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Arte

Lontano dal fallimento della cultura europea

I viaggi di Aby Warburg e Antonin Artaud nell'America dei nativi

Indiani Pueblo del New MexicoNon sono molte le affinità tra Aby Warburg e Antonin Artaud. Il primo è considerato uno tra i più illustri storici dell’arte rinascimentale, il secondo un artista poliedrico che si occupò di teatro, cinema e pittura. Tuttavia, queste due figure del Novecento europeo hanno in comune la fuga da una cultura che sembrava stagnare su idee vecchie e consumate. Entrambi scelsero l’America. Warburg si recò, nel 1896, in New Mexico, nel Sud degli Stati Uniti. Quarant’anni dopo, nel 1936, Artaud sentì l’urgenza di vedere da vicino la Rivoluzione che in quegli anni stava scoppiando in Messico. Sebbene, come vedremo, gli scopi dei viaggi fossero differenti, sia l’uno che l’altro condividevano una visione critica della cultura occidentale, colpevole di aver voluto sottomettere la vita alla Ragione.

Warburg e il rituale del serpente: un viaggio verso il simbolo

Sin dall’inizio dei suoi studi, Warburg accettò la tradizionale definizione di Winckelmann della classicità dell’arte antica come “placida grandezza”. Questa “nobile semplicità” e bellezza ideale che lo studioso coglieva nell’arte greca si ritrovava, secondo Winckelmann, anche in alcuni artisti del Rinascimento. Ma se l’ideale dell’arte è caratterizzato dalla calma e dalla serenità, ciò implica un radicale rifiuto del pathos, considerato di “volgarissimo gusto” dallo stesso studioso.
Da parte sua, invece, Warburg voleva dimostrare, attraverso i suoi studi sul Quattrocento fiorentino, che la “placida grandezza” di cui avevano parlato Winckelmann e la tradizione non potevano costituire l’unico fattore caratteristico dell’arte classica. Nel saggio dedicato alla Nascita di Venere e alla Primavera di Botticelli[1], Warburg afferma che gli artisti del Rinascimento vedevano negli antichi un modello, soprattutto quando si trattava di raffigurare il movimento di un corpo o di vesti e capelli (elementi definiti non a caso da Warburg come Pathosformeln, ovvero “formule di pathos”). Il movimento è, infatti, una manifestazione del pathos, un elemento dal quale non si può prescindere per mostrare la “parvenza di una vita intensificata”. Nei suoi saggi Warburg sottolineò soprattutto che l’ideale dell’arte non risiede solamente nella staticità apollinea, della quale Winckelmann era fervente sostenitore, ma sembra trovarsi, piuttosto, in un vero e proprio equilibrio tra una dimensione “apollinea”, o formale, e una dimensione “patica”, o spirituale.

In definitiva, Warburg non intendeva capovolgere l’estetica di Winckelmann, ma fare un passo ulteriore cercando di analizzare ciò che lo storico aveva precedentemente rifiutato: il pathos. Non è un caso, infatti, che l’opera di Warburg s’intitoli proprio La rinascita del paganesimo antico, poiché alla quiete della bellezza si accompagna la traccia del pathos antico.

Warburg sosteneva che i pittori del Rinascimento italiano si servissero del modello dell’Antico per raffigurare non solamente la staticità apollinea, ma soprattutto per rendere la necessaria dimensione dionisiaca, palesando come all’interno di ogni immagine si stratificassero e si depositassero significati sempre diversi. Riprendendo la nozione di tragico che Nietzsche elabora ne La nascita della tragedia, la teoria dell’immagine warburghiana insiste particolarmente sul fatto che è proprio grazie alla dimensione dionisiaca che un’opera d’arte fa emergere, dalle sue forme apollinee, infiniti significati.

Come si può notare, l’indagine warburghiana sull’immagine non può essere assimilata a una “psicologia” o “psicoanalisi” dei popoli, come quella proposta da Carl Jung. Questi aveva trovato nella nozione di “archetipo” le idee assolute che fondano ogni civiltà, riconoscibili in ogni mitologia e tradizione religiosa. La Pathosformel, invece, non attende di essere applicata di volta in volta e sempre allo stesso modo.

