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Scrittura

Michela Murgia

Fill’e anima

Schizofrenia dell'isola che narra

Beatrice Biggio (BB): Fucine Mute ha il piacere e l’onore di fare una chiacchierata con Michela Murgia, che è a Trieste per presentare il suo ultimo libro, Accabadora.

Michela Murgia

Parliamo intanto di questo libro, l’ultimo che hai scritto, un romanzo ambientato in Sardegna. Una storia molto particolare, che non so se ci vuoi raccontare. Soprattutto vorrei sapere come è nato il libro, da quale ispirazione.

Michela Murgia (MM): È nato per caso. Io non ho libri nel cassetto in attesa di pubblicazione, scrivo sempre in maniera abbastanza istintiva e se qualcuno me lo chiede, di solito. Io non potrei scrivere se mi mancasse un lettore che mi chiede una storia. Questa storia in particolare parla di una vecchia che adotta una bambina che non è sua figlia, quando è già in tarda età. Questa bambina va a vivere con lei di buon grado, convinta che faccia la sarta e invece la vecchia fa anche qualche altra cosa: ogni tanto esce di notte e il giorno dopo la bambina si accorge che si va sempre a fare visita a lutto.

La bambina cresce senza sapere che mestiere fa veramente la sua madre adottiva, finché non lo scopre in modo anche abbastanza brusco. La vecchia in realtà è un’accabadora, cioè una figura leggendaria tradizionale sarda di donna che mette fine all’agonia dei morenti con lo stesso spirito con cui una levatrice taglierebbe il cordone ombelicale a un neonato.

BB: Ecco, entriamo un attimo di più in questa storia. È interessante il concetto di fill‘e anima, che non tutti conoscono. Tu hai dichiarato che sai bene che cosa significa perché anche tu sei fill‘e anima. Ci vuoi spiegare?

MM: Per evitare tentazioni autobiografiche ho volutamente assunto il punto di vista della madre nel racconto, e mi sono documentata molto su questa esperienza. Si tratta di un’usanza tradizionale sarda, ma non tipica sarda. L’ho trovata anche in altre regioni d’Italia, non ultimo il Veneto. Diciamo che è un’affiliazione, fill’e anima è un figlio moltiplicato: una famiglia prende in carico il figlio di un’altra famiglia, senza che ci sia un rapporto di “compravendita” e senza che la famiglia di origine sia necessariamente disastrata, come nel caso dell’affido che conosciamo noi tradizionalmente.

È un figlio che avrà più opportunità e, in cambio di questa nuova famiglia aggiuntiva, promette di prendersi poi cura dei genitori adottivi, che di solito non hanno figli. È una forma di ammortizzazione sociale che in passato era molto diffusa, ora sempre meno perché di figli ne facciamo molti meno e anche perché sono cambiate le condizioni sociali. Non esiste più quel respiro di co-genitorialità che faceva sì che dietro ad ogni bambino ci fosse un villaggio, un paese a tirarlo su. Però lo status di fill‘e anima è il nucleo narrativo centrale della storia.

Copertina AccabadoraBB: Come tutti i buoni romanzi Accabadora è una storia universale, diventa una storia universale pur partendo daun punto di vista molto particolare. Intanto è ambientata nell’isola, quindi un contesto abbastanza ristretto. C’è una “sardità” nella narrativa secondo te e, se c’è, che cosa significa e in che cosa si esprime? Anche nella forma, forse, il tuo romanzo ha una sobrietà particolare, ci hai pensato?

MM: Credo che tutti gli scrittori sardi lottino contro il concetto di letteratura sarda, così come immagino che a suo tempo Joyce possa aver lottato contro il concetto di letteratura dublinese o irlandese, perché uno presume sempre di scrivere storie che superino i contesti geografici in cui sono ambientate. Credo che sia per questo motivo che gli scrittori sardi spesso ambientano le storie in Sardegna sì, ma in luoghi con nomi fittizi, in “Macondi”, quasi a dire che la Sardegna è una maschera per narrare cose che invece sono comuni, che si spera siano patrimonio di tutto il genere umano.

