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Cinema

La guerra dei Movies

Quando una coppia si separa, di solito, sono scintille. Lasciando perdere i casi più folkloristici, anche quando ci si lascia “da amici” si cede sempre alla tentazione di qualche minuscola ripicca, dettata dall’orgoglio di mostrare all’altro quanto felice sia la nostra nuova vita da liberi, quanto siamo realizzati e che successo riscontriamo nel fare ciò che vogliamo, a modo nostro. Questo Natale, la Walt Disney Animation Studio ha voluto mostrare alla Pixar cosa può fare senza di lei, proprio dopo poco che la loro ultima creatura aveva visto la luce.

Naveen e Tiana

La Principessa e il Ranocchio esce nelle sale italiane poche settimane dopo Up, in perfetto tempismo per le feste di Natale e sembra una dichiarazione di indipendenza, sembra una moglie che dice al marito che, sebbene la loro vita insieme sia stata ricca di gioie e soddisfazioni, lei non ha realmente bisogno di lui, anzi, è evidente che sa cavarsela benissimo da sola, come del resto faceva prima. Questo è, a mio avviso, il limite evidente del film: l’essere “proprio come prima”.
Il quarantanovesimo classico d’animazione Disney (così si chiamano: ora i film Disney vengono creati classici; ancora non sono nemmeno distribuiti e sono già classici, magari il pubblico — per assurdo — li snobba, la critica li disdegna, ma quelli se ne fregano, sono nati classici e fan spallucce, siedono direttamente nell’olimpo dei cartoni animati) doveva segnare l’attesissimo ritorno della casa di produzione al film realizzato a matita, dopo i numerosi lungometraggi digitali a quattro mani con l’ex anima gemella Pixar.
Ha il sapore, invece, del passo indietro tout-court, del ritorno ad una condizione precedente ritenuta, non senza un po’ di ottusità, di maggior pregio solo perché “tradizionale”,  ad un’atmosfera che sembra rimasta impermeabile agli stimoli recenti. Più che una persona che recupera le sue vecchie abitudini, sembra una che si risveglia dal coma dopo quindici anni, ignara dei mutamenti della storia recente. È un film prodotto per i nostalgici della Bella e la Bestia, quelli che se a dieci minuti dai titoli di testa qualcuno non sta già cantando, sentono odore di fregatura.

TianaLa protagonista è di colore e molti vedono in questa scelta politically correct un chiaro riferimento ai nostri tempi, illuminati dal presidente Obama. Sarà, ma sarebbe stato difficile ambientare un film a New Orleans e renderlo credibile con soli protagonisti bianchi e l’impressione è — piuttosto — che prima dei personaggi sia stata decisa la location, per sfruttare la sensibilità del nervo lasciato scoperto da Katrina.
Nella città del Carnevale, cresce Tiana, figlia di una sarta e di un operaio con il sogno di aprire un ristorante; quando questi muore prematuramente, alla figlia ormai adulta non resta che l’ossessione di realizzare il progetto del padre e l’esempio di un lavoratore indefesso oltre che, naturalmente, il grande dolore e l’affetto mai sopito, da cui la trama può prendere le mosse. Così Tiana svolge, con l’entusiasmo e la positività che solo un’eroina Disney può avere, più lavori senza mai concedersi uno svago, per potersi permettere di acquistare il vecchio  zuccherificio e aprire il ristorante, come spiega alla madre sfogando tutte le potenzialità della propria ugola e  volteggiando nei locali fatiscenti dell’edificio. Questa parte non è la prima cantata del film, ma rimane facilmente impressa nello spettatore per le soluzioni grafiche di rottura con il tratto del film, che ricordano le scene più ipnotiche de Le follie dell’imperatore, Hercules e Aladdin. Per farla danzare nell’immenso spazio che immaginiamo già trasformato in elegante salone, a Tiana  è stato fatto indossare un abito giallo acceso, a cui il pudore ha impedito di applicare anche i fiocchi, e l’inquadratura hitchcockiana che si avvicina al particolare dall’alto del soffitto sembra essere in procinto di mostrare da un momento all’altro la Bestia in ghingheri. L’occasione di racimolare il gruzzolo necessario per realizzare il progetto si presenta quando la ricchissima e romanticissima Charlotte, che Tiana conosce dall’infanzia, le offre di lavorare per una festa che il padre (che ha i tratti somatici dell’impresario Zidler di Moulin Rouge e veste come Fanucci del Padrino parte II) darà per permetterle di accalappiare un vero principe, il nobile Naveen in arrivo in città.