La lettura di Warburg in senso junghiano deve essere di fatto ascritta a Saxl, il quale ha ridotto il concetto di Nachleben warburghiano all’archetipo, intendendolo come “continuità atemporale” che si ripresenta come revival. Sempre Saxl, a proposito del viaggio in Nuovo Messico, afferma che “si deve in parte alle esperienze di Warburg in territorio indiano, dove aveva cominciato a comprendere il significato della simbologia del serpente e della sua capacità di sopravvivenza, se egli divenne lo storico di quelle immagini simboliche che il mondo antico aveva creato, e che sopravvivono nell’Europa moderna”[2].

Saxl, dunque, interpreta il viaggio di Warburg come un viaggio verso gli archetipi. Leggendo, però, il testo della conferenza sulla sua esperienza in Nuovo Messico, che lo stesso Warburg tenne molti anni dopo, scopriamo che in realtà le intenzioni erano diverse. Ciò che lo interessava come storico della cultura era come, in una nazione quale gli Stati Uniti, che “aveva fatto della cultura tecnica un meraviglioso strumento di precisione nelle mani dell’uomo d’intelletto”[3], si fosse potuta conservare un’umanità pagana primitiva.

Nonostante le contaminazioni dell’educazione ispano-cattolica, nelle popolazioni degli Indiani Pueblo esistevano ancora numerose relazioni tra uomo e natura. La scarsità d’acqua dei territori del Nuovo Messico, dove vivono i Pueblo, ha portato in queste popolazioni il culto animistico per il serpente. Questo animale è il simbolo della pioggia e la forma più evidente di tale culto animistico – capace cioè di animare la natura – è la danza mascherata con i serpenti vivi a cui lo stesso Warburg aveva assistito.

A questa domanda Warburg cercò di rispondere durante il suo viaggio. Il serpente, con la sua tipica raffigurazione “a saetta”, è connesso in maniera magico-causale con il fulmine. Warburg spiega come sia fondamentale per i Pueblo l’immedesimazione con la natura, proprio ai fini della sopravvivenza. Per questo motivo, in agricoltura, nella caccia ma anche nella danza, essi sono soliti mascherarsi credendo di assicurarsi, attraverso una misteriosa metamorfosi mimetica, la preda o il raccolto. Dunque, è evidente secondo Warburg che il dispositivo sociale per procurarsi la propria sopravvivenza non è scisso come nella cultura moderna. Negli Indiani Pueblo, magia e tecnica convivono. Essi si trovano, di fatto, “a metà fra magia e logos” e lo strumento con il quale si orientano è il simbolo. In altre parole, tra gli uomini predatori e gli uomini razionali si collocano gli uomini che operano connessioni simboliche.

L’uomo moderno non ha più bisogno del serpente per riuscire a comprendere il fulmine. La spiegazione scientifico-razionale ha sostituito completamente ogni causalità magica; l’americano moderno non teme il serpente a sonagli. Lo caccia e lo stermina, ma sicuramente non lo adora:

Il fulmine imprigionato nel filo, l’elettricità catturata, ha creato una civiltà che si allontana dal paganesimo. Ma cosa mette al suo posto? Le forze della natura non sono concepite come entità biomorfiche o antropomorfiche, bensì come onde infinite che obbediscono alla pressione della mano umana. In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza, scaturita dal mito, aveva faticosamente conquistato, la sfera della contemplazione che crea spazio al pensiero[4].

Come possiamo dedurre da quest’ultimo passo della sua conferenza, Warburg non si recò in Nuovo Messico per tornare alle origini dell’umanità. Egli non parla del serpente come di un “archetipo”. Ciò che intendeva sottolineare con il suo viaggio è che in popolazioni in cui si conservano ancora il simbolo e il mito, come nel caso dei Pueblo, si conserva di conseguenza una visione della vita come pathos, cioè della vita nella sua tragicità. L’uomo moderno, al contrario, ha dimenticato tutto questo in favore di una cultura che Artaud definì – come tra poco vedremo – fondata sull’intellettualismo elitario e sul razionalismo analitico, privata di ogni connessione tra realtà e magia. Per questo motivo Artaud sentì il bisogno impellente di raggiungere le fonti primitive che, secondo lui, la rivoluzione aveva risvegliato negli animi dei messicani.

