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Cinema

Mark Ivanir

Il direttore delle risorse umane

Mark Ivanir | foto di Giulio DoniniIl Direttore delle risorse umane della catena di panetterie più grande di Gerusalemme è nei guai: separato dalla moglie, distante dalla figlia e incastrato in un lavoro che odia. Quando una delle sue dipendenti, una lavoratrice straniera, rimane uccisa in un attentato compiuto da un kamikaze e nessuno si presenta a riconoscere il cadavere, l’azienda viene accusata di crudeltà ed indifferenza verso gli stranieri. Il dirigente viene incaricato di sistemare le cose e parte per un viaggio accidentato, che comincia sulle strade di Gerusalemme e continua nei Paesi dell’ex Unione Sovietica. Il Direttore si ritrova a condurre uno scalcagnato convoglio diretto al paesino d’origine della defunta, in compagnia del figlio ribelle di quest’ultima, di un molestissimo giornalista, di un eccentrico console, di un anziano veterano nei panni di autista e di un feretro.

Beatrice Biggio (BB): Abbiamo il piacere di poter intervistare Mark Ivanir, qui a Locarno per presentare il film di cui è protagonista, The Human Resources Manager, per la regia di Eran Riklis. Cominciamo proprio da questo suo ultimo film. Lo abbiamo visto in proiezione stampa e ci è piaciuto moltissimo. All’inizio ho pensato: “Ma perché non è in competizione?”. Poi, avendo visto la fotografia del film, posso solo dire: “meno male che sarà proiettato in Piazza Grande, perché altrimenti si priverebbe il pubblico di qualcosa di veramente spettacolare”. Del resto, il direttore della fotografia è un certo Rainer Klausmann… (Klausmann ha firmato la fotografia di film quali La caduta, La banda Baader-Meinhof e La sposa turca e Soul Kitchen di Fatih Akin). Puoi parlarci del viaggio interiore del protagonista? A me è sembrato il viaggio principale del film, parallelo a quello fisico che il personaggio compie.

Mark Ivanir (MI): Sì, certo.

BB: Come hai vissuto questo viaggio interiore come personaggio e, soprattutto, come attore, a livello personale?

MI: Certamente è stata una grossa sfida, da subito. Quando ho visto il film, ho detto a qualcuno che mentre lo giravo, mi ero pentito di averla accettata, questa sfida. Come attore, vuoi recitare, ma in questo film non c’è molta recitazione, pura recitazione, intendo. Succedono così tante cose, è talmente corale che senti di non fare grossa differenza. Ma è stato un processo interessante, lo dico a posteriori, perché il film mi ha fatto fare un viaggio molto a fondo nella geografia emotiva sia del personaggio che mia personale. Il motivo per cui credo di essermi identificato così tanto in quest’uomo è che sta attraversando una crisi d’identità, si trova in uno spazio dal quale non c’è via d’uscita e ha bisogno di reinventarsi per continuare a vivere e non morire emotivamente.

Mark Ivanir

Credo di essermi trovato esattamente nella stessa situazione circa dieci anni fa, lavoravo in un teatro molto famoso, ero un primo attore, ero molto attivo in questo teatro che era come un grembo materno. E mi ci sono voluti diversi anni per rendermi conto che stavo sbattendo contro quel muro, non potevo fare più niente per cambiare quello che mi stava accadendo, ero bloccato. Ho vividi ricordi della sensazione di quel momento, mi sentivo come fossi dentro una bara, in un luogo senz’aria. Ho dovuto reinventarmi; sono stato molto fortunato a poterlo fare, in realtà è stata mia moglie a spingermi a dare una svolta alla mia situazione. Ci siamo trasferiti in Inghilterra, mi sono messo a studiare regia e c’è stato l’incontro con Philippe Lioret, un mio insegnante francese, che… Io non volevo più fare l’attore, allora, ero ad un punto in cui pensavo di voler fare il regista, e lui mi ha infuso nuova linfa in questo senso. E poi ci siamo trasferiti di nuovo, questa volta a Los Angeles, invece di ritornare al mio teatro per fare il regista come pensavo avrei fatto. La cosa bella della California e di Los Angeles è proprio che sono luoghi dove si va per reinventarsi, ed è esattamente quello che ho fatto io. Quindi, anche se il mio è un viaggio completamente diverso da quello del mio personaggio, ho potuto capire bene il senso di quello che gli accade, credo.

