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Cinema

Danis Tanović

Cirkus Columbia

Confessioni da Oscar

È ancora l’assurdità della guerra a fare da protagonista nell’ultimo lavoro di Danis Tanović, premio Oscar nel 2002 per il miglior film straniero con No man’s land, ambientato in una trincea durante il conflitto in Bosnia.

Cirkus Columbia PosterIl regista bosniaco ha inaugurato a Trieste la ventiduesima edizione del Trieste Film Festival con Cirkus Columbia, pellicola ispirata all’omonimo esordio letterario del giornalista croato Ivica Ðikić e presentata anche allo scorso Festival del Cinema di Venezia. Questa volta siamo nell’ex Jugoslavia del 1991 e le vicende dei protagonisti s’intrecciano alle sorti di una guerra che deve ancora iniziare. La violenza è pronta ad esplodere, ma sono in pochi ad esserne consapevoli. La vita in un piccolo paesino dell’Erzegovina meridionale scorre in bilico tra comicità e tragedia imminente, intreccia vicende sentimentali e black humor, tira in ballo appartenenze etniche e vecchi rancori. La caduta del regime comunista e l’elezione di un governo democratico permettono finalmente a Divko (Miki Manojlović), da vent’anni esule in Germania, di tornare in patria assieme alla giovane e appariscente compagna Azra, che non perde occasione di sfoggiare assieme alla sua costosa macchina e alla sua ricchezza. Grazie all’appoggio del corrotto politico di turno e al potere del denaro, sfratterà da casa l’ex moglie e il figlio, salvo poi difenderli nel momento in cui le cose iniziano a precipitare.

L’atmosfera pare quasi sospesa ma gli accadimenti seguono il loro corso, senza che nessuno possa o voglia davvero opporsi alle disgraziate sorti di un Paese che sta per implodere. I toni non sono mai esasperati, il film, pur offrendo ben in vista quegli elementi che porteranno a scenari di morte e distruzione, riesce incredibilmente a conservare una fresca e colorata leggerezza. È la consapevolezza di ciò che sta per accadere a suscitare nello spettatore un senso di turbamento, a dare a quella sottile ma continua tensione un’interpretazione tragicamente sinistra. Accanto alle vicende dei protagonisti, sullo sfondo, mentre cieche invidie e gelosie fomentano giochi di potere e avidità, il film ben tratteggia l’amarezza di un ex sindaco titino e di un militare serbo che non si riconosce nei violenti nazionalismi emergenti, i vicini di una vita che si trasformano in nemici da combattere, due ragazzi che dopo essere cresciuti assieme si ritrovano su fronti opposti.

La pellicola, coprodotta da Bosnia-Erzegovina, Francia, Slovenia, Gran Bretagna, Germania e Belgio, non tocca l’apice raggiunto con il premiato esordio – quel No man’s land che ritraendo paradossi e grotteschi risvolti del conflitto in Bosnia si faceva metafora universale sull’assurdità della guerra – ma è un film emozionante e riuscito, con una sceneggiatura ben dosata, una regia intelligente, una buona fotografia e un cast più che convincente, dove spiccano il grande Miki Manojlović, celebre volto dei film di Kusturica e Paskaljević, affiancato da un’intensa Mira Furlan, nota al grande pubblico per i ruoli interpretati nelle serie televisive Lost e Babylon 5.

“Gli attori non sono per me delle pedine che prendi e poi rimetti a posto, fare un film non è un lavoro statico, in cui segui un copione e finisce là, tutt’altro!” racconta il regista. “Gli interpreti, mentre impersonano il personaggio, lo vivono sulla propria pelle e lo conoscono anche meglio di te. Colgono a volte delle sfumature che un regista, impegnato a tener d’occhio molte cose, non sempre vede. È importante starli a sentire, essere pronti a recepire quando ti portano un valore aggiunto. Tu devi esserci, devi stargli appresso come se fossero dei bambini.”

Domanda (D): Com’è stato in particolare il suo rapporto con il carismatico Manojlović, col quale aveva già lavorato?

Danis TanovicDanis Tanovic (DT): Lui mi piace molto come persona, è stato importante nei miei film. Con Miki abbiamo cambiato un sacco di cose, abbiamo discusso su quasi tutto: è una persona che riflette, che chiede, che propone. Lo apprezzo per ciò che sa portare al mio lavoro. Non è semplice, ma d’altronde a me le cose semplici non piacciono. A lui sta bene il mio modo di dirigere, senza badare troppo a come sono state programmate le scene. All’inizio si pianifica una struttura, faccio uno storyboard, ma poi sono pronto a cambiare tutto in corso d’opera.