Allo stesso tempo riconosco una peculiarità al fatto di scrivere da sarda e di ambientare le storie in Sardegna, e necessariamente far riferimento a una cultura che ha dei tratti molto marcati. Io cerco di non farli pesare attraverso il linguaggio, perché disdegno l’uso del linguaggio come arredamento etnico, come evidenziatore di esotismo, di alterità. Mi piace invece trasporre i concetti che appartengono a una cultura anche in un’altra lingua, che nel mio caso è l’italiano, nel senso che le lingue sono interessanti non per quello che ti permettono di dire, ma per quello che ti costringono a dire o a non dire, perché quella parola manca in quella lingua, perché manca il concetto a cui fa riferimento. Perciò trasporre alcuni concetti che sono propri del sardo in italiano, che non li possiede, è stata la vera sfida linguistica di questo testo.

BB: Un’altra sfida secondo me è quella propria della lingua appunto,voglio dire della tua lingua narrativa. Ho trovato che rispetto ai libri precedenti questo ha un sapore diverso, questa forma di scrittura mi è sembrata veramente tua. Lo dico perché mi sono piaciute molte delle frasi attraverso le quali hai descritto i tratti della storia. Pochi esempi su tutti, e cito: “un biondo molto giovane”, “parlava l’italiano in torinese”. Non ho trovato espressioni simili in altri scrittori. Credi di aver trovato la tua voce?

Michela MurgiaMM: Mi fa piacere che rimarchi che esiste uno stile particolare, però non sento questo libro meno mio rispetto al primo, anche se il primo aveva oggettivamente una voce diversa. Può darsi che io abbia più voci, chiamiamolo eclettismo o schizofrenia, dipende dai punti di vista. Mi piace pensare che alcune storie si possano narrare con quel registro, che è un registro più raffinato, più elaborato. Ci ho messo tre anni per scrivere quest’ultimo libro, per scrivere il primo ci ho messo un mese e mezzo, quindi è stato diverso anche il tipo di impegno, di elaborazione e di ricerca. Però ci sono cose che possono essere dette solo con l’altro linguaggio e per me è importante mantenere uno squilibrio tra questi due linguaggi, non cercare l’omologazione di un linguaggio unico. Finirei per raccontare sempre e solo le stesse storie.

BB: Anche perché attraverso la scrittura un po’ a tutti i livelli, nel senso che scrivi di tutto… Sul tuo blog, per esempio, hai scritto di questioni contingenti, di attualità, della società italiana, di politica. Hai scritto dul precariato, ma scrivi tantissimo anche della tua fede, per esempio. Questo eclettismo è la tua cifra, il tuo modo di fare il tuo mestiere, anche quando qualcuno te lo chiede. Anche Marcello Fois ci ha parlato dello scrivere “su commissione”

MM: Devo dire che io e Fois condividiamo questa cosa… Dire su commissione mi sembra brutto…

BB: Lui lo diceva provocatoriamente…

MM: Fois lo ha detto provocatoriamente, però la verità è che avere o non avere il lettore in testa mentre scrivi fa un’enorme differenza. Io non ho mai scritto niente che non avesse un lettore destinatario nella mia testa. Poi, può darsi che altri scrivano per se stessi e io li invidio molto, ma se nessuno mi chiedesse una storia io farei tranquillamente un altro mestiere, l’ho fatto per anni, non sarebbe per me un problema. Non sono neanche sicura che scrivere libri possa essere definito un lavoro, per quanto personalmente da tre anni a questa parte mi dia da mangiare.

BB: È vero che tu dai anche da leggere quello che scrivi ad amici e conoscenti proprio perché vuoi avere costantemente un lettore?

MM: È vero. Io non sono una nativa informatica, mi sono avvicinata tardi al mondo del web, però quando sono entrata in rete, ho scoperto l’orizzontalità della comunicazione: ho attraversato il mare senza andarmene dalla Sardegna. Credo che questo abbia avuto un peso notevole nel far sì che mi sia sempre mancato il desiderio di andarmene dall’isola, perché comunque con internet avevo la possibilità di varcare, superare, conoscere, stare sempre in contatto. Non do niente all’editore finché tutto non è finito, ma i miei amici leggono i libri a pezzi, su messenger per esempio, e devo dire che è un bel modo di correggere il tiro. Avere già dei lettori prima ancora che il libro esista è una cosa bella. Chissà cosa avrebbe scritto Calvino se avesse avuto questa opportunità…

