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Arte

Merleau-Ponty, la pittura come creazione

Il problema del senso nell'arte di Cézanne secondo il filosofo francese

Maurice Merleau-PontyMaurice Merleau-Ponty può essere considerato, insieme con Sartre, uno dei principali esponenti del Novecento francese, secolo in cui l’esistenzialismo ha messo in rilievo come uno dei tratti essenziali dell’uomo fosse l’essere-nel-mondo. Solo Merleau-Ponty, però, ha avuto il merito di proporre un’ontologia dell’uomo, in grado di giustificare la figura fenomenologica dell’essere-nel-mondo.
L’essere, ossia l’essenza, il senso, oltre che nella forma verbale, nella riflessione di Merleau-Ponty si concretizza solo nella dimensione artistica. Linguaggio e pittura, quindi, vengono ricondotti entrambi sotto la categoria dell’ “espressione creatrice” e visti come mezzi attraverso i quali il “non-ancora-essere” viene ad espressione.
La pittura è intesa da Merleau-Ponty come creazione in quanto non rappresenta il mondo sensibile ma lo presenta e, così facendo, lo crea “sempre di nuovo”. Diciamo “sempre di nuovo” perché la pittura, pur non rappresentando il mondo ma presentandolo, comunque non lo fa mai una volta per tutte e in maniera definitiva: il mondo viene continuamente creato ogni volta che il pittore pone mano a una tela e ogni volta che il fruitore si immerge completamente in essa, trascendendo così il principium individuationis. Il processo artistico, e la pittura in particolare, richiede un superamento del paradigma soggetto-oggetto: un soggetto che, abdicando a sé e ponendosi nella posizione di chi guarda l’opera, così come da essa è guardato, entra in comunicazione con l’opera stessa. Si produce dunque un tutt’uno tra quest’ultima e chi la osserva, si crea un intreccio, un “chiasma”.

L’opera d’arte cerca di dare forma al mondo sensibile: una forma e non certo la forma. Così lo fa apparire, ovverosia lo manifesta nel visibile della forma artistica. In tal senso, secondo Merleau-Ponty, non solo non si riduce a una raffigurazione del mondo esterno, ma si dà come quel mezzo che permette al suo creatore di poter dialogare con esso, consentendo che possa parlare attraverso di lui. Le cose mute del mondo parlano attraverso l’artista e grazie alla forma che egli concede loro. Come avviene, però, questa autentica trasformazione? Così Merleau-Ponty si esprime ne Locchio e lo spirito: “Il pittore  ‘si dà con il suo corpo’ dice Valery. E, in effetti, non si vede come uno Spirito potrebbe dipingere. È prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura. Per comprendere tali transustanziazioni, bisogna ritrovare il corpo operante ed effettuale, che non è una porzione di spazio, un fascio di funzioni, che è un intreccio di visione e di movimento” [1].

Il pittore, o l’artista in genere, si dà con tutto il suo corpo e così lascia che il suo spirito si immerga completamente nell’Essere del mondo che lo circonda. Immergendosi in esso coglie la sua reale essenza, la quale trova compimento solo sulla tela, quando la mano di quest’ultimo, muovendosi senza alcuna guida razionale, lascia parlare quelle cose mute che vorrebbero farlo ma non possono. Il pittore, dunque, rende visibile ciò che senza di lui non avrebbe accesso alla coscienza, il suo potere creativo viene dalla capacità del corpo vissuto di trascendersi verso il mondo e verso gli altri soggetti. Nella pittura, quindi, si dà il dispiegarsi del “senso del mondo”, che non deve essere inteso come la riproduzione o la traduzione di un qualcosa di già dato, ma come la metamorfosi di esso. Allo stesso tempo, la pittura non si riduce a uno sterile incontro fra l’artista e il mondo, dove l’uno se ne sta separato dall’altro: mondo e arte non sono separati, ma trapassano l’uno nell’altro per il tramite del corpo.

Secondo il punto di vista di Cézanne, ad esempio, dipingere equivale a render manifesto il senso del mondo, presentandolo come se fosse la prima volta, “dimenticando tutto quello che c’è stato prima di noi”. Ecco perché non si può parlare di una riproduzione, ma di una nuova produzione su tela. Alla base di tutto ciò, vi è la persuasione dell’artista secondo cui il senso non si dà mai una volta per tutte e definitivamente, ma si rende manifesto ogni volta che egli lascia che il mondo parli. Il senso del mondo si dà nella forma dell’opera artistica, per mezzo del lavoro non logico e irrazionale dell’artista che trascende il principium individuationis, o principio di realtà: “Più che essere espresso dal quadro, il senso impregna il quadro”[2].