D: Quindi ci sono molte cose decise proprio sul set?

DT: Certo, è normale, perché spesso ti accorgi che la situazione non è quella che ti aspettavi, in particolare per quanto riguarda la geografia degli ambienti. Ci può essere uno spazio fisico strutturato diversamente – troppo grande, troppo piccolo – o degli imprevisti che richiedono una soluzione istantanea, come delle condizioni meteo sfavorevoli che ti costringono a girare in interno.

D: Il film ha un impatto emotivo piuttosto intenso, parla dell’inizio della guerra. Immagino che anche gli altri protagonisti, tra cui spiccano diversi nomi importanti, si siano sentiti coinvolti. Come avete lavorato?

DT: Con ciascuno si lavora in modo diverso. A volte occorre essere carini e gentili per non spaventarli o urtare la loro sensibilità, altre devi sbatterli contro un muro e urlargli “adesso mi fa bene questa cazzo di scena o ti prendo a calci nel culo!”, e funziona. Il casino è se sbagli approccio e fai con uno quello che dovresti fare con l’altro, allora sono guai…

È come avere una relazione, ricordando però che gli attori sono bambini: se gli dai troppo ti mettono i piedi in testa, se prendi troppo da loro si spaventeranno e non saranno contenti. La cosa fondamentale resta comunque l’amore, devi amarli, altrimenti è impossibile. Ho amato ogni attore presente nei miei film, se un po’ non ti innamori di loro non funziona. Se ti piacciono, si vede, si sente.

Per me è un inferno girare un film, devi stare a stretto contatto con la gente per due o tre mesi, ti immagini se ti metti a fianco gente che non ti piace? Devi passarci assieme tutto il tempo, tutti i giorni, sarebbe impossibile. Se sei in una città come Trieste, poi, potrebbe anche essere sopportabile, ma prova a pensare se invece ti ritrovi in un posto sperduto nel nulla, in orribili sistemazioni di fortuna, dove non c’è niente da fare, nessun altro posto dove andare, e ti devi alzare alla 4 di mattina per fare le riprese.

Penso davvero che uno debba essere matto per fare questo lavoro, sul serio. Tutti vedono il lato glamour, il fatto che uno vinca un Oscar, ma è un martirio! Per No man’s land abbiamo girato per due mesi nel fango, in condizioni pessime, dovendo ripetere le riprese più volte. Due della troupe sono finiti in ospedale perché dei contatti elettrici sono andati in cortocircuito, sono quasi morti.

Cristina Favento (CF): Credo che molti giovani giornalisti italiani sappiano di che cosa parli quando dici che devi essere pazzo per fare il lavoro che fai…

DT: Devi amare quello che fai, è l’unica. Non è possibile farlo solo per soldi. Anzi, il più delle volte ci rimetti.

CF: Rimanendo sui personaggi, lo stile e l’approccio sofisticato che ha nel film il personaggio di Azra, la giovane compagna di Divko, mi ricordavano le vecchie dive dei film italiani anni Cinquanta. Che idea avevi in mente? È una citazione? Da dove arriva questo tipo di figura femminile?

DT: Molti dei miei riferimenti appartengono al cinema italiano. Nella mia collezione privata di dvd, subito dopo gli americani, la maggior parte dei film che ho sono italiani. E gli americani sono la maggioranza solo perché ne producono decisamente molti di più rispetto a qualsiasi altro Paese. Ho guardato appassionatamente al cinema italiano più o meno fino agli anni ’80, poi non più.

Volevo un film old fashion, non credo ci sia un solo movimento veloce di camera in questo lavoro. C’è un richiamo anche all’atmosfera di alcune città italiane e ho volontariamente calcato la mano su questo perché è qualcosa che amo, che mi riporta alla mia infanzia, forse perché in quel periodo vedevo quel tipo di pellicole.

Se avessi potuto rifare un vecchio film, cosa naturalmente impossibile perché ognuno ha il suo modo e fa le sue cose, sarebbe stato Amarcord. Quell’atmosfera mi è rimasta dentro, ha segnato la mia giovinezza. Non credo sia ancora così per le giovani generazioni di italiani. Anche i miei genitori adoravano quel film. Ma ne vedevamo anche molti altri. Ci piaceva ad esempio Sporchi, brutti e cattivi. Era un tale gusto vedersi alcune scene, le conoscevamo a memoria!