BB: Pensi che la molteplicità di esperienze che avevi alle spalle, il teatro, il circo, ti abbiano preparato ad affrontare Los Angeles in modo migliore?

MI: Sì. Credo che molti attori arrivino a LA essendo già un prodotto finito, come dire, sono già delle star nel proprio Paese e vogliono diventare ancora più grandi lavorando ad LA. Io non ero una star nel mio Paese, ero un attore di teatro piuttosto conosciuto entro i confini della comunità teatrale, ma non avevo mai avuto successo in televisione o al cinema. Quindi per me andare ad LA significava… In realtà ci siamo andati per via deI lavoro di mia moglie, io mi sono solo accodato, ma per me, penso, era consolante anche questo, sapere che non c’erano aspettative a pesare su di me. Così ho avuto il tempo di capire, per gradi, cosa diavolo succede in questa città, quello che volevo fare e come gestire me stesso, la mia carriera, eccetera eccetera. E credo che per me quel viaggio, dato che avevo molto tempo e poche aspettative – cosa che aiutava – e un’esperienza di vita alle spalle (ci sono arrivato a 35 anni) sia stato più facile che non per qualche giovane star di 22 anni.

Cast HRM | foto di Giulio Donini

BB: Forse è stato più facile anche perché non avevi un’immagine troppo stereotipata, perché avevi fatto così tante cose diverse…

MI: Ci avevo sempre provato. Ho voluto che le cose andassero in quel modo, perché se c’è una cosa che odio è trovarmi chiuso in un angolo ed essermici messo da solo. Mia moglie e le mie figlie ormai sono abituate, ma io ogni mattina mi sveglio e sono un’altra persona. A volte sono sbarbato, a volte ho i baffi, altre volte una barba che mi sono attaccato con la colla… cosa che a me serve per non annoiarmi, per provare qualcosa di nuovo. Ho imparato dal circo e dalle maschere del teatro di strada che gli attori sono di due tipi: quelli che lavorano dall’interno verso l’esterno e quelli per i quali il “fuori” funge da catalizzatore per ciò che si ha dentro. Io appartengo a questa seconda categoria, il mio aspetto esteriore mi aiuta a trovare qualcosa dentro di me.

BB: Come mai allora in quel periodo della tua vita le maschere ti erano venute a noia e volevi passare davanti alla macchina da presa?

MI: Ero bloccato, non ero molto bravo a teatro, ora posso dirlo, non ero proprio tagliato. A teatro volevano che io andassi dietro le quinte, e l’ho anche fatto, ho fatto il traduttore delle opere che portavamo in scena. Il direttore era un genio, gli ho fatto da assistente per anni e facevo il traduttore al tempo stesso. Ma lui insisteva, che dovevo stare al suo fianco, suggerirgli le cose all’orecchio e poi eventualmente sostituirlo, ma non era la mia strada, quella. Ora lo so, che quello che volevo era fare l’attore. Ho realizzato – e quando sono arrivato ad LA non lo sapevo ancora – che non volevo più lavorare in teatro, mentre quando mi trasferii a Londra facevo proprio quello. Poi ho capito, dopo alcuni mesi, che volevo davvero passare al cinema. E credo sia stata un’ottima decisione per me, perché sono molto più attore di cinema che non di teatro, le mie energie non sono da attore di teatro, sono più a mio agio quando vado a togliere, nel recitare. Sul palco bisogna avere quest’energia che ti permette di arrivare all’ultima fila di spettatori, io non ce l’ho, non ho la voce, il ritmo, né i tempi di un attore di teatro, anche se l’ho fatto per molti anni. Credo di essere decisamente più bravo come attore di cinema.

BB: I produttori di The Human Resources Manager, con i quali abbiamo scambiato due parole in conferenza stampa, ci hanno detto che il film è frutto di uno sforzo corale e che il gruppo ha lavorato molto bene insieme…

MI: Assolutamente.