Cézanne dipinge il mondo allo stato nascente, crea mettendosi costantemente nell’atteggiamento del primo uomo che dipinge, perché la natura che ha di fronte è come se fosse sempre al primo giorno. “Cézanne ritorna all’esperienza primordiale”, come afferma Mauro Carbone in Ai confini dell’esprimibile [3]. Nei suoi quadri, il disegno risulta dal colore e la disposizione dei colori reca in sé il “Tutto indivisibile”. In tal modo, il mondo vissuto è reso nei termini di un organismo di colori, attraverso i quali la fuga della prospettiva, i contorni, le rette e le curve, si dispongono come linee di forza, e la dimensione spaziale si costituisce vibrando.

Cézanne - Natura morta con mele (1896)

Cézanne rende il contorno degli oggetti grazie alla ricca ambiguità dei colori e non con la precisione della linea, perché ha di mira il mondo visibile, non l’universo geometrico. Se si segna con una linea il contorno di una mela, la si rende una mera cosa; Cézanne, invece, vede nel contorno il limite ideale verso cui i lati della mela fuggono in profondità. D’altronde, non segnare nessun contorno significherebbe togliere agli oggetti la loro identità. Segnarne uno solo, significherebbe sacrificare la profondità, ossia la dimensione che ci dà l’oggetto, non come esibita davanti a noi, ma come piena di riserve di significato e come realtà inesauribile. Ecco perché Cézanne seguirà in una modulazione colorata il rigonfiamento dell’oggetto e segnerà a tratti turchini numerosi contorni. Lo sguardo, rinviato dall’uno all’altro, avverte un contorno nascente tra tutti loro come fa nella percezione.

Cézanne, dunque, non svilisce l’identità delle cose che dipinge una volta poste sulla tela; al contrario, egli, attraverso il quadro, mostra la loro vitalità e il loro Essere. Ma perché il pittore, o l’artista in genere, sente il bisogno di manifestare l’invisibile del mondo attraverso il visibile dell’arte? Ebbene, il bisogno nasce da una strana eco che viene risvegliata in lui dalla natura, la quale si annuncia chiedendo di essere ascoltata. Afferma Merleau-Ponty: “Qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risveglino un eco nel nostro corpo, perché esso li accolga”[4].

Il corpo, quindi, risponde alla chiamata della natura e nel rispondere a essa già le rende giustizia, perché accoglie la sua richiesta di “voler parlare”. L’artista dinanzi alla natura non si pone nella posizione di colui che la vede, bensì di colui che la guarda. C’è così una differenza tra “vedere” e “guardare” (nel senso di concedere uno sguardo). A partire da questa stessa distinzione, lo psicoanalista e filosofo francese Jacques Lacan parlerà di una “schisi fra occhio e sguardo”. Egli mostra la distanza, o profondità, che separa l’organo dell’occhio e il suo funzionamento, dall’evento dello sguardo. L’occhio implica una distanza tra colui che guarda e la cosa guardata, mentre l’artista che concede uno sguardo alla natura fa tutt’uno con essa, e non è più possibile parlare di un soggetto che guarda e di un oggetto guardato.

Si viene a creare quel fenomeno che Merleau-Ponty definisce “chiasma”, mentre la visione dell’occhio, inteso come organo, si addice al caso in cui l’individuo sta di fronte a una cosa e la osserva restando separato da essa. Se, dunque, da una parte, l’occhio implica il paradigma soggetto-oggetto, dall’altra lo sguardo fa sì che colui che guarda venga assorbito dalla cosa guardata, e questo vale non solo per l’artista che crea ma anche per lo spettatore. Al riguardo, afferma Merleau-Ponty: “Giacché non lo guardo come si guarda una cosa, non lo fisso lì dove si trova, il mio sguardo erra in lui come nei nimbi dell’Essere, più che vedere il quadro, io vedo secondo il quadro o con esso”[5].