Locandina del film di Virzi Tutta la vita davantiBB: Il tuo primo libro, “Il mondo deve sapere“, ha avuto un enorme successo, tant’è che sono stati comprati anche i diritti immediatamente e Virzì ne ha tratto un film, Tutta la vita davanti, che ha riscosso altrettanto successo. Tu hai partecipato alla stesura del soggetto, della sceneggiatura… Ci racconti un po’ com’è stato questo tuo entrare nel mondo del cinema? In qualche modo so che tu sei una appassionata di Olmi, ad esempio, quindi di un cinema molto diverso…

MM: È stata un’esperienza traumatica che volentieri non ripeterò! Nel senso che la scrittura cinematografica ha un’altra matrice, un’altra natura e anche un altro sviluppo. Diciamo che se la scrittura narrativa, pura, è un reato personale, la scrittura cinematografica tende ad assumere i tratti dell’associazione a delinquere.

Michela Murgia

Bisogna avere molta fiducia nel talento di qualcun altro per commettere reati comuni. Puoi fare tante cose con qualcuno, ma bisogna essere molto complici per fare qualcosa come scrivere insieme… Adesso ho detto che “volentieri non lo rifarò”, ma in realtà lo rifarò solamente quando si verificheranno queste condizioni di complicità che durante la prima esperienza, devo dire, non ho trovato. Ciononostante apprezzo il film…

BB: Invece Olmi?

MM: Olmi è un altro paio di maniche… Il mestiere delle armi è uno dei miei film di formazione, come L’albero degli zoccoli o Il posto. Olmi aveva capito tutto prima della nuova ondata dei libri sul precariato. Olmi, quando ha fatto Il posto, aveva già capito tutto: visionario, profeta straordinario a cui forse l’Italia non ha reso ancora il giusto merito. Come sempre bisogna aspettare che uno non ci sia più per capire quanto hanno pesato le sue interpretazioni della realtà sulla formazione dei criteri di generazioni intere. Per me sicuramente lui è stato questo.

BB: Rispetto alla tua scrittura in rete, quindi un po’ più centrata sulla realtà attuale vorrei farti alcune domande. Una sulla Sardegna: cosa pensi adesso della situazione politica? Tu sei stata abbastanza impegnata con la campagna elettorale, sei stata con Soru, ne hai parlato tanto…

Renato SoruMM: No, non sono stata con Soru. La Sardegna dà la possibilità di votare disgiuntamente. È possibile dare due voti, un voto alla coalizione e un voto al leader. Io in realtà sostengo dichiaratamente il Movimento Indipendentista Sardo, che però non ha le cifre per puntare alla presidenza, quindi io a questa tornata ho deciso di dare il voto sul territorio al mio movimento e indicare preferenzialmente Soru come presidente della regione perché noi non facevamo, per l’appunto, nessuna corsa alla presidenza. Questo ferma restando la mia stima per Soru come persona. Ma non condivido il progetto politico del Partito Democratico, quindi per me sarebbe contraddittorio dire ho dato il voto al Partito Democratico. No, ho dato il voto a Soru. Anche perché l’alternativa a Soru era assolutamente disastrosa, i segni si stanno vedendo adesso.

In particolare la contrapposizione tra le politiche ambientali è nettissima. Soru ha fatto delle scelte assolutamente condivisibili dal punto di vista della tutela del paesaggio come bene primario in Sardegna. La nuova giunta ha appena autorizzato un piano casa che aumenterà del 30% la cubatura sulle coste, una cosa che solo a dirlo mi fa indignare, di cui scrivo credo un giorno sì e anche l’altro, continuamente… Non è l’unica cosa disastrosa, ce ne sono anche altre evidentemente. Le ultime elezioni in Sardegna sono state non tanto una questione elettorale quanto piuttosto una battaglia antropologica su due modelli di sviluppo, di futuro.

È stata veramente una questione politica, nel senso di amicizia civica, nel senso di guardarci in faccia e chiederci che sardi vogliamo diventare, che sardi vogliamo che diventino i nostri figli. I sardi hanno fatto una scelta e io non la condivido, evidentemente. E questo mi pone degli interrogativi, anche se, come intellettuali, in Sardegna stiamo facendo abbastanza per la crescita di una coscienza più matura e più consapevole in ordine al nostro futuro. Uno dei motivi per cui io sto tornando a vivere in Sardegna, dopo quasi due anni a Milano, è perché voglio essere sul pezzo, voglio essere lì.

