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Cinema

Andrew Standen-Raz

Graffi di vinile nel futuro

Una delle più belle sorprese della sezione Muri del Suono dell’edizione di quest’anno del Trieste Film Festival è stata la proiezione di Vinyl, il documentario di Andrew Standen-Raz’s sulla scena musicale uderground di Vienna. Definire il film una semplice fotografia della scena musicale elettronica nella capitale austriaca sarebbe però fare un torto a quest’opera narrativa esaustiva, completa, sulle odierne correnti di pensiero e artistiche e sulle tendenze musicali più nuove di una città che, letteralmente, non dorme mai.

Andrew Standen-Raz, Vinyl

Standen-Raz ci accompagna in un viaggio dentro le menti più lucide degli artisti viennesi, ci fa conoscere attraverso le parole e le immagini decine di musicisti che raccontano come le influenze del passato, così come quei solchi nel vinile che ancora animano le notti della città, influenzino i movimenti artistici più innovativi e vibranti, illuminando così tutta quanta l’autenticità ed insieme le contraddizioni di questa città e delle sue notti. Abbiamo intervistato Andrew Standen-Raz su Vienna, la sua carriera nel cinema e, naturalmente Vinyl.

Beatrice Biggio (BB): Andrew, parliamo di Vinyl, il documentario che hai presentato nella sezione Muri del Suono, qui al Trieste Film Festival. Come pronuncerebbero il titolo a Vienna, a proposito?

Andrew Standen-Raz (ASR): Forse suonerebbe tipo “Vinul”…

BB: Tu parli Tedesco?

ASR: Be’, l’ho studiato a scuola, non lo parlo benissimo, ma mi arrangio…

BB: Da quanto tempo vivi a Vienna?

ASR: Mah, in realtà ho fatto su e giù per sette anni, e ci ho vissuto più stabilmente negli ultimi tre anni per via di questi progetti di cinema.

BB: Quindi non ti ci sei trasferito definitivamente…

ASR: Sì, adesso sì. All’inizio, però, ci andavo spesso, completamente a caso. E poi… è un posto molto seducente. Molto. Ti entra dentro piano piano e poi, insomma, è arrivata la storia. Un giorno, semplicemente, ho pensato: “Ecco, questa è la storia che voglio raccontare”.

BB: Ecco, perché proprio questa storia? Vienna è una città che seduce, hai detto, e racconta tante storie. Perché proprio questa, perché la musica?

ASR: Inizialmente credo fosse un’idea un po’ pretestuosa, tipo: la musica mette le persone in contatto, è il linguaggio universale… E, come in ogni cosa, è soltanto quando vai a scavare che scopri le tematiche più profonde. Perciò la musica è passata dall’essere un pretesto a significare sempre più per me suono e spazio; ho voluto indagare su come il suono influenza lo spazio e viceversa. Si tratta di un dialogo, come qualcuno dice nel film, del resto. C’è un dialogo fra suono e spazio.

BB: Hai deciso di andare più a fondo dentro la musica, parlando della nuova scena della musica elettronica a Vienna e delle molte influenze del passato sulle nuove tendenze. Il film è giocato tutto su questi due concetti, il vecchio e il nuovo, il vinile e le tracce di questa tradizione rintracciabili nelle nuove tendenze musicali. Come mai hai deciso che lo avresti diretto? Tu sei un produttore, prima di tutto, non sempre curi la regia di ogni tuo progetto. Quali sono le ragioni per cui hai deciso di farlo, stavolta, oltre a fare praticamente anche tutto il resto?

ASR: Giusto! L’operatore, il regista, il montaggio… È interessante: oggi fare un film è molto più semplice che in passato, prima le divisioni fra i diversi ruoli erano più nette, ti specializzavi in un solo settore. E adesso, invece, puoi fare tutto da solo con una telecamera ad alta definizione. Puoi addirittura distribuire un film attraverso Internet, quindi in pratica diventare produttore e regista da un giorno all’altro. Però bisogna avere una storia da raccontare. Ecco perché, in questo caso, ho deciso di mettermi alla regia, produrre il film e infine occuparmi del montaggio e dell’acquisizione dei diritti sulla musica necessaria per qualsiasi documentario. Tutto questo è successo perché sono stato coinvolto profondamente dalla storia. Essendo questo un film artistico, molto più che in altri miei film, essere impegnato su più fronti è stata una precisa dichiarazione artistica. Non si tratta di una raccolta di materiale d’archivio, è un’opera di creazione, in quel modo si diventa davvero autori del proprio progetto.