Cirkus Columbia

CF: L’atmosfera del tuo film richiama quella di un piccolo villaggio senza tempo.

DT: Amarcord però, se ci pensi, non è ambientato in un piccolo villaggio…

D: È ambientato a Rimini, anche se ricostruita a Cinecittà.

DT: Ho lavorato all’audio di No man’s land a Cinecittà, accanto alle incredibili scenografie utilizzate da Scorsese per girare Gangs of New York. Uno dei suoi set costa più di un mio intero film (ride, nda)!

CF: Hai detto di aver seguito il cinema italiano fino agli anni ’80, oggi che cosa guardi? Quali sono le cinematografie che ti interessano?

DT: In generale guardo a ciò che succede in giro, quando qualcosa si muove. Magari ci sono delle cose valide anche nel cinema italiano attuale, ma devo dire che non lo seguo molto. Faccio più attenzione a ciò che succede altrove. In Romania, ad esempio, apprezzo ciò che fanno anche se non è il mio genere. Mi piace il cinema asiatico, credo ci siano davvero dei grandi talenti che stanno emergendo a livello di autori. Non vedo film commerciali però, non mi interessano per il mio modo di fare cinema. L’Asia oggi è com’era l’America Latina tre anni fa, quando si producevano film come Amores Perros o l’argentino Il figlio della sposa (El hijo de la novia). Alejandro Iñárritu è un mio amico, adoro le cose che ha fatto e mi piacerebbe facessimo qualcosa di comico assieme. È un vero pessimista.

CF: C’è una protagonista fondamentale nei tuoi lavori: la guerra. Avevamo visto, attraverso i tuoi film, la tua visione del mentre e del post, ora ci hai fatto vedere il pre. Cinematograficamente è stata una tematica molto sentita per te, evidentemente anche perché l’hai vissuta in prima persona. Da adesso in poi? La senti come qualcosa che hai ancora bisogno di esprimere anche nel futuro?

DT: In Triage i personaggi ne parlano, ci sono molte cose che dicono attraverso le quali ho espresso chiaramente il mio punto di vista. Non penso di poter passare oltre a questa esperienza. Puoi imparare come limitarla ma non ne esci mai, diventa parte di te.
Mi piacerebbe proprio girare un meraviglioso Spiderman 16 ma al pensiero non mi scatta dentro niente. Dico sul serio, adoro per esempio l’ultimo Batman, è fantastico, l’abbiamo visto e rivisto con i miei figli. Ma non sono io, non è il tipo di film che potrei fare. Ci sono diversi tipi di cinema e bisogna essere coscienti di quale sia il proprio. Quando ho vinto l’Oscar ho avuto la possibilità di girare negli studios di Hollywood ma ho capito che non avevano niente a che fare con me, non avrei saputo cosa fare lì. È come chiedere a un romanziere di scrivere un manuale, magari il risultato rimane un libro ma sono due cose che non hanno niente a che fare l’una con l’altra.

CF: A volte capita che un autore si senta limitato nel riproporre ciò che lo ha portato al successo, come se fosse una sorta di brand, ma anche un “recinto”…

DT: Credo che i film che ho fatto siano comuque molto diversi. La cosa che amo di più in Kubrick è che guardando i suoi film ogni volta mi chiedo “E questo chi diavolo è?”. Non ti annoia mai, non assomiglia mai a se stesso. Non mi piace trovarmi davanti a qualcosa di scontato. D’altro canto non vorrei essere frainteso perché apprezzo anche i film d’autore, come quelli di Woody Allen ad esempio, dove ci sono delle costanti fortemente caratterizzanti. Mi è capitato di vedere un film americano alla tv pensando “Wow, questo bastardo si è preso un cast stellare e si crede di essere Francis Ford Coppola!”. Alla fine lo era. C’era nel film un’atmosfera che richiamava proprio lui. Capisco a apprezzo chi ha uno stile riconoscibile. Se vai a vedere Spielberg sai già che cosa vedrai. Ma se vado a vedere Kubrick non so che cosa aspettarmi, ed è questo che cerco.