Immagine articolo Fucine Mute

Alla festa, ovviamente, sarà Tiana a incontrarlo perché l’allocco (un bamboccio appena un poco meno palestrato e appena un poco più abbronzato del marinaio di cui si innamora la Sirenetta), diseredato sperperatore di patrimoni familiari, appena arrivato in città con il maggiordomo (sinistro anello di congiunzione tra Tockins della Bella e la Bestia, che resta  il lungometraggio dal quale questo maggiormente attinge, e il Cappellaio Matto), si è fatto immediatamente abbindolare dal malvagio Uomo-ombra (discendente diretto di Jafar, è talmente palese che non è neppure divertente), un tipaccio che traffica con la magia nera, un soggetto che — si scopre presto — tutta New Orleans sembra conoscere  ed evitare, e che promette ad entrambi gli stranieri gioia e successo.
Per il suo sortilegio, il maggiordomo ha ora le fattezze del principe e cerca di sposare la ricca ereditiera finché durano gli effetti dell’incantesimo, mentre Naveen cerca di convincere la comprensibilmente disgustata Tiana a baciarlo, sebbene lui abbia l’aspetto di un ranocchio. Quando lei, scettica e di malavoglia, accosta le sue labbra a quelle del viscido batrace, il prodigio si compie e anche la bella cameriera si trasforma in rana. Non è chiaro se il piano sia andato storto perché l’incantesimo del malvagio Uomo-ombra non ricalcava fedelmente la fiaba che i due hanno assunto come foriera di verità universali nei casi — evidentemente ritenuti comunissimi — di mammiferi trasformati in anfibi, o se, non essendo Tiana una principessa, gli effetti dell’“antidoto” si siano ribaltati. Fatto sta che finalmente cominciano le peripezie dei due per recuperare i loro aspetti e le loro vite che, a giudicare da quanto questi personaggi sono diversi per estrazione sociale e mentalità e da quanto si sono reciprocamente antipatici dal primo sguardo, sono destinate ad intrecciarsi indissolubilmente.
E quale miglior modo di avventurarsi nella palude infestata di pericolosi alligatori se non un’edificante canzoncina? Come altri animali di matita prima di loro, durante la loro convivenza forzata iniziano a scoprire e apprezzare le rispettive qualità, grazie anche ad un istinto che non sanno gestire, che spinge entrambi a lanciare la lingua verso la stessa lucciola, ritrovandosi allacciati nel bacio più disgustoso della storia del cinema.