BB: Anche perché succedono cose ogni giorno, non ultima la questione della chiusura dell’Alcoa..

MM: Domandaccia quest’ultima, eh?

BB: È che vorrei capire dove si sta andando…

MM: Vorremmo capirlo tutti! È che abbiamo aspettato per tanto tempo condottieri… e ad un certo punto io devo essermi svegliata, assieme ad altri, e abbiamo detto, aspetta… Non arriverà la cavalleria, la cavalleria forse siamo noi, forse è il momento che la smettiamo di aspettare sempre che arrivi dall’alto la manna, che arrivi l’uomo illuminato, sai, il modello del leader carismatico va tanto. Anche il partito democratico cade in questa tentazione, in Sardegna sicuramente c’è caduto con Soru, con tutto che l’uomo ha sicuramente una visione che per molti aspetti è quella di un leader.

Ma il futuro della Sardegna, direi quasi una necessità storica, non può essere quello di essere il 2% dell’Italia, perché questo ci condanna all’ininfluenza sul nostro stesso destino. Non c’è un leghismo nel mio desiderio di indipendenza. C’è una consapevolezza che la nostra non sarà una cittadinanza piena fino a quando non avremo uno sguardo che ci comprende come un tutto e non come una parte Non so dirlo in maniera differente, ma ci tengo a fare un distinguo tra la lega e l’indipendentismo sardo, non c’è niente in comune.

BB: A proposito di questo tuo vagabondare: a parte il fatto che sei stata due anni a Milano, che io sappia da quando hai cominciato a scrivere, hai girato in continuazione, tutta l’Italia. Sei stata anche all’estero, e poi sei tornata in Sardegna, e poi sei partita di nuovo… Che effetto ti fa questa vita nomade? È un problema, ti diverti tantissimo, oppure vuoi smetterla il prima possibile?

Michela Murgia

MM: È bellissimo! Cioè, adesso non vorrei dire, ma fare lo scrittore e poter andare in giro a presentare i libri non è come montare traversine in ferrovia… mio nonno faceva il minatore. Io sono anche indecisa se chiamarlo lavoro, appunto, il mio, te l’ho detto prima. Ma è così, davvero. Certo, appena ci trasferiremo in Sardegna cercheremo di fare un bambino, adesso io mi sono appena sposata e il desiderio è quello di avere figli. I figli poi ti ritmano la vita, più dei libri sicuramente, almeno nel mio caso. E quindi desidero in prospettiva affermarmi di più, è una scelta quella di promuovere i libri sul territorio, mi permette di vedere tantissimi posti, Trieste compresa. Non c’ero mai stata, cosa fai, ti perdi l’occasione di andarci perché non vuoi muoverti da casa? Quello quando avrò sessanta anni, ma a trentasette, insomma… posso fare anche un po’ la trottola!

BB: Ci racconti che cosa c’è di speciale nel Sinis, che è la zona da dove provieni?

MM: Nel Sinis c’è di speciale che è in gran parte vergine e non è una meta turistica! invito tutti a non venire nel Sinis, andate da qualche altra parte, andate in costa Smeralda! Il Sinis è un posto molto brutto e spiacevole, effettivamente è bene che ci vada solo chi ci vive.

BB: Però sei contraddittoria… Perché hai scritto Viaggio in Sardegna che invece è una guida, “undici percorsi nell’isola che non si vede…

MM: Ma quella non era dedicata ai turisti, era dedicata ai visitatori. Tra il turista e il visitatore c’è una bella differenza. Io spero di ricevere sempre molte visite e pochi giri turistici.

BB: Quindi non hai ancora visto Trieste, non ci puoi dire cosa ne pensi.

MM: Sono arrivata di notte, era già tramontato il sole, quindi…

BB: Hai qualcosa a cui stai lavorando adesso?

MM: Si…

BB: Un romanzo?