CF: L’aver vinto un Oscar quindi non ha cambiato…

DT: No, no, questo inizio di domanda già non va bene… (ha un tono teatrale, nda) Inizierei col dire che aver vinto l’Oscar ha cambiato tutto nella mia vita. Prova a pensare se vinci il Pulitzer: ti ritrovi su un luna park! Tu puoi anche rimanere lo stesso, ma sarà il mondo a guardare a te diversamente. L’Oscar ha completamente cambiato la mia vita ma non nel modo che gli altri si aspettavano, ovvero che andassi a Hollywood, eccetera, eccetera.

C’è anche una cosa importante da dire: ho vinto nel 2002, l’anno successivo all’attentato delle Torri Gemelle, periodo in cui non mi sentivo proprio tranquillo a vivere in America, non faceva per me. Avevo in mente l’immagine storica degli Stati Uniti, in contrapposizione alla chiusura russa, come di uno stato aperto, della più grande democrazia del mondo, ma questo non è ciò che ho trovato. Ricordo di essere stato invitato là nel 2003, o forse era il 2004, per partecipare ad una conferenza ed ero così ansioso… Era un paese in allerta, che mi faceva sentire spaventato e per niente al sicuro. Poco dopo mi è capitato di andare in Afganistan, uno dei peggiori posti dove potevi capitare al mondo e, paradossalmente, lì mi sentivo più tranquillo. Evidentemente c’era qualcosa che non andava.

Tanovic e il cast

CF: Anche la situazione che hai vissuto nel tuo Paese non era esattamente tranquilla…

DT: Rispetto all’Afganistan la Bosnia era un villaggio vacanze, te lo assicuro.

D: Con riferimento al tuo Paese, il personaggio di Savo, il militare serbo del tuo ultimo film, dichiara di non essere un nazionalista, di credere ancora nel comunismo e di volersene andare dalla sua patria all’estero, perché tutto nel mondo attorno a lui sta rapidamente cambiando. È una posizione simile alla tua? Che cosa ne pensi?

DT: Ho combattuto, sono stato un soldato, ho fatto la guerra. Oggi invece prenderei mia moglie e i miei figli e li porterei lontano da qualsiasi guerra. Non rifarei ciò che ho fatto allora perché ho imparato una verità molto semplice: nessuno vince. Anche se la tua fazione o il tuo Paese vincono, avrai visto delle cose che non vanno viste, avrai fatto delle cose che non vanno fatte. Gente che muore, case distrutte, bambini che piangono, non importano i dettagli, lo sappiamo, una guerra è una guerra. Vedi tutta la merda che non va vista. Ho potuto affrontarlo quando avevo 25 anni, oggi non potrei. Ho dei figli.

Non ne voglio più sapere di Yippie kay yay, motherfucker! (Citazione da Bruce Willis: è una frase che l’attore pronuncia sempre nel film Die Hard prima di un’azione violenta, ndr). Se le vedi da vicino certe cose sono brutte. Non posso capire oggi, sono cambiato da quando ho dei bambini. Quando ero più giovane potevo sparare a caso, potevo uccidere se attaccato. Ora mi rifiuterei. E questo credo sia il modo di fermare la guerra, qualsiasi guerra. So che fa molto John Lennon, ma infondo era un tipo in gamba, molto meglio di Bush, per esempio, o di qualsiasi politico a quel tempo. Per non parlare dei politici italiani…

D: In questo film si racconta di come il proprio vicino o amico d’infanzia possa trasformarsi da un giorno all’altro in un assassino. Hai deciso di raccontare la guerra partendo da storie personali, della tua famiglia, di amici e conoscenti?

DT: Vorrei precisare che non è un atto di accusa. Personalmente chi ha ucciso chi a me non interessa affatto. Lo sai chi ha ucciso gli ebrei durante la seconda guerra mondiale? Beh, i tedeschi. Lo sanno tutti, non occorre affatto raccontarlo. Mi interessa piuttosto capire perché hanno iniziato a farlo. La guerra nell’ex Jugoslavia è stata una guerra fratricida, ma lo sono tutte le guerre. La situazione le paese però è molto, molto complessa.

D: È una guerra in qualche modo “esterna”?

DT: Si, perché è così che è arrivata nelle nostre vite, nella mia. Era qualcosa di distante e poi da un giorno all’altro ti ci ritrovi dentro, come succede nel film. Sapevamo che sarebbe successo qualcosa ma non ti aspetti realmente una cosa del genere. Volevo mostrare proprio questo nel film, perché nella realtà la gente non pensa mai a queste cose, non ci crede veramente, le percepisce come se fossero qualcosa di distante, che non può succedere a te. Stenti a credere che sia possibile anche quando ti sta succedendo.