LouisSarà che non sono affatto un tipo moderno, ma per l’argomento “cibo come pretesto di approccio” continuo a preferire i cari vecchi spaghetti a lume di candela sul retro di un ristorante italiano. Con l’aiuto di una lucciola innamorata di una stella, Ray, e di Louis, un alligatore buono che suona la tromba (che sia buono è iconograficamente indubbio dal primo istante perché è l’unico alligatore obeso, secondo la regola, valida solo su certi schermi, per la quale “ciccia uguale felicità uguale pace con il mondo”) i due raggiungono Mama Odie, bincentenaria sacerdotessa vodoo cieca, che vive in una barca su un albero — uguale a casa di Shrek –  con la sola assistenza del clone di Sir Hiss.
La vecchia pratica la magia bianca e può, con un prodigio, restituire ai due le loro sembianze, ma preferisce prodursi in una sfavillante esibizione canora che, per le immagini di accompagnamento, ricorda molto da vicino la sequenza della canzone Stia con noi (Be our guest), del già-spremuto-come-un-limone La Bella e la Bestia; del resto chiunque impazzirebbe vivendo per anni solo al centro di una palude e, per una volta che capitano degli spettatori, il minimo è dar fondo al repertorio. Le rane ora sanno cosa fare e il circo riparte alla volta di New Orleans, dove i cittadini stanno festeggiando il Carnevale. Il maggiordomo con l’aspetto del principe sta per sposare Charlotte durante la sfilata dei carri allegorici (di cui uno ispirato alla Sirenetta e uno ad Aladdin, gli altri due lungometraggi Disney realizzati da questi registi), ma le rane riescono, nonostante l’equivoco che sembrava mettere in pericolo il loro nascente innamoramento, a impedire il matrimonio e a spiegare a Charlotte l’accaduto. La bionda si affretta allora a baciare il vero principe prima che scocchi la mezzanotte e finisca così il suo status di “principessa del Carnevale”, in virtù del quale può spezzare l’incantesimo; ma l’orologio non aspetta le titubanze della sceneggiatura e i protagonisti, ormai felicemente consapevoli del reciproco amore, restano rane. Merita una nota il personaggio di Charlotte, l’unico altro, assieme al proprio padre, a non avere un precedente a Cartoonia; ricalca, infatti, la Marilyn Monroe delle commedie più riuscite, bionda, formosa, svampita e che  — a beneficio di chi ancora non ci fosse arrivato — si disegna un neo accanto alla bocca per farsi bella.

Charlotte e Tiana

È molto ricca e viziata, ma non per questo è il solito personaggio negativo, anzi, anche quando comprende che il suo sogno di acquisire il titolo di principessa è andato in fumo, è capace di vera gioia per la felicità di Tiana; verrà ricompensata alla fine, quando si scoprirà che il principe ha un fratello, pazienza se ancora bambino (altro riferimento alla Marilyn di Gli uomini preferiscono le bionde, che sceglie il tavolo cui sedere a cena  in base al prestigio del suono dei nomi dei commensali, per poi scoprire che l’aristocratico che sperava di sedurre è un ragazzino): basterà aspettare ancora un po’.
Dr. FacilierIl cattivo, che ha fallito la missione di consegnare agli spiriti malvagi l’intera città grazie al potere che avrebbe esercitato sul maggiordomo debitore di un matrimonio da favola, viene raggiunto dalle ombre sinistre che avevano fin’ora insidiato i protagonisti e trascinato — si suppone — agli inferi, in una scena che rimanda alle visite dei dissennatori di Harry Potter, ma che avevamo già visto in Ghost, quando il cattivo Carl resta ucciso dalla pioggia di vetri.
Nonostante la morte della lucciola, il finale idilliaco, peraltro già fin qui sufficientemente lieto, è ineluttabile.
Dopo il funerale di Ray, gli amici guardano in cielo e scoprono che un nuovo astro è sorto accanto a quello che Ray chiamava Evangeline. Aveva, dunque, torto Tiana a ritenere le stelle palle di aria calda a che bruciano a milioni di chilometri di distanza: è evidente che sono lucciole, come già teorizzava Timon quindici anni fa ne Il Re Leone (mentre Pumbaa la pensava più o meno come Tiana). Archiviato il lutto, gli anfibi possono convolare a giuste nozze, ma poiché, sposando un principe, Tiana diventa una principessa a tutti gli effetti, quando Naveen “può baciare la sposa” spezza l’incantesimo ed entrambi tornano umani, non senza essere investiti dal turbine di raggi, luce e magia che aveva già portato via a Belle la sua amata bestia, lasciandole in cambio un biondino con l’aria poco sveglia. Siamo lontani dal finale davvero lieto di Shrek e la sua logica dell’“avrai dell’amore la forma”: qui l’amore non basta a completare le vite dei protagonisti, che  vediamo veramente felici solo dopo aver riconquistato  il loro aspetto avvenente e realizzato i rispettivi sogni di suonare e aprire un ristorante.
Peggio non poteva finire un film presentato come il grande ritorno della Disney all’animazione tradizionale e che già pecca di eccessiva autoreferenzialità per tutta la pellicola (lo dice una spettatrice mediocre cui piace essere rassicurata da meccanismi prevedibili e sentirsi un’esperta riconoscendo le citazioni, che, però, qui producono lo sbigottimento e la delusione di un mastodontico copia&incolla di chi ha gran mestiere, ma ha finito le idee).
Le tematiche del film vogliono essere — come esplicitato in più punti — il maggior valore degli affetti rispetto al successo professionale ed economico a tutti i costi e, al contempo, l’esaltazione dell’impegno come fonte di vera soddisfazione una volta raggiunti i propri obiettivi, in contrasto con i benefici goduti gratuitamente. Il principe viziato e donnaiolo si scopre un buono a nulla e rimane affascinato dall’infaticabile Tiana, mentre la stakanovista cameriera comprende finalmente le parole della madre e trova la felicità nell’amore. Senza voler considerare che, se il personaggio di Tiana è quello di una donna della cui forza e maturità ci si può innamorare, quello del principe è talmente simile al bellimbusto Gaston (La Bella e La Bestia, avevate dei dubbi, miei piccoli lettori?) che è poco credibile perfino per un cartone animato che una ragazza assennata come la protagonista se ne innamori solo perché è un tipo che ci sa fare (non dimentichiamo, infatti, che lei non lo ha mai visto nelle sue aitanti sembianze umane).