Lo spettatore dinanzi ad un quadro fa tutt’uno con esso, per cui non si può parlare dello spettatore che “guarda il quadro“, piuttosto egli “vede secondo il quadro o attraverso di esso”. Ecco perché “la parola immagine ha una cattiva fama”. In questa direzione, Merleau-Ponty parla di una “quasi eternità” o di una “eternità provvisoria” dell’arte, concepita, appunto, come una ripresa creatrice della natura. La realizzazione mai definitiva di un senso invisibile ed indicibile, per mezzo della forma, non deve condurre, per Merleau-Ponty, a un atteggiamento di resa da parte di colui che dipinge o che è fruitore di un quadro. Così infatti l’autore conclude Locchio e lo spirito[6]:

…è tutto qui? Il più alto grado della ragione è dunque constatare questo smottamento del terreno sotto i nostri piedi, il chiamare pomposamente interrogazione uno stato di stupore continuo, ricerca un percorso in circolo, Essere quel che non è mai completamente? Ma questa è la delusione del falso immaginario, che reclama una positività per colmare perfettamente il suo vuoto. È il rimpianto di non essere tutto. Rimpianto che è anch’esso infondato. Giacché se non possiamo, né in pittura, né altrove stabilire una gerarchia di civiltà, né parlare di progresso, non è perché un qualche destino ci trattenga indietro, ma perché in un certo senso, la prima pittura andava già sino al fondo dell’avvenire. Se nessuna pittura particolare porta a compimento la pittura, se nessuna opera d’arte è mai pienamente compiuta, allora ogni creazione cambia, altera, chiarisce, approfondisce, conferma, esalta, ricrea o crea in anticipo tutte le altre. Se le creazioni non sono un dato acquisito, non è solo perché passano, come tutte le cose, ma perché hanno pressoché tutta la loro vita dinanzi a sé.

 

Cézanne - La montagna Sainte-Victoire

Vi è un nesso inestricabile fra il guardare e l’essere guardato, nesso che rivela che la visione attuale del vedente è un qualcosa che lui subisce a opera delle cose viste. Tutto ciò è attestato dalle dichiarazioni di molti pittori, i quali hanno ammesso di essersi sentiti guardati dalle cose nell’atto di dipingerle e di essersi sentiti trasportati in esse, in una situazione in cui attività e passività sono intrecciati inestricabilmente l’una all’altra. Tra i pittori citati da Merleau-Ponty, oltre Cézanne (il cui caso della montagna di Sainte-Victoire è emblematico, tanto che lui stesso affermava “La montagna mi guarda!”), abbiamo Matisse, Klee e Marchant: “Ecco perché i pittori hanno sovente amato […] raffigurare se stessi nell’atto di dipingere, aggiungendo a quel che allora vedevano ciò che le cose vedevano di loro, come a testimoniare che esiste una visione totale o assoluta al di fuori della quale niente rimane, e che si richiude su loro stessi” [7]. La tela del pittore è come se si voltasse indietro per ricercare il senso dal quale proviene, senso che spinge il pittore a “interrogare” il mondo, dopo che è stato interrogato da esso, e che fa della tela stessa non una rappresentazione del mondo, ma una manifestazione o una presentazione di esso “quasi-eterna”.

L’eterna incompletezza dell’opera artistica, o il non-darsi mai completamente del silenzio nella parola, non sono la “delusione di un falso immaginario” o il “rimpianto di non essere tutto”, ma l’esplicarsi del fatto che “le creazioni non sono un dato acquisito”, perché anch’esse si danno nel tempo e, in tal senso, subiscono metamorfosi. Per questo si parla dell’opera d’arte come un tutt’uno tra il quadro e il senso che esso porta con sé, per cui, come il quadro è nel tempo, così anche il senso è nel tempo. In definitiva, è proprio questo il punto d’arrivo dell’intera riflessione di Merleau-Ponty: il senso si dà nel tempo. Ed essendo il tempo non immobile, né statico, essendo esso l’unica cosa che domina l’uomo e che si consuma in esso una volta morto, allora non sarà possibile dare una forma definitiva, e quindi fissare una volta per tutte “un” senso.

[1] M. Merleau-Ponty, Locchio e lo spirito, SE, Milano, 1989,  p. 17.

[2] Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio, in M. Merleau-Ponty, Segni, a cura di A. Bonomi, il Saggiatore, Milano 2003, p. 81.

[3] M. Carbone, Ai confini dellesprimibile, Guerini e Associati, Milano 1990, p. 25.

[4] Ivi, p. 20.

[5] Ivi, p. 21.

[6] Ivi, p. 63.

[7] Ivi, p. 28.

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