D: Il film si ispira all’omonimo libro Circus Columbia, come hai lavorato alla sceneggiatura?

DT: Il libro parla di dodici anni in 90 pagine, la sceneggiatura parla di due settimane in 120. Ho preso spunto per due personaggi, ho mantenuto un certo senso dell’umorismo leggermente nero, l’ambientazione in un piccolo villaggio. È tutto, poi il film segue il suo corso. La sceneggiatura è completamente differente rispetto al libro. Mi piaceva l’atmosfera ma non chiedermi perché ho mantenuto il titolo del libro perché non ne ho idea…
Avrebbe dovuto chiamarsi Diecicento (dice sorridendo con finto sospiro facendo riferimento al film Novecento, ndr). Lo avete visto vero il film?

D: Si, lo hanno dato spesso anche in tv.

DT: Meno male che alla tv italiana danno anche queste cose. Noi amiamo la tv italiana: piena di tettone, è una tv da sogno… Anche quando si parla di qualcosa di estremamente serio o ci sono un paio di tizi che litigano urlando, prima o poi vedi sempre arrivare una qualche velina bionda e seminuda… Avremmo dovuto aver anche noi più biondine così alla tv, magari non ci saremmo ammazzati a vicenda! (il tono è evidentemente sarcastico, nda)

Cirkus Columbia

CF: Nel tuo Paese ti sei impegnato politicamente in prima persona, contribuendo a fondare e sostenere un partito indipendente. Com’è la situazione in questo momento? Che cosa ne pensi?

DT: Penso che vorremmo saperlo tutti com’è la situazione. Molto confusa direi. Ci sono appena state le elezioni. L’ultima dichiarazione era una cosa del tipo: “ il prezzo della benzina sta aumentando, e anche quello dell’elettricità, e del gas”. Non abbiamo neanche un governo e tutti parlano di nuovo corso, allora godetevi il nuovo corso! Cosa ti posso dire? Una volta il nostro Paese mi sembrava un’astronave dispersa nello spazio e quando guardavo all’Italia, ad esempio, pensavo che la democrazia fosse molto meglio, ma oggi… L’Italia è fottuta, l’intero mondo è fottuto. Abbiamo perso la bussola. Negli anni Ottanta abbiamo iniziato ad avere la libertà che volevamo, poi negli anni Novanta non abbiamo saputo più che farcene. I politici hanno iniziato a mentire. Se si fossero comportati così vent’anni prima sarebbe stato inammissibile, avrebbero affrontato delle conseguenze.

Oggi mentono e mentono e mentono. Il vostro presidente è incredibile, tutti lo vedono. Se avete un presidente del genere che cosa vi potete aspettare da chiunque altro? I ragazzini vedono questo tizio che può fare ciò che gli pare e non paga niente per ciò che fa. Guarda che cosa hanno fatto col sistema bancario. Dove sono finite la morale, l’etica? Ho l’impressione che si sia tornati indietro, a prima dell’impero romano! Per esempio qui a Trieste passeggio in città e scopro l’antico teatro, mi lascia sorpreso, l’hanno costruito per ascoltare della musica secoli fa. Non credo saremmo capaci di tale bellezza oggi.

Ti chiedi come sia possibile che ci sia in giro certa gente. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che le cose possono andare in malora. Guarda Kabul, lo scorso secolo era una città meravigliosa, da prendere come punto di riferimento culturale. Oggi è polvere. E chi lo saprà? Chi preserverà ciò che c’è stato? Tu vedi queste cose davanti a casa ogni giorno e poi un giorno non ci sono più, collassano. Il sistema può collassare. Ci sono delle involuzioni storiche.

Questo è il motivo per cui sono entrato in politica. La politica non mi piace, né mi vedo come politico, io faccio film. Ma vivo in un Paese dove non ho il diritto di far finta di niente, perché 15 anni fa abbiamo pagato per questo, perché abbiamo finto di non vedere. E allora oggi combatto.

Non penso che abbiate il diritto di chiudere il becco neanche nel vostro Paese. Un giorno potreste svegliarvi e qualcuno vi dirà che il vostro sistema non funziona, e allora vedrete che cosa significa quando non funziona più, è spaventoso.