La Bella e la Bestia

Il messaggio che trapela dalla pellicola, invece, è che la dimensione della coppia non basta più, la felicità non è più data unicamente dal riconoscimento e dalla conquista dell’anima gemella, ma anche dalla realizzazione della persona che passa attraverso il successo individuale. Il fine è veramente lieto quando il principe trova modo di vivere facendo musica, e sua moglie quando può aprire il tanto sospirato ristorante. Potremmo salutare questo nuovo individualismo come il sintomo di una positiva svolta verso la modernità, una sorta di riconoscimento dei nuovi ruoli della coppia e dello status paritario della donna, che, da colei che sposandosi  “si sistema” (Biancaneve e Cenerentola insegnano) diventa imprenditrice e motore, non solo economico, della coppia.
Riesce tuttavia difficile immaginare che un film concepito tanto classicamente, nell’intreccio narrativo, nella costruzione dei personaggi, nel registro espressivo e — quasi per forza, quasi per coerenza obbligata — nella realizzazione grafica, abbia voluto farsi portatore di un messaggio tanto iconoclastico nei confronti di quella tradizione da cui finora ha attinto a piene mani e alla quale ha tanto manifestato di voler tornare. In quest’ottica, il recupero delle sembianze umane, per quanto necessario al conseguimento dei rispettivi successi professionali, ha il sapore dell’obbligatoria omologazione a quei canoni estetici senza i quali il successo è precluso e il talento assume le dimensioni del fenomeno da baraccone (rane che parlano, alligatori che suonano, ma sono applauditi finché sono creduti un musicista in costume).
Grassi, bassi, zoppi, strabici, gobbi, calvi, piatte, culone, portatori di apparecchi, nasoni e orecchie a sventola  (per tacere rispettosamente di coloro il cui difetto fisico è un problema di salute) incassano in dignitoso silenzio; a insulti sciocchi e prese in giro siamo abituati, ma da un “Classico Disney” è un colpo basso.