Copertina de Il responsabile delle risorse umaneBB: Questo sullo schermo appare molto chiaramente, infonde nel film la stessa vitalità che traspare dalle pagine di Yehoshua, e dal lavoro del regista. Quanto di questo lavoro corale è stato influenzato dalla scrittura, e come? Con scrittura intendo non solo il romanzo, ma anche l’ottima sceneggiatura di Noah Stollman.

MI: Su questo dirò due cose. Innanzitutto sulla produzione: sto leggendo un libro in questi giorni… In Russia non molti lo sanno, ma negli anni sessanta e settanta c’era un regista di teatro russo molto famoso, Anatoly Efros, il libro che sto leggendo parla del suo lavoro in teatro. Lo leggevo l’altra sera e due cose mi hanno colpito: la prima è che lui dice che l’arte è magia. Nella sua natura più pura, l’arte è magia. E dice anche che, in teatro come nel cinema, possono esserci quaranta, cinquanta, sessanta, persino cento persone in un gruppo che creano insieme l’arte. E se una sola di queste persone non è in sintonia con le altre, la magia non si avvererà mai. La magia si avvera solo se si crea un unisono. E, anche in quel caso, può non avverarsi mai. E la seconda cosa che volevo dire l’ha detta Fellini, e cioè che gli attori a volte sanno essere crudeli e menefreghisti, che sono come i marinai di Colombo, vogliono solo una cosa: tornarsene a casa. Io credo che questa produzione, invece, volesse davvero scoprire l’America, ci hanno provato, ci abbiamo provato. In questo senso credo che abbiamo fatto avverare la magia fra di noi, e spero che questa magia si traduca sullo schermo. Per quel che riguarda la scrittura, penso che, sopra ogni cosa, Abraham Yehoshua sia un genio assoluto, amo i suoi libri. E invece quando ho letto quello da cui è tratto il film, non ero così entusiasta. Avevo molti dubbi, molte domande, ho dovuto leggerlo un’altra volta e poi una terza. È un libro molto complesso, ci sono dentro questioni politiche e sociali ed anche una filosofia dell’amore, c’è la la morte, c’è Dio e c’è la passione. Nel film la passione è scomparsa dal titolo, ma il libro s’intitola La Passione del direttore delle risorse umane, un riferimento religioso importante. Credo che un buon scrittore crei sempre un mondo, un mondo a più dimensioni; questo libro di sicuro è multidimensionale e, girando il film, ciò mi è stato ancora più chiaro, perché, pur facendo qualcosa di totalmente diverso, pur allontanandoci dagli aspetti filosofici del romanzo, perché non adatti al film, il mondo che Yehoshua ha creato era sufficiente affinché esso decollasse, perché mantenesse tutti gli strati e le dimensioni necessarie a farne un mondo complesso, a creare un altro mondo, in altre parole. Un mondo molto stratificato e con molte possibilità.

BB: Yehoshua ha mai visitato il set?

MI: Una volta. Non so se perché non gli era permesso, o forse a lui non piace andare sul set, ma una volta è venuto ed è rimasto venti minuti, credo sia andato via anche prima che si girasse la scena, non so esattamente perché.

BB: Hai fatto così tante cose nella tua carriera che è davvero difficile ricordarle tutte…

MI: L’ho fatto proprio per mettere in difficoltà voi giornalisti!

BB: Per esempio, hai lavorato con Spielberg e De Niro. Ti rapporti a chiunque nel tuo lavoro nello stesso modo? Quali sono le differenze nel lavorare con Spielberg o De Niro o Riklis?