MM: No, sto scrivendo un saggio. Spero di alternare sempre, perché il romanzo è una scrittura impegnativa, per me, ci vuole molto tempo. C’è un tema che mi sta molto a cuore, che è legato all’evoluzione del concetto di genere, in particolare del genere femminile, quindi ho, come dire, “in canna” questo saggio, che spero esca l’anno prossimo, sempre per Einaudi. Tratterà dell’influenza della formazione cattolica sui modelli di genere nella modernità, in particolare nella situazione italiana, dove c’è una recrudescenza del desiderio di tornare a visioni antiche, anche religiose, dell’utilizzo dei valori religiosi come marcatore identitario, culturale. Questa cosa mi interessa molto. Il saggio si intitolerà Ave Mary, in maniera un po’ provocatoria: Mary è la donna moderna e questo antico saluto rivolto alla madre di Cristo suggerisce l’idea che ci sia un messaggio che ha ancora qualcosa da dire alla donna moderna, ma magari non è proprio quello che vorremmo sentirci dire come donne d’oggi

BB: Tscrivi tantissimo sulle questioni di genere… Questo tuo impegnarti in questo campo dipende da tante cose, ovviamente, anche da questa recrudescenza, ma penso che sia un tuo interesse comunque, a prescindere. È davvero tragica la situazione adesso? Tu scrivi anche su Sorelle d’Italia che è uno dei miei riferimenti assoluti rispetto a questo tema.

Michela MurgiaMM: Credo che per certi versi la gente sia molto più avanti, sul discorso di genere, di quanto non lo siano i luoghi di rappresentatività, non necessariamente solo la politica, sicuramente anche la televisione, i media, alcuni archetipi pregiudiziali che abbiamo in testa e che segnano le nostre scelte, anche in maniera non sempre consapevole. Però lo vivo come un problema molto forte, non perché sono una donna, non sento solidarietà di genere in questo, mi impegno ugualmente per la causa dei gay, nonostante io sia eterosessuale. Scrivo moltissimo anche sulla questione dei diritti agli omosessuali, ne vivo la mancanza come una questione di ingiustizia etica, sociale, che danneggia tutti, anche chi non appartiene alla categoria danneggiata, perché siamo una rete di interconnessioni. Considerare i problemi di una persona come soltanto suoi è sciocco, è stupido, è ottuso.

Poi sicuramente avrò una sensibilità femminista anche spiccata, perché ho fatto un percorso formativo orientato in quel senso. Io ho studiato scienze religiose e ho avuto qualche professore che ha intuito questa mia sensibilità. Per cui ho orientato molte delle cose che poi ho letto negli anni su questo tema e non vedo l’ora di tradurle in un linguaggio pop che mi permetta di raggiungere persone che non leggerebbero mai un saggio teologico, ma che magari potrebbero rimanere affascinate dal tema o avrebbero bisogno di parlarne. Spero insomma di rendere “potabile” un argomento che fino adesso è stato per esperti o comunque relegato a livello elitario.

BB: Penso che ci riuscirai. Dal poco che ho letto, quando parli di religione, lo fai con uno spirito critico che, per una credente, secondo me è fondamentale. Questo fa sì che gli altri possano comprendere anche delle cose che magari sembrano di primo acchito molto difficili.

MM: Credo che lo spirito critico nei confronti della religione sia un diritto esclusivo dei credenti. Infatti diffido grandemente degli anticlericali atei, perché, dal mio punto di vista, parlano senza diritto. Il credente parla per passione e sa distinguere il nocciolo del senso dalle sue declinazioni anche distorte. Non attribuisce mai a Dio le colpe dei suoi balbuzienti servitori, con o senza tonaca. È importante per me che si capisca che la mia critica è fatta dall’interno, non dall’esterno, perché è troppo facile sparare da fuori. In questo momento la Chiesa tende ad assumere una forma monolitica, a non permettere al dissenso di esprimersi, neanche al dissenso sano, quello che permette una crescita, e questa è una grossa perdita.

Non sono sicura che i tempi richiedano questo; la gerarchia sembra pensarlo, ma molta parte della base invece non pensa che sia il momento di porci come una monade, come un monolite, è il momento della massima apertura, questo. Sembra che ci siamo dimenticati di Giovanni Paolo II che diceva “non abbiate paura”. Viviamo impauriti, chiusi in casa da tutti i punti di vista, si vincono le elezioni sulla paura, si recuperano le fedi sulla paura, queste elezioni e queste fedi non mi interessano, io non voglio vivere impaurita.

BB: Ti sei data una risposta sul perché le gerarchie invece facciano proprio questo?

MM: È più facile tenere sotto controllo un popolo spaventato che un popolo consapevole. Un popolo consapevole ti mette in discussione, un popolo spaventato cerca un leader che gli offra protezione. In questo non sono molto pecora, devo dire la verità, non sono mai stata una parte docile di un gregge.

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