Locandina UPCosì è, del resto, quando una coppia si lascia. Lei cerca di ricominciare a condurre la vita di prima, ma nell’entusiasmo di dimostrare — e di dimostrarsi — di poter vivere benissimo senza di lui, scade nel patetico e spesso anche nella caduta di stile. Lui no. Lui se ne fa una ragione. Up è stato prodotto ancora in collaborazione con la Disney, tuttavia è facile pensare che abbia costituito per la Pixar la boa da doppiare, il punto da cui guardare avanti. Come gli uomini, questo film non si fossilizza sull’ultimo traguardo raggiunto, ma procede nonostante tutto. Magari con difficoltà, ma il maschio è una creatura razionale, consapevole che il tempo scorre in una sola direzione e incline a seguirla, prima o poi. È di questo che parla Up: della difficoltà ad affrontare da soli le prove e i cambiamenti che la vita impone a tutti, della loro inevitabilità e dell’accettazione di essi, che non è rinnegare, ma onorare, il passato e le gioie perdute. Come tutti sanno, è la storia di un vedovo burbero che incontra uno scout sugli undici anni, con il quale vive divertenti, rocambolesche avventure.
Quello che chi non lo ha visto non può sapere, è che il film mostra come il protagonista sia rimasto vedovo. Peggio: lo mostra felice e innamorato prima che rimanga vedovo. Lo mostra bambino, tondo e occhialuto, fantasticare di vivere le gesta del famoso esploratore di cui ha conosciuto le imprese attraverso la radio e i giornali, lo mostra udire da una casa abbandonata le medesime storie e avvicinarsi timido, per scoprirvi dentro una bambina, bruttina e coi capelli ispidi, con la sua stessa passione. Li mostra poi giocare, leggere il Libro delle avventure  in cui lei annota le imprese che compirà da grande, stare insieme, mandarsi messaggi legando legnetti ai palloncini. Non li mostra innamorarsi, ma li mostra già innamorati sdraiati sul prato a scoprire le forme delle nuvole, mettere su casa, lasciare le impronte delle proprie mani sulla cassetta delle lettere (lui perché è goffo, lei perché lo ama), preparare una stanza per il bambino e straziarsi alle parole del medico che non lasciano speranze. Li mostra trascorrere nuovamente felici insieme la quotidianità, affrontare insieme i piccoli inconvenienti e rinunciare sistematicamente al viaggio dei loro sogni per far fronte a qualche spesa imprevista, come almeno la metà del pubblico del film. Li mostra invecchiare serenamente tenendosi la mano dalle loro bergeres, ogni giorno per scelta, come Spencer Tracy (cui il protagonista, col passare degli anni, somiglia sempre più) e Catherine Hepburne. Mostra poi lui finalmente fare la pazzia di comprare il biglietto aereo per le leggendarie Paradise Falls dei loro sogni, deciso a farle una sorpresa. Lo mostra condurla sul loro prato per darle il regalo,  e mostra lei manifestare i sintomi della malattia che la porta prima in un letto d’ospedale, dove lui la veglia e le porta palloncini, poi via per sempre.