Andrew Standen-Raz

BB: La cosa che più mi ha colpito di questo progetto è che, da un lato, si tratta quasi di un lunghissimo remix visivo, come se tu avessi voluto trasferire in immagini l’idea di remix nella musica elettronica. C’è il lavoro che hai fatto sulla saturazione dei colori, sulle immagini in fast forward e i flashback, c’è proprio tutto quanto in termini d’immagini. Mi è sembrato come se tu stessi suonando un tuo music set, in qualche modo. Dall’altro lato, c’è invece l’arte, ed è dappertutto, come hai detto tu stesso. Quest’idea l’avevi in mente da subito e si è poi concretizzata mentre giravi, oppure è nata da suggerimenti ed idee successive, in corso d’opera, per così dire?

ASR: È una bella domanda, questa. Credo dipenda dal fatto che ho dovuto affrontare il progetto in modo molto diverso da quello della regia di un documentario, questo perché i musicisti sono naturalmente sospettosi. Sai, il giornalismo documentaristico ha una pessima reputazione, a Vienna poi l’autenticità è importantissima, così come l’essere “cool”. Lì non sono affatto d’accordo con l’approccio “mettiamoci d’accordo”, quindi ho dovuto affrontare la cosa da artista, dir loro: “Sono uno di voi, ho avuto anch’io i miei problemi con i produttori, con l’intero sistema. Voglio creare qualcosa anch’io”. Ho dovuto prometter loro – ed ecco anche perché ho usato la tecnica del time lapse così tanto nel film – che le immagini sarebbero andate di pari passo con la loro musica, ho lavorato tantissimo con loro su questo. Per esempio, magari vedendo una clip, qualcuno mi diceva: “Non sono molto soddisfatto…” – anche se al massimo è successo nell’ 1% dei casi. Io allora rispondevo che avrei fatto il possibile per venirgli incontro, ci riflettevo e cercavo di capire il suo punto di vista. Non ho imposto ai musicisti la mia visione delle cose, perché si tratta della loro musica. Poi ero anche sempre molto consapevole del fatto che io non sono viennese, ma dovevo rappresentare Vienna nel miglior modo, con la maggiore autenticità possibile. Quella è la loro musica, sono stato fortunato che me l’abbiamo fatta usare nel film. Io credo che spesso, nei documentari, ci sia una sorta di sfruttamento, sai. Tu ne giri uno, poi te ne vai e ci guadagni sopra del denaro, a volte ci costruisci una carriera, ma ti lasci indietro il tuo soggetto. Ecco perché per me era importantissimo lavorare insieme ai musicisti, eravamo tutti coinvolti, nel film. Era davvero importante, per me.

BB: Quindi hai avuto un feedback da tutti, a progetto finito?

ASR: Sì, è piaciuto molto a tutti. Però, vedi, in effetti non hanno ancora visto l’ultimissima versione, perché la prima a Vienna non c’è ancora stata, di fatto la versione definitiva è quella che avete visto qui a Trieste. Questa è la versione pre-distribuzione. Ovviamente, poi i distributori potrebbero dire: “Taglia questo, taglia quest’altro…” Dobbiamo ancora lavorarci. Questa è la versione che passerà alla prima viennese, comunque.

BB: A proposito di distribuzione, immagino che si debbano attuare delle strategie al momento di portare il film in giro per il mondo e in particolare ai festival. Non tutti i festival sono uguali, alcuni sono più orientati sull’elemento di commercializzazione dei film. Quanto si sceglie un festival piuttosto che un altro in base alle potenzialità di vendita del film rispetto a quelle di valorizzazione artistica?