Comunità Pueblo nel Nuovo Messico

Antonine Artaud: Sono venuto in Messico per fuggire la civiltà europea…

Dopo il fallimento del suo spettacolo I Cenci, che lo aveva disilluso definitivamente, Artaud sentì il desiderio di un cambiamento radicale. In alcune lettere a Jean Paulhan, egli dichiara di aver sentito parlare di “una sorta di movimento sotterraneo, in Messico, a favore di un ritorno alla civiltà pre-cortèsiana”[5]. Artaud era fermamente convinto che la cultura non si trovasse nei libri, nei quadri, nelle statue, nelle danze; piuttosto, questa si trova nei nervi e nella fluidità di questi, negli organi, in una sorta di “mana che dorme e che può mettere lo spirito immediatamente nell’attitudine di ricettività più alta”[6]. Secondo Artaud, la civiltà pre-cortèsiana possiede basi Metafisiche, che si esprimono nella religione e in un totemismo attivo. In Messico, Artaud pensava di trovare direttamente l’idea di teatro che aveva in mente, e che avrebbe poi riportato nell’opera Il teatro e il suo doppio. Nel Manifesto del Teatro della Crudeltà, infatti, Artaud proponeva una forma di teatro ispirata alle rappresentazioni cinesi, indiane e balinesi, in cui l’immagine scenica, il gesto, il movimento prendono il sopravvento sul testo scritto. Artaud, tuttavia, teneva a sottolineare che la parola non veniva assolutamente disprezzata, ma veniva presa allo stato concreto, per il suo “valore vibratorio” e “sonoro”.
Nella lettera al ministro della pubblica istruzione messicano, Artaud dice:

Su altopiani perduti, interrogheremo guaritori e stregoni, e speriamo di farci dire dai pittori, dai poeti, dagli architetti e gli scultori che possiedono la realtà completa delle immagini che hanno creato e che li trascinano. Perché il segreto dell’alta magia messicana è nella forza dei segni creati da coloro che, in Europa, chiameremmo ancora artisti e che, nelle civiltà evolute e che non hanno perso il contatto con le fonti naturali, non sono che gli esecutori e i profeti d’una parola in cui periodicamente il mondo deve andare ad abbeverarsi. Il Messico può ancora insegnarci il segreto di una parola e di un linguaggio in cui tutte le parola e tutte le lingue si riuniscono in un tutto unico. [7]

Secondo l’artista francese, la Conquista spagnola ha distrutto da un giorno all’altro i miti della cultura messicana, spegnendo gli dèi che erano in via di trasformazione. Ciò nonostante, gli Indios custodiscono in loro il ricordo della loro antica, soprannaturale cultura che coincideva con la vita stessa: “La civiltà degli Indios – dice Artaud – non può essere separata dalla cultura, e la cultura dal movimento stesso della vita”[8]; tutto questo, però, l’uomo occidentale non sa comprenderlo perché ha dimenticato cosa sia “il fuoco mormorante di vivere”.

Artaud aderì al movimento surrealista fino al 1926. Nella conferenza tenuta a Città del Messico il 26 febbraio 1936, Artaud spiega cosa rappresentava per lui il Surrealismo, nato da una disperazione e da un disgusto della gioventù francese nei confronti di una cultura basata sui libri e di una società fondata sulla coercizione. Questo movimento di rivolta culturale sposava gli obiettivi essenziali del marxismo ma soprattutto affondava la stessa rivolta nell’inconscio: “Perché […] l’inconscio è fisico, e l’illogico è il segreto di un ordine in cui si esprime un segreto di vita”[9]. Il Surrealismo, dunque, si faceva beffa della ragione e gli artisti che vi aderirono presentirono una conoscenza delle profondità occulte dell’Uomo, perduta da prima del Tempo. Tuttavia, quando il movimento aderì formalmente al partito comunista francese, Artaud lasciò definitivamente, deluso dal fatto che il Surrealismo stesso fosse divenuto un partito. A questo proposito, infatti, Artaud parla di una conoscenza della geografia interiore dell’uomo, che il materialismo dialettico ha paura di esplorare. Secondo l’artista, infatti, la vera cultura non ha timore di nessuna geografia, nemmeno se questa porta alla ricerca di continenti inesplorati dove ribolle l’immaterialità della vita. Per questo Artaud pensava che ci fossero luoghi predestinati a far sgorgare fonti di vita, come il Tibet o il Messico.