Mark Ivanir | foto di Giulio DoniniMI: Be’, cominciamo dal paragonare Riklis a Spielberg. Nel film di Eran ho un ruolo importante, quindi il modo di lavorare è stato diverso, perché c’è grande collaborazione e comunicazione. Non è proprio come essere co-autori, perché il film era suo e non mio, ma in ogni caso, la presenza in scena era così importante… Eran è stato fantastico, perché mi ha fatto partecipare, mi ha dato una licenza per creare a mia volta, non mi ha mai fermato. Il che, dal punto di vista del mio ego, è stato grandioso. Con Spielberg l’esperienza è stata molto diversa. In Schindler’s list avevo un bel ruolo, ma non così importante, quindi non posso davvero fare un paragone. Posso dire che l’esperienza con Spielberg è stata interessante. La prima volta, in Schindler’s list, ero davvero inesperto ed ho fatto molti errori. Avevo le mie idee sulla parte e diciamo che ho cercato di impormi un po’ troppo, tanto che Spielberg si è proprio arrabbiato con me. Speriamo che non se ne ricordi più… Anzi, se l’è dimenticato di sicuro, visto che mi ha chiamato per altri due film, dopo quello! Sono stato molto stupido in quell’occasione, ma ero davvero inesperto. Poi ci sono stati gli altri progetti, adesso abbiamo un buon rapporto. Non è che ci sentiamo tutti i giorni al telefono, s’intende, ma se siamo insieme su un set, ecco lui è davvero una persona piacevole. È un regista molto generoso, ti permette di contribuire, che è quello che mi piace fare e piace anche a lui, per cui mi sento proprio a mio agio. De Niro… Non avevo un grosso ruolo nel suo film, ma i cinque giorni in cui ho girato le mie scene sono stati intensi, avevo una scena particolarmente importante, quindi da lui ho avuto un buon feedback, un po’ come quello che ho avuto da Riklis. Penso che dietro ci fosse la stessa determinazione ad avere proprio me in quella parte. Non è affatto banale. Eran non ha scelto un Joseph o un Jacob, ha scelto Mark. Quindi voleva quello che solo Mark può portare e ho sentito che era lo stesso anche nel caso di The Good Shepherd per Bob De Niro, e lo trovo fantastico.

BB: Ho una curiosità: come tutti gli uomini che vivono in Israele – tu sei nato in Ucraina, ma sei cresciuto in Israele – hai fatto un lungo servizio militare e sarai passato attraverso molte esperienze che potrebbero essere materiale interessante anche per il tuo lavoro. Pensi che sia così? Ed è vero che hai ricevuto offerte di reclutamento da parte dei Servizi Segreti del tuo Paese? Ti ha mai attratto quella carriera?

MI: Il servizio militare naturalmente è obbligatorio, almeno lo era negli anni Ottanta quando l’ho fatto io. Non solo era obbligatorio, era anche socialmente inaccettabile non assolverlo, perciò lo facevi e basta. Ed io ero anche contento di farlo, perché avevo diciotto anni e un grande entusiasmo per qualsiasi cosa; che è anche il motivo per cui il servizio militare lo fanno fare ai diciottenni e ai ventenni e non agli uomini di trenta o quarant’anni. Alla fine del servizio militare obbligatorio ho persino pensato di arruolarmi e proseguire la carriera militare. Se i Servizi Segreti mi avessero contattato quando avevo vent’anni, forse adesso sarei un agente del Mossad. Oppure no. Ma lo hanno fatto tempo dopo, ed io quasi subito, appena finito il militare, ho capito quello che volevo fare davvero. Sono diventato un clown e poi un attore. Nel momento in cui queste offerte hanno cominciato ad arrivare, ho risposto “La ringrazio, Signore, ma so già che cosa voglio fare da grande”. Vorrei anche dire che la vita è fatta di cicli. Dicono che ogni sei, sette anni, si muoia e ci si rigeneri diventando qualcosa di diverso. Io credo di avere in me, ora che ho superato i quarant’anni, molte versioni di Mark Ivanir, tutte diverse l’una dall’altra. Sono quello che sta parlando con te adesso, ma c’è un’intera squadra di altri Mark assiepati dentro di me, perciò credo che il Mark militare e tutti gli altri che sono venuti dopo negIi anni non siano lo stesso me che sono adesso. E questo certamente è utile nel mio lavoro.

Una scena del film Il direttore delle risorse umane

BB: Certamente, anche solo perché sai come ci si siede su un carrarmato…

MI: Adoro, della vostra Commedia dell’Arte, lo Zibaldone. Mi piace quest’immagine, c’era il giovane attore, le maschere cambiavano con il cambiare dell’età, poi c’erano i giovani amanti che non indossavano maschere, il Capitano che era un giovane soldato, il Dottore, Pantalone. Così è per gli attori, si passa di maschera in maschera, ognuno di noi ha i suoi attrezzi del mestiere, il suo Zibaldone. Io nel mio ho tutte queste cose.

BB: Un’ultima domanda, poi ti lascio andare… Mi interessa molto il progetto del film Holy Rollers, perché penso sia una storia bellissima, anche se non conosco il regista, Kevin Ash…

MI: Quello era il suo primo film, infatti.