ASR: Siamo esseri umani, tutti. Le nostre sono reazioni umane, tutto è più facile quando il film piace, ovviamente. Essere notati, però, è sempre più difficile. Certo, con le nuove tecnologie molte più persone possono fare dei film, ma per i festival questo significa un lavoro sempre più arduo, perché è più difficile gestire tutto il materiale che arriva. Ecco perché è utile avere qualcuno che, dall’interno, ti segnali un buon progetto, si tratta di un passaparola. Del resto, anche quando un film esce in sala, il suo successo è determinato in gran parte da questo. Si viene scelti, ecco, ma se si conosce il sistema, ovviamente, si ha più controllo su tutto. Poi, spesso, ci sono produttori così esperti nel muoversi dentro il sistema da parlare con la gente giusta e… Insomma, dipende. Questo è il primo progetto cui ho lavorato da solo, quindi comunque vada mi ritengo fortunato. Se realizzi un progetto con l’obiettivo di venderlo, se si tratta di una tappa fondamentale della tua carriera, allora è necessario avere un buon piano, delle strategie. Ma per me questo è un film d’arte. Certo, mi piacerebbe guadagnarci del denaro, ma vorrei farlo senza rinunciare a questo, senza dimenticare la natura del progetto.

BB: Hai iniziato la tua carriera facendo l’animatore in stop motion e girando cortometraggi. Come siamo arrivati ad oggi?

ASR: Proprio oggi parlavo con qualcuno che mi chiedeva consigli sul frequentare o meno una scuola di cinema. Io ho fatto quella scelta, ho frequentato la TISCH School of the Arts di New York, che ai tempi era la migliore scuola di cinema, e mi sono laureato lì.  Ma, anche nel cinema, fare è tutto, più si fa e più si impara, più si sbaglia e più si capisce, per poi arrivare alla fine a raggiungere l’obiettivo. Bisogna avere una storia da raccontare, naturalmente. Per questo credo che, forse, io ho iniziato con il piede sbagliato: dopo la scuola, che fra l’altro mi è costata un occhio della testa, ho cominciato a lavorare per alcuni studios negli Stati Uniti, ma non stavo facendo film. Ero sì nell’industria, ma non realizzavo i miei film. Credo quindi che si tratti di saper rischiare, nella vita. Poi, una volta fatto il salto… In realtà sono stato fortunato, perché ho imparato molte cose, ho imparato la tecnica, alla TISCH, all’Università di New York e poi ho avuto modo di imparare quello che non si deve fare, lavorando per molte compagnie e negli studios. Se non hai una storia, però, ecco, meglio lasciar perdere. Credo sia meglio aspettare di avere una storia da raccontare, e solo dopo preoccuparsi di imparare il mestiere.

Andrew Standen-Raz, Vinyl

BB: Torniamo a Vienna e a Vinyl. A proposito di storie da raccontare: stamattina, in conferenza stampa, hai detto una cosa interessante su Vienna, sull’Europa e più in particolare sui Paesi dell’area Centro Orientale. Hai detto che questi Paesi hanno un’identità particolare, che c’è la tendenza a riflettere su sé stessi e sulla propria storia piuttosto che ad inseguire le mode. Questo, in qualche modo, lo si ritrova anche nel tuo documentario, per quel che riguarda la musica…

ASR: Sì, decisamente.

BB: C’è qualcosa che mi sfugge, però. Mi spiego: c’è questa scena in cui un ragazzo, un punk, si arrabbia moltissimo, diventa molesto e subito dopo uno degli artisti che hai intervistato dice, più o meno: “Non sempre è necessario urlare, essere molesti, per far passare un messaggio. Vogliamo ascoltare il silenzio, delle volte”. Lo capisco, e condivido, ma non pensi che questo atteggiamento rischi di portare ad immobilizzarsi, ad essere poi incapaci di agire per cambiare le cose?

ASR: Hai assolutamente ragione. Vedi, io sono inglese, ma sono anche un misto di culture ed eredità diverse, sono in parte native Americano, in parte ho origini Cajun e creole della Louisiana, sono anche per metà irlandese, ho frequentato una scuola privata in Inghilterra. La mia identità è incredibilmente stratificata, ma non è fatta solo di questo. Vedi, se in America la gente non fosse scesa in strada a protestare, forse oggi io non potrei fare questo mestiere, non mi sarebbe permesso così come non mi sarebbe permesso votare, probabilmente. Sarebbe ancora accettabile che io sia costretto a sedermi solo in certi posti sull’autobus o che debba bere acqua alla fontana lontano dai bianchi. Bisogna mettersi a urlare, a un certo punto. Oggi, però, abbiamo un grosso problema con quelli che credono sia giusto farsi saltare in aria per affermare un concetto. Sono gli estremi di quella che è l’espressione della rabbia e della frustrazione, potremmo dire. È importante però anche l’introspezione, guardare dentro sé stessi. Anche nel film, si cita Socrate: “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. Ecco perché penso che si debba riflettere, prima di mettersi a urlare.