Ellie e Carl

I dieci minuti iniziali più  tristemente emozionanti che io ricordi, dopo Salvate il soldato Ryan; solo che all’epoca ero preparata ad essere choccata. La vita del vedovo è fatta degli stessi gesti, ma da abitudini sono diventati rituali, quasi a non voler spezzare il sempre più labile legame con il passato. L’incapacità di adattarsi alla nuova esistenza emerge da ogni piccolo gesto, dal maniacale attaccamento alla cassetta delle lettere su cui posa dolcemente la mano in corrispondenza dell’impronta di lei, al rivolgersi a lei ad alta voce come se fosse un interlocutore presente, alle reazioni esagerate ad ogni presunta minaccia o intrusione nel delicato ecosistema di ricordi e reliquie.
I film Pixar hanno la magica caratteristica di svelare i misteri. Guardano le cose da un punto di vista inconsueto e le spiegano al mondo. In passato hanno rivelato cosa fanno i giocattoli quando i nessuno li guarda, perché i bambini hanno paura che escano i mostri dall’armadio e come mai i supereroi hanno smesso di salvare il mondo. Up spiega perché i vecchi a volte fanno cose di cui i più giovani non capiscono il motivo: sono innamorati.
Quando goffaggine e concitazione fanno sì che Carl — a proposito, si chiama Carl — colpisca con il bastone uno degli uomini impegnati nella fastidiosa ristrutturazione del quartiere, egli comprende da solo che non può più sottrarsi alla casa di riposo e, sbarazzatosi di quella specie di Giovane Marmotta invadente con la scusa di un fantomatico uccello da catturare per proteggere il giardino, rientra rassegnato in casa per prepararsi a lasciarla. L’indomani mattina, dignitoso, consegna la valigia agli infermieri e li prega di pazientare ancora un momento, affinché lui possa indugiare in un addio sentimentale.
E la meraviglia è totale: sembra che tutti i palloncini che Carl ed Ellie si sono scambiati durante tutta la vita stiano uscendo dal tetto e dal comignolo per portare via Carl, e la loro amata casa.
Non è possibile che una casa voli via attaccata a dei palloncini, è vero. Ciononostante sappiamo che volerà, lo abbiamo visto sulle locandine del film, nel menù del DVD e nei servizi al telegiornale. In fondo tutta l’azione prende le mosse dal fatto che la casa possa librarsi in cielo appesa a migliaia di fili di cotone, governata con un macinino da caffè cui sono legate vele fatte di tende cucite insieme. È ovvio che funzionerà. Eppure stiamo lì davanti al portento più inebetiti degli infermieri, a guardare il giunto della tubatura dell’acqua per il giardino e a sperare che ceda, esattamente come avevamo sperato che volassero le biciclette di ET.

Scena da UP

Da qui il film diventa un cartone animato nel senso più tradizionale (che è il modo dei recensori per dire che hanno smesso di piangere). Si sente bussare alla porta mentre la casa vola sopra i tetti della città, ed è il ragazzino scout — comprensibilmente terrorizzato — tornato e rimasto sul portico nel momento sbagliato. Tra un pasticcio e l’altro, la casa approda in qualche modo nei pressi delle cascate e inizia così l’avventuroso viaggio a piedi  — con la casa legata allo zaino come un aquilone — attraverso la boscaglia per posarla proprio nel punto dove la sognava Ellie. Nel cammino, o due si imbattono in uno strano uccello che diventa il beniamino del ragazzino  — che lo battezza Kevin — e la croce di Carl, e in un cane — Doug –  dotato di un dispositivo che traduce in linguaggio umano il suo pensiero. Fa parte del gruppo di cani dell’esploratore Charles Muntz, l’idolo di Carl ed Ellie bambini, tornato molti anni or sono in queste terre sperdute per catturare un esemplare vivo di quell’animale meraviglioso i cui resti, raccolti durante una spedizione precedente, erano stati ritenuti dagli scienziati una contraffazione. Dopo una prima ospitale accoglienza, le intenzioni di  Muntz si rivelano malvagie e Carl e Russel fuggono dalla sua base per salvarsi la vita e proteggere Kevin che, nel frattempo, si  è rivelata una mamma allontanatasi dal nido in cerca di cibo. L’azione si fa serrata e avventurosa, come i tempi del lungometraggio animato richiedono, ma ciò che rende speciale questa produzione è la lucida ironia — non nuova, a dire il vero, nei film Pixar –  e i dialoghi mai banali. La trovata migliore sono probabilmente i cani con il collare-traduttore: non sono i soliti animali parlanti dei cartoni animati, ovvero personaggi con “animo” umano e sembianze animali: sono semplicemente, eppure tanto innovativamente, animali il cui pensiero è reso manifesto nel nostro linguaggio, perciò ragionano e si comportano come gli animali muti che conosciamo nella vita reale: si distraggono nel bel mezzo di un’azione perché attratti da una palla o uno scoiattolo di passaggio e classificano Russel, sempre vestito da scout, come un “piccolo postino”.
La fortuna aiuterà l’impresa di Carl, che riuscirà a posare la casa nel punto in cui Ellie la aveva disegnata nel libro delle sue avventure.