BB: Puoi parlarcene?

MI: È basato su una storia vera relativa agli ebrei assidici di New York alla fine degli anni Novanta In quel periodo, un componente della mafia israeliana di New York ebbe l’idea geniale di usare gli ebrei assidici come corrieri per il traffico di ecstasy fra Amsterdam e New York, dato che a nessuno sarebbe venuto in mente di controllarli. Aveva trovato un ebreo assidico, un religioso che poi però si era dato al crimine e dopo di lui cominciò ad arruolarne altri, che però, a differenza del primo, non sapevano quello che stavano facendo. Era stato detto loro che avrebbero trasportato medicine utili, ma purtroppo illegali a causa di veti da parte della Food and Drugs Administration americana, o qualcosa del genere. Quindi, questi religiosi erano convinti di fare qualcosa per aiutare gli altri. E lo fecero per circa due anni: facevano entrare la droga negli Stati Uniti. Naturalmente, poi, sono stati scoperti ed arrestati. Un produttore americano è venuto a conoscenza di questa storia e ha deciso di farne un film. Ha contattato Jesse Eisenberg, persona fantastica e grande attore, per il ruolo principale. Jesse ha accettato subito perché la storia lo affascinava, poi ha cominciato a coinvolgere i suoi amici nel progetto. Ha chiamato Justin Bartha, un ragazzo fantastico che avrai visto in The Hangover (Una notte da leoni). Poi ha chiamato me perché avevamo lavorato insieme nel film di Richard Gere, The Hunting Party, e siamo diventati amici, quindi mi ha chiesto se volevo fare questo film. “Sì!!!”, dico io. Veramente è andata così, lavoravo a qualcosa a New York, ci siamo visti e mi ha detto: “C’è questo progetto interessante e sto imparando l’ Yiddish”, e io gli ho risposto: “Io parlo Yiddish, lo sapevi?”, “Be’, allora devo proprio dirlo agli altri”. Non ne ho più saputo nulla per un bel po’ di tempo, fino a quando mi hanno chiamato offrendomi la parte del padre del protagonista, un uomo di 55 anni. È stato interessante perché dovevo interpretare un padre e, avendo io due figlie, ho cercato di trasferire le mie esperienze di padre nella vita nel mio ruolo nel film. Non è poi una cosa così diversa, perché si tratta di un padre deluso dal proprio figlio che è uno spacciatore; ho cercato di trovare un modo di relazionarmi a questo attraverso quello che sento quando una delle mie figlie mi delude, anche per piccole cose, ed io mi arrabbio con lei. Ho provato ad usare questa mia esperienza e applicarla al caso macroscopico di un uomo, un religioso, il cui figlio diventa un criminale. C’è una scena che ho amato molto, una scena proprio sul disintegrarsi del ruolo di padre. Spero davvero che a me questo non accada mai.

BB: Lo speriamo tutti…

Mark Ivanir, attore, nasce nell’ex Unione Sovietica nel 1964 ed emigra in Israele nel 1972. Dopo il servizio militare, comincia i suoi studi artistici esercitando la giocoleria e lavora in un circo in Francia. Mark si è laureato presso l’Accademia drammatica Nissan Nativ. Ha lavorato al Teatro Cameri e in alcune produzioni del teatro dell’Opera in Israele prima di unirsi alla compagnia del Teatro Gesher, di cui ha fatto parte per dieci anni. Ha partecipato a numerose serie televisive israeliane, fra cui la famosissima Franco & Spector. Mark ha inoltre lavorato come traduttore di sceneggiature e testi teatrali dal russo all’ebraico. Ha debuttato ad Hollywood nel capolavoro di Steven Spielberg Schindler’s List. Da allora è stato nel cast di serie Tv americane quali 24, Hill Street Blues, CSI e Alias. Fra i numerosi film cui ha preso parte, citiamo The Terminal (2003), sempre di Spielberg, The Good Shepherd (2005) con Angelina Jolie e Matt Damon, The Cutter, Cries from Ramah, Mr. &Mrs. Smith, When do we Eat (2006) con Michael Lerner e, nel 2007, The Hunting Party con Richard Gere.

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