BB: Sì, lo credo anch’io. Bisogna avere una base solida per poterci costruire qualcosa.

ASR: Una volta mi trovavo in un caffé e ho sentito queste persone vicino a me che discutevano. All’inizio mi sembrava dicessero delle banalità, quindi me ne stavo lì a guardarli con superiorità, finché una donna ha detto questa frase: “Ma, a pensarci bene, noi ci siamo davvero evoluti?” E allora ho pensato, ecco, questa è la vera domanda che bisogna farsi. Noi crediamo che la storia continui a ripresentarsi in cicli e lo accettiamo, ci diciamo, ok, siamo umani, in fondo, siamo tutti pazzi. La realtà, però, è che abbiamo veramente bisogno di evolvere, quindi per quel che riguarda l’arte, il cinema, i documentari, non si può soltanto mostrare le cose e star lì a guardare meravigliati, bisogna riflettere e chiedersi delle cose. Senz’altro non è facile, nel mio film ho provato a farlo, forse ci sono troppe domande, forse questo lo rende più duro, ma credo sia importante che ponga quelle domande, che ci sia questo dialogo con lo spettatore.

BB: Hai mantenuto qualche contatto con la scena artistica inglese?

ASR: Vedi, non è semplice. Un giorno mi sono svegliato e ho pensato: “Mio Dio, sono diventato un espatriato!”. Ed ero cresciuto con l’idea che gli espatriati fossero lo stereotipo descritto da Jensen nel suo libro sul colonialismo, capisci? E mi sono chiesto: “Ma allora, sono anch’io così? Dio, è terribile!”. Voglio dire, anche nelI’ambito dei festival, c’è spesso questo elemento, sai, presentare un film, per esempio, come un film serbo di un regista serbo, eccetera… Io non rientro in nessuna categoria, sono un inglese di origini miste che presenta un film su Vienna dove ci sono molti artisti viennesi e non solo, sono qua in Italia e poi lo presenterò in altre parti del mondo. Karl Popper – che, ovviamente, era molto influenzato dalla seconda Guerra mondiale – pensava che la musica dovesse essere indipendente, slegata dal nazionalismo. Per me è stato difficile, in alcuni momenti: il film parla della musica Viennese, ma allo stesso tempo la musica è musica, non ha nazionalità, il suono è suono. Alla fine del film, Bernhard Fleischmann dice proprio questo: “Sono soltanto un tizio di Vienna che fa la sua musica, non so cosa s’intenda per musica tipicamente viennese”, lo dice ridendo, perché pensa sia un’idea stupida.

Andrew Standen-Raz, Vinyl

BB: Sei interessato alla video arte?