Tutti pensano che se una cosa è stata là per secoli rimane tale ma non è così, tutto può cambiare da un momento all’altro. La democrazia è instabile. La libertà non è uno spazio costante, si può restringere o allargare. Non c’è questa consapevolezza oggi.

Ci sono posti in cui è possibile ricostruire ma a volte le fratture sono irrecuperabili. La gente a Beirut ha una possibilità, ad esempio, ma non vedo la stessa situazione in Afganistan, francamente non riesco a vedere grandi speranze là. Ci sono stato alcuni anni fa assieme ad altri registi, siamo andati per ricostruire un cinema. È stato il nostro modo per cercare di dare una parvenza di normalità a queste persone. La mia impressione però è stata davvero negativa, ho percepito un senso di profonda devastazione.

CF: Pare una posizione piuttosto disincantata e delusa la tua..

DT: Sto solo spiegando. Cerco di essere realista, ma sono uno che crede. Ho cinque figli, devi essere per forza realistico, e devi essere matto anche. Credo che il mondo sia bello, che la vita sia bella.

CF: Realisticamente, dunque, cosa ti aspetti dall’attività politica che sti portando avanti?

DT: Ho sempre detto che sarebbe stata una strada lunga. Non credo si possano cambiare davvero le cose in breve tempo. E non sono sicuro che ci sarò alla fine del percorso, ma qualcuno deve pur iniziare a correre. È la vita che è così. La gente vuole vedere la fine ma la fine è una cosa noiosa. Per te e per me sarà a uno, a due metri, non ha importanza, non voglio vederla la fine. La vita è correre, e io corro, è tutto qua.

CF: Born to run, come Bruce Springsteen?

DT: Sì, il tempo della vita è il tempo della corsa, non del traguardo.

CF: Questo è forse il motivo per cui ci piacciono i tuoi film.

DT: Forse. Amo sentirmi vivo. Non mi interessa particolarmente stare seduto tra i politici ma credo ce ne sia bisogno. Il presupposto di base sia nel mio fare politica che nel fare film è mostrare un modo per cambiare, per migliorar le cose e avvicinarle a come tu le vuoi. Anche quando insegno ai ragazzi all’accademia il momento più bello è quando qualcosa si accende nei loro occhi e tu sai che hanno capito. Sono grandi momenti.

Cirkus Columbia

CF: Credo sia importante ciò che stai facendo perché ha un significato simbolico, legato alla guerra e alla necessità di ricostruire, anche agli occhi della comunità internazionale, che si è commossa e sentita partecipe mentre ti consegnavano l’Oscar e tu lo dedicavi al tuo Paese.

DT: Penso sia stato importante per dare un modello differente. Le persone possono vedere in me una persona che non si mette a fare politica per diventare ricco o per diventare famoso ma che si mette lì a disposizione perché vuole fare qualcosa per il suo Paese. Io ci provo, per cercare di dare un esempio controtendenza.

È stata un’avventura, sin dall’inizio, abbiamo dovuto imparare tutto. È come venire catapultati nello spazio, devi appena capire come funziona. Sapevo quello che volevo e la direzione in cui bisogna andare ma devi riuscire a tradurlo in pratica. Ho premuto bottoni qua e là per vedere cosa succedeva, come funzionavano le cose. Ora ho il mio partito e stiamo lavorando per impostare le cose a modo nostro. C’è molto che ancora non funziona, molta corruzione, servono un sacco di soldi. La maggior parte dei politici si candida per fare soldi, il mio partito non usa la politica per fare soldi, casomai il contrario, il più delle volte ci autofinanziamo.

CF: È un approccio etico insomma?

DT: Siamo matti, tutto qua.

CF: Il tuo prossimo progetto cinematografico?

DT: Sto giusto finendo di scriverlo ma non vi racconto niente…

CF: Neanche qualche dettaglio?

DT: Se vi dico troppo poi non c’è più l’effetto sorpresa…

CF: Ma ci hai confessato che il tuo modello è Kubrick, un cinema per cui non sai mai che cosa andrai a vedere. Se anche ci racconti qualcosa, di certo ci sorprenderemo lo stesso…

DT: C’è un tizio che dice “ehi, cos’hai da guardare?” e questo è il punto in cui le cose iniziano ad andare male… Ci son sempre problemi quando qualcuno ti chiede cosa stai guardando. Tutta la storia parte da qui…

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