazioni a carico di quel giovane spagnolo che lottava per l’indipendenza di Cuba e l’abolizione della schiavitù.

La colta e gentile signora che abita oggi la finca mi offre un racconto che intreccia le vicende di Martì con quelle de El Abra e dell’isola: “Durante il primo anno di carcere a L’Avana, Martì visse incatenato. Una cintura di ferro applicata alla vita lo costringeva ad un anello più piccolo stretto alla caviglia destra. Magro e delicato, ancora nell’età di sviluppo, subì, a causa di quei ferri, una malformazione scheletrica che gli arrecò seri problemi di salute”. Donna Maria parla di Josè Martì con dolcezza, come se lo avesse conosciuto, come se si trattasse d’un figlio perduto: “Sin da giovane era dotato d’una tranquillità d’animo e di un senso del sacrificio decisamente fuori dal comune per un ragazzo. Fu trasferito sull’Isola dei Pini proprio per esimerlo dall’obbligo dei ferri. Dove sarebbe potuto fuggire da questo punto sperduto in mezzo all’oceano?” Quando, nella finca El Abra, venne liberato dalle catene sopportate per quasi due anni, chiese di farne fondere un pezzo e forgiare, così, un anello che recasse inciso in oro il nome di Cuba. “Da quell’anello non si separò mai, solo la morte lo liberò. Di quell’anello nessuno ha mai saputo più nulla”. Certo è che Martì svetta per uno spiccato senso poetico della metafora, che radica con micidiale coerenza nell’alto concetto filosofico della propria esistenza. L’aneddoto, che non conoscevo, erompe come un simbolo epico: il giovane eroe non solo si fa carico della responsabilità d’altri, non solo ne sopporta la conseguente sofferenza, ma se ne lascia forgiare il carattere, e anche quando ha la possibilità di liberarsene, desidera conservarne il ricordo in un simbolo che lo proietti costantemente verso la realizzazione dei propri ideali. Mostruoso per un ragazzo di soli diciassette anni. “La Finca apparteneva alla nobile famiglia catalana dei Sandrà.

La finca El Abra

Proprietari di una cava di marmo nei pressi della tenuta, fornivano materiale da costruzione per i principali palazzi del governatorato spagnolo a L’Avana, tra cui il forte del Morro e il campo di Marte, oggi distrutto. Estraevano il marmo dalla cava, lo trasportavano a Nueva Gerona e da lì con tre golette di proprietà a Batabanò, dove prendevano la via di L’Avana. Il padre di Josè Martì, anch’egli spagnolo, la madre era invece venezuelana, lavorava come architetto della corona. Il loro primogenito, unico maschio di otto figli, fu arrestato in seguito all’intercettazione, da parte della polizia spagnola, di una lettera di cospirazione anticolonialista redatta da giovani cubani. Per salvarli da una condanna certa Martì se ne assunse la paternità, rischiando una punizione di sette anni ai lavori forzati in una cava di L’Avana più altri tre d’esilio o rimpatrio in Spagna: il prologo di una lotta per l’indipendenza cubana che sarebbe durata tutta la vita. Grazie all’influenza dei Sandrà nei confronti del governatorato spagnolo di L’Avana, e della loro amicizia con il padre del ragazzo, dopo il primo anno e mezzo di lavori forzati, Josè Martì venne trasferito sull’isola dei pini, proprio nella finca di famiglia dei Sandrà, in attesa del rimpatrio in Spagna, dove si sarebbe laureato in legge. Ritornato sotto falso nome a Cuba diede vita a un intenso pellegrinaggio divulgativo d’idee libertarie, in Messico, Guatemala, Venezuela, Colombia, Costarica e nella stessa Cuba. Scoperto, venne condanna all’esilio definitivo negli Stati Uniti, paese che criticò aspramente per la propensione a intromettersi nei movimenti indipendentisti di stati latinoamericani, e che per questo definìil Golia delle Americhe‘. Da New York, grazie a codici segreti, rimase in stretto contatto con Antonio Maceo con il quale preparò e orchestrò la guerra d’indipendenza definitiva contro l’impero spagnolo. A New York abbracciò la massoneria che interpretò come filantropia rivolta al sociale, cogliendone del pensiero soprattutto la propensione alla costruzione di un mondo migliore che si radicasse dal basso, e il cui potere fosse fondato sulla capacità dei suoi araldi d’incarnarne l’esempio etico: rientrato clandestinamente a Cuba per partecipare alla battaglia finale, lui che guerriero non era, fu uno dei primi a cadere sul suolo patrio. Aveva quarantadue anni”.

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