ASR: Moltissimo. E, in realtà, sono due i progetti ai quali sto lavorando adesso. Uno – l’ho raccontato anche in conferenza stampa – è una costola di Vinyl. Nel senso che, all’inizio, il film era stato concepito come un progetto più ampio, che includeva anche gli aspetti politici e sociali della città, in una sezione intitolata “Linguaggio”. Infatti, penso che anche il linguaggio sia suono nello spazio, perciò si integra perfettamente con il concept del film. Era anche successo che, dopo la morte di Haider, si era appena affacciato a capo dell’estrema destra un tipo ancora più terribile, Heinz Christian Strache, quindi avevamo un antagonista perfetto per il film, come dire. Poi mi sono reso conto che non sarei riuscito a far convivere le due cose, questo film e quello che io chiamo “il figlio bastardo di Vinyl” che s’intitola Vienna – Not everything will be taken into the future (Vienna, non tutto si può trasportare nel futuro). Anche questo è un film su Vienna, è una fetta di spazio e tempo, ma parla anche delle cose che potremmo portare nel futuro oppure no, di tutto quello che vorremmo sopravvivesse nel futuro, e delle cose su cui non abbiamo alcun controllo. Questo secondo film è un po’ l’altra faccia della moneta, parla di ciò che è in superficie, di politica e società, laddove Vinyl si concentrava sull’underground, sull’arte e la musica. Ho anche portato Vinyl all’Austrian Culture Forum (Istituto di cultura austriaca) a York, in Inghilterra, e il direttore dell’Istituto, Andreas Stadler, è un grande sostenitore del film, nonostante il fatto che fra gli austriaci ci sia diffidenza verso uno straniero come me che racconta la loro cultura e soprattutto che lo fa in inglese. Lui invece, ha colto il senso per il suo Istituto di accogliere il film proprio perché in questo modo si amplia il bacino di spettatori, facciamo vedere Vienna a molte più persone. Le cose stanno come stanno, però, e, come dice Suzie Sweet nel film, in Austria c’è una perversione da musica folk. Vienna, quindi, uscirà a breve nelle sale. Per quel che riguarda Vinyl, è nato un altro progetto quando abbiamo fatto una proiezione in una galleria d’arte. Un amico mi ha detto: “Sai, Andrew, potresti tirarne fuori un evento artistico, da questo film”. Tornando a casa, sull’aereo, ci ho riflettuto e nei giorni seguenti ho continuato a pensarci… Così è nata un’installazione che consiste in tre diversi stream video, ho separato le interviste, in bianco e nero, le performance degli artisti, a colori, e le scene di strada, sempre a colori. Le faccio uscire da tre diversi proiettori perché l’idea è quella di entrare in una specie di spazio cubico dove si è circondati dalle immagini in loop tutto intorno, mentre la colonna sonora si sente indipendentemente dale immagini. È come nella vita di tutti i giorni, qui, per esempio, abbiamo i suoni che provengono dalla hall dell’albergo, poi c’è la musichetta insulsa di sottofondo, il vento che soffia fuori, i discorsi della gente che entra ed esce. Tutto questo fa parte del nostro piccolo paesaggio sonoro. Sperimentiamo le cose in modo disconnesso, slegato. Era questa la mia idea per l’installazione, anche lì si vede il film, ma lo si vive in modo diverso, a seconda di quali immagini si stanno guardando e da quale parte le si guarda, della musica che si sente in quel momento, che può essere in sincrono oppure no. Che è un po’ quello che accade nella vita.

BB: Mi interessano molto i nuovi progetti che hai con Onno Ennoson, è vero che ce ne sono di nuovi in vista?

ASR: Sì, ne abbiamo parecchi…

BB: È uno degli artisti che sembrano risaltare di più, nel film, come se aveste in piedi una collaborazione più elaborata…

ASR: Sì, abbiamo diversi progetti… Onno è una persona molto interessante, un grande pensatore, ed è vero che è stato importantissimo nell’influenzare il corso del mio film. Ha realizzato molti progetti su William Burroughs, e ne stava presentando uno al Donau Festival, che si tiene a Krems, in Austria, un bellissimo piccolo festival di musica e arte contemporanea. Mi ha chiamato da lì e mi ha detto che voleva fare qualcosa con me, abbiamo parlato di come potevamo collaborare, lui un artista puro ed io un cineasta, poi abbiamo creato questo sodalizio molto interessante. Il progetto è stato realizzato l’anno scorso e speriamo di poterlo ripetere. Quella con lui è la mia terza collaborazione con artisti austriaci, ormai è qualcosa in cui sono coinvolto, è intorno a me e credo sia interessante vedere come potrò sviluppare anch’io dei progetti come artista.

BB: Ho letto molto in rete su uno dei progetti che hai seguito come produttore che ho trovato estremamente interessante. Sto parlando del documentario su Kathy Acker. Puoi parlarcene? Ho visto soltanto alcuni brevi video, mi piacerebbe sentire qualcosa di più.

Kathy AckerASR: Tu conosci Kathy Acker?

BB: Sì, la conosco.

ASR: Be’, non sono in molti a conoscerla, perciò… sono molto colpito.