Non sappiamo se Artaud avesse letto gli studi di Warburg sul Rinascimento; tuttavia, egli affronta in più occasioni gli stessi argomenti, per esempio nella conferenza L’uomo contro il destino, pronunciata il 27 febbraio 1936 a Città del Messico; ma soprattutto è nel saggio intitolato La giovane pittura francese e la tradizione che Artaud, parlando della pittura del Rinascimento, esprime le sue opinioni riguardo gli Antichi e la loro arte. In questo saggio egli afferma che contrariamente a quanto si insegni nei manuali, la pittura rinascimentale ha rotto con la tradizione sacra universale per cadere sotto la dominazione aneddotica e descrittiva della natura e della psicologia, cessando in questo modo di essere un mezzo di rivelazione. Al contrario, nella pittura primitiva, Artaud ritrova la “manifestazione soprannaturale d’una scienza”, la “vibrazione dell’anima”, i “profondi sforzi dell’Universo”[10].

Scultura di Luis Ortiz MonasterioIn un articolo del 5 luglio 1936, Artaud dichiara le motivazioni che lo hanno spinto ad intraprendere il suo viaggio. Tra le più importanti c’è sicuramente quella di trovare una nuova idea di Uomo. Egli ritiene, infatti, che solo in Messico si può coltivare un uomo diverso, capace cioè di riconoscere quelle “forze sottili che non appartengono ancora al mondo della scienza” [11], ma al regno animista che si conosceva nei tempi pagani. Si tratta, insomma, di una vera e propria resurrezione del vecchio e sacro paganesimo sotto una forma non più religiosa ma scientifica.
Tuttavia, Artaud rimase probabilmente deluso dalla sua esperienza in Messico: “Speravo di trovare qui una forma vitale di cultura, e non ho trovato più che il cadavere della cultura dell’Europa” [12], dice l’artista francese. Il giovane scultore Monasterio, secondo Artaud, fa vedere nelle sue opere che egli ha sofferto l’oppressione intellettuale del Messico e fa sentire che dalle sue pietre tagliate qualcosa è in gestazione; tuttavia, la forma è contaminata dagli studi accademici parigini. La scultura francese moderna, infatti, aveva esasperato fino all’imitazione servile l’influenza della scultura negra riscoperta all’inizio del secolo. Monasterio, dunque, imitando la scultura francese, che imitava la scultura negra, imita a sua volta la scultura delle origini, riscoprendo, in tal modo un’ispirazione atavica che si era purtroppo assopita. Tuttavia, questo giovane artista, secondo Artaud, non riesce con le sue forme a rievocare del tutto quei misteri insondabili che gli antichi artisti del Messico sembrano aver scrutato, che invece è il merito di un artista come Maria Izquierdo.

Artaud sperava di trovare in Messico la sola civiltà che ancora si mantenesse in contatto con le fonti della cultura primigenia. Egli cercava il rito in quanto, attualizzando il mito, gli donava concretamente il tempo e lo spazio; ma soprattutto egli cercava il gesto, l’unico che può realizzare il magico dell’anima attraverso il corpo. Egli sentiva l’esigenza di un nuovo linguaggio del teatro, fatto di gesti, movimenti, luci, parole. Per questo il teatro doveva, secondo Artaud, ritornare alla precisione del rituale. Per fare ciò, la parola avrebbe dovuto tornare alla sfera del sacro, in cui i livelli del mito (la storia) e del rito (l’azione) si compenetrano in un nuovo presente.

Note

[1] A. Warburg, La «Nascita di Venere» e la «Primavera» di Botticelli, in La rinascita del paganesimo antico e altri scritti, Aragno, Torino 2004.

[2] F. Saxl, La visita di Warburg nel Nuovo Messico, in Aut Aut (199-200), Milano, gennaio – aprile 1984, p. 13.

[3] A. Warburg, Il rituale del serpente, in Aut Aut (199-200), Milano, gennaio – aprile 1984, p. 18.

[4] Ivi, p. 39.

[5] A. Artaud, Messaggi rivoluzionari, Monteleone, Vibo Valentia, 1994, p. 16.

[6] Ivi, p. 17.

[7] Ivi, p. 23.

[8] Ivi, p. 42.

[9] A. Artaud, Surrealismo e Rivoluzione, in Messaggi rivoluzionari , op. cit., p. 59.

[10] A. Artaud, La giovane pittura francese e la tradizione, in Messaggi rivoluzionari , op. cit., p. 127.

[11] A. Artaud, Ciò che sono venuto a fare in Messico, in Messaggi rivoluzionari , op. cit., p. 136.

[12] A. Artaud, Sono venuto in Messico per fuggire la civiltà europea…, in Messaggi rivoluzionari , op. cit., p. 159.

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