Carl e Russel

Tornati nella loro città, Carl e Russel compensano l’uno le solitudini dell’altro (il ragazzino vive con la seconda moglie di un padre assente), trovando così una nuova felicità, secondo quella sorta di ultima volontà che Carl aveva scoperto nel libro delle avventure di Ellie sfogliandolo l’ultima volta: “Grazie per l’avventura. Ora va’ e vivine una nuova”.
Spudoratamente realizzato per commuovere, l’ultimo capolavoro di Pete Docter e Bob Petersen tiene fede alle aspettative di innovazione cui i film Pixar ci hanno abituato (sebbene, forse, l’idea del mondo dei mostri la cui economia energetica è fondata sull’estrazione delle urla dai pericolosissimi bambini umani abbia una potenza sovversiva mai più uguagliata), presentando ancora una volta un protagonista fuori dagli schemi, con il quale, comunque, lo spettatore stabilisce immediatamente un rapporto empatico. Il tocco di classe, e altro marchio di fabbrica, che distingue questi “cartoni animati” dalla produzione più tradizionalmente indirizzata ai piccoli, è il gioco di anafore e catafore di cui il film è intessuto, quelle “citazioni interne” a dettagli e particolari mostrati quasi en passent, apparentemente superflui, ma che poi si rivelano necessari, come gli indizi di un giallo ben congegnato. E da maestro del giallo è anche l’immancabile ritorno della pallina gialla con il cerchio blu e la stella rossa, simbolo della casa di produzione, che viene inquadrata di sfuggita praticamente in tutti i film.
Se si eccettuano i lineamenti orientaleggianti di Russel, che, in considerazione del suo rapporto con il burbero vecchietto del quartiere,  potrebbero essere letti come un omaggio a Gran Torino, sono, invece, praticamente assenti i rimandi ad altre pietre miliari di Hollywood, segno che questo, anziché l’esercizio di stile che deve riprodurre per accattivare, ha le carte in regola per diventare il futuro vero classico da citare.

Titolo: La Principessa e il Ranocchio
Titolo Originale: The Princess and the Frog
Genere: Animazione
Durata: 97′
Paese: Stati Uniti
Anno: 2009
Autore: E.D. Baker
Regia: Ron Clements, John Musker
Sceneggiatura: Ron Clements, John Musker, Rob Edwards
Musiche: Randy Newman
Interpreti: Anika Noni Rose, Bruno Campos, Keith David, Michael-Leon Wooley, Jennifer Cody, Jim Cummings, Peter Bartlett, Jenifer Lewis, Oprah Winfrey, Terrence Howard, John Goodman, Elizabeth M. Dampier, Breanna Brooks
Produzione: Peter Del Vecho, Aghi D. Koh, Paul D. Lanum, John Lasseter, Craig Sost

Titolo: UP
Titolo Originale: UP
Genere: Animazione
Durata: 96′
Paese: Stati Uniti
Anno: 2009
Autori: Pete Docter, Bob Peterson, Thomas McCarthy
Regia: Pete Docter, Bob Peterson
Sceneggiatura: Bob Peterson, Pete Docter
Musiche: Michael Giacchino
Interpreti: Edward Asner, Christopher Plummer, Jordan Nagai, Bob Peterson, Delroy Lindo, Jerome Ranft, John Ratzenberger, David Kaye, Elie Docter, Jeremy Leary, Mickie McGowan, Danny Mann, Donald Fullilove, Jess Harnell, Josh Cooley, Pete Docter
Produzione: John Lasseter, Denise Ream, Jonas Rivera, Andrew Stanton

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  1. […] per certi versi ancora insuperato – che è Monsters & Co., e allo straziante eppur esilarante Up, Cars otteneva forse i consensi più tiepidi fra il pubblico adulto, probabilmente perché un po’ […]

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