BB: Ne ho letto molto per via della mia attività nel campo dei diritti delle donne…

ASR: Ora capisco. Stranamente, ne ho parlato moltissimo oggi, dei diritti delle donne, con una fotografa molto interessante che vive a Trieste, che ha fatto dei reportage bellissimi in Afghanistan, Monika…

BB: Monika Bulaj. È molto brava.

ASR: Davvero molto! Ho preso un caffè con lei al castello di Miramare.Per me, comunque, l’interesse per i diritti delle donne è fondamentale. Per questo stamattina ho chiesto alla regista di Cinema Komunisto in conferenza stampa come mai non ci siano donne nel suo film, e mi sono anche chiesto perché le donne abbiano un ruolo spesso secondario in Cirkus Columbia, il nuovo film di Danis Tanovič presentato qui.  Quando ho avuto l’opportunità di partecipare al progetto Kathy Acker, quindi, ne sono stato entusiasta, perché capisco quali ingiustizie ancora debbano sopportare le donne… Io sono uno che ha dei limiti, ma rispetto molto coloro che spingono i propri sempre più in là. Viviamo tutti spesso dentro una grande ipocrisia, e Kathy, invece ha detto molto chiaramente… ha parlato della strada, dei limiti che ci tengono all’interno delle nostre strade, ha detto che se si oltrepassano quei limiti ci si mette in situazioni molto pericolose, che questa è la ragione per cui tutti vogliono restare dentro quei limiti. La sua vita e i suoi amori sono stati molto difficili. È stata la mia prima collaborazione con un’artista austriaca, quella. Un progetto difficile, controverso. Avevamo molti soldi per realizzarlo, e molto tempo, molte persone che lavoravano con noi. In quel momento non stavo neanche lavorando nel cinema, ho iniziato a collaborare con la regista e mi ci sono trovato coinvolto sempre di più. Barbara Caspar, la regista, è un’artista, in realtà, aveva bisogno di un cineasta, quindi, pian piano, mi sono ritrovato a fare praticamente tutto sul set, ho anche co-prodotto il film, alla fine. La lista dei miei crediti, infatti, è ridicola! C’era anche una questione di identità, non era possibile che fossi io a rappresentare il film, non potevo condividere tutto quanto, quindi si è trovato per me un ruolo che fosse adeguato. La cosa interessante è che ancora oggi continuo ad imbattermi in persone che ho conosciuto attraverso quell film. Una di queste è la vedova di Orson Welles, Oja Kodar, che è croata; con lei avevo negoziato su una clip dal Don Quixote che ci serviva perché Kathy ne ha fatto il soggetto di una sua opera. L’ho contattata, siamo diventati amici, mi ha dato lo spezzone quasi per niente e adesso mi darà anche un altro pezzetto di Orson Welles che è perfetto per il mio Vienna, una citazione meravigliosa. E poi ci sono persone come Lydia Lunch e Nick Zedd. La notte scorsa sono stato ad una festa – dobbiamo pur divertirci, qualche volta, noi che facciamo questo lavoro massacrante – e Marco Bellini, questo dj completamente fuori di testa, proiettava immagini di porno hardcore durante il suo set. Ed io a un certo punto mi sono detto: “Quella faccia la riconosco…”, e naturalmente era Lydia Lunch. Ho incontrato lei e Nick Zedd a New York, perché appartenevano tutti alla stessa scena artistica,e anche Kathy aveva fatto delle cose con il porno, il famoso Blue Tape che facciamo vedere anche nel nostro film. Ho incontrato di nuovo Lydia Lunch l’anno scorso, ho avuto la possibilità di filmarla con una nuova telecamera 7D, un aggeggio fantastico, per un documentario australiano su Nick Cave, dei Bad Seeds. È stato strano, incontrarla e condividere con lei questa cosa di Kathy Acker. Grazie a questa artista austriaca con la quale ho condiviso questo progetto, quindi, mi sono ritrovato a seguire questo filone, che trovo estremamente interessante.

Biografia

Andrew Standen-Raz ha lavorato come ricercatore documentarista, dirigente di studi cinematografici e produttore. Ha co-sceneggiato e co-prodotto il documentario Who’s Afraid of Kathy Acker? per ARTE. Ha collaborato con moltissimi artisti austriaci alla creazione di installazioni video.  Vinyl: Tales from the Vienna Underground è la sua prima regia.

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