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Cinema

Il cinema dialettico di Sergio Leone

Strategie di re-mitizzazione del western

Locandina - Per un pugno di dollariÈ indubbio che il cinema di Leone non potrebbe neppure essere immaginato senza l’epopea western statunitense. Il mito americano della frontiera, che Leone continuerà ad omaggiare nel corso di tutta la sua carriera, sopravvive nel suo cinema come negazione e contrapposizione dialettica, ottenuta per mezzo dell’ “ipersignificazione”. Infatti, il western di Leone dimostra, rispetto a quello di Ford, “palesi elementi di differenza: lo stile personale dell’eroe, le particolari scenografie e le polverose location spagnole; il montaggio di musica e suono; la trama infarcita di azione costruita su una serie di eclatanti climax, talvolta guarniti di ultraviolenza; lo slittamento verso l’ironia, il Surrealismo e un beffardo senso dell’umorismo” [1]. Comprendere il western di Leone in maniera dialettica significa cogliere il lavoro di re-semantizzazione e re-mitizzazione che il regista italiano ha svolto nei confronti dei maestri americani, primo fra tutti ovviamente John Ford. Questo ci aiuterà a comprendere meglio anche la dimensione “mitologica” del western classico.

Gli Stati Uniti d’America sono riusciti, nel corso di una manciata di secoli, ad acquisire una posizione di egemonia culturale, politica ed economica in tutto il mondo. Nel perseguire tale posizione hanno dovuto fondare a posteriori un humus culturale e mitologico al quale poter fare riferimento. Da buoni eredi degli europei, gli americani hanno sempre saputo che per lo sviluppo culturale e sociale di una comunità, per l’instaurazione di un ordine di valori condiviso, fosse necessaria una “mitologia”, un sistema di riferimenti “trascendentale” che, seppur inizialmente frutto dell’immaginazione e della pratica artistica, avrebbe poi assunto una dimensione autonoma rispetto alle vicende umane. Sterminate e isolate le popolazioni native, gli americani hanno sentito l’esigenza di fondare ex novo qualcosa che fosse esclusivamente loro, legato ai quei territori, che ponesse a fondamento le idee di libertà e di giustizia da assumere come direttrici per la vita di ciascuno. Nacquero così il “mito della frontiera”, il “western”, John Wayne e i capolavori di John Ford, rappresentazioni della dicotomia ben definita di Bene e Male, esegesi del coraggio individuale e dell’affermazione dell’eroe pronto a sacrificarsi, fascinazione per un universo semantico in realtà mai effettivamente esistito (com’è giusto che sia per un’autentica mitologia).
L’immaginario simbolico del western classico si compone di numerosi fattori e implicazioni, quali il culto per la conquista e l’insediamento territoriale oltre i confini, la convinzione unilaterale di promuovere il Bene in opposizione al Male, l’eroe maschile inadatto alla vita casalinga e statica e costretto per sua natura a abbandonare il casolare, l’inquadramento dell’Altro (il selvaggio, l’Apache, il Sioux…) come barbaro al quale è necessario rispondere con la forza… Il consolidamento della fondazione a posteriori di tale mitologia ha vissuto nel corso del XX secolo diverse trasformazioni e plasmazioni, soprattutto in relazione alle vicissitudini storiche, e la frattura più significativa si è avuta ha subito con la Guerra del Vietnam. Sono gli anni del neowestern, profondamente influenzato dalla cultura della contestazione: ad alimentare questo genere, una leva di nuovi registi non allineati col sistema della Hollywood classica, severamente critici con lo star system e con le istituzioni responsabili della sciagura del Vietnam. Le pellicole di autori come Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio) e Arthur Penn (Piccolo grande uomo) segnarono questa trasformazione di immaginario, e questa prima decostruzione del mito fu accompagnata però da una fiducia nei confronti del dissenso politico, e da un’intenzionalità pedagogico/culturale e propagandistica.

Il tema del rapporto con l’alterità si complicò con la guerra del Vietnam: la categoria degli indiani, dopo essere stata messa in questione nei film del neowestern americano, nel western di Leone scompare totalmente. La privazione della dicotomia culturale tra nativi e americani contribuisce all’orizzonte di senso del cinema di Leone, pressoché spurio dai moralismi propri della generazione post-Vietnam. Infatti, se da un lato era praticamente impossibile riproporre la formula del buon americano che si difende dall’orda vandalica dello “straniero” (uno straniero che paradossalmente aveva maggior diritto di residenza sul suolo americano, essendone l’autentica popolazione autoctona), dall’altro Leone non condivideva la logica dell’inversione schematica della dicotomia (i “buoni” diventano “cattivi”, e viceversa), che presuppone un approccio ideologico e politico. Con Leone si compie un passaggio ulteriore: lo schema cambia completamente, non si tratta solo di invertire i ruoli, ma di fare saltare l’intero impianto attraverso l’estremizzazione semiotica. In quegli stessi anni, Leone assorbì le icone mitiche del mondo del western per utilizzarle nella costruzione di un’estetica parossistica che emancipò il genere da qualsivoglia funzione politica o sociale, sia di ordine “positivo” (promozione dei valori americani) sia “negativo” (promozione dei valori di segno opposto).

Clint Eastwood

Sergio Leone realizzò in una manciata di anni la sua trionfante Trilogia del dollaro, con la quale fece esordire un cinema di rottura tanto col western classico, quanto col neowestern rendendo la violenza protagonista indiscussa: se in Peckinpah mantiene un criterio di ordine morale, essendo la crudeltà degli sfruttatori del popolo o la risposta di chi lotta per la dignità e la sopravvivenza, in Leone essa è esclusivamente strumento di vendetta, atto ostile che giustifica una reazione o strada necessaria al perseguimento di un guadagno. La violenza, d’altronde, era sempre costante anche nel cinema western classico, ma la normalizzazione epica conduceva alla sua accettazione per un fine nobile, mentre in Leone non è affatto giustificata, se non dal valore che essa acquisisce per l’efficacia delle immagini proposte al fruitore, nonché come motore della narrazione (provocando lo spirito di vendetta, ad esempio). Con Leone prende il sopravvento quella dimensione di pathos e di violenza incontrollata che ha richiesto essa stessa l’avvento di un ordine costituito e chiaro di valori morali e sociali cui fare riferimento. Come l’epica omerica nacque, secondo Nietzsche, per nascondere “come un velo” la crudeltà terribile della vita col suo ideale di ordine, di giustizia, di sensatezza garantiti dall’intervento diretto degli Dei, stessa cosa accade nel western classico, mentre nel western italiano Dio non interviene perché assente e, se Dio ci ha lasciati, allora possiamo fare ciò che vogliamo: “Gli dei di Leone sono i suoi eroi/antieroi, buoni brutti o cattivi che siano, e il loro crepuscolo è tanto più angosciante in quanto, esseri imperfetti e mortali, coinvolge tutti noi” [2]. La verità “dionisiaca” è relativa all’effettiva realtà delle cose, dell’animo umano come dei rapporti che si instaurano tra gli individui, la tragica brutalità che la cultura ha tentato di contenere per rendere sopportabile la vita, che poi l’uomo ha rimosso dalla propria coscienza attraverso una ipostatizzazione. Per arginare la violenza terribile del tutti contro tutti e della volontà di soddisfare le proprie pulsioni libidiche, la cultura americana (così come quella greca con l’epica e le divinità olimpiche) ha dovuto dare origine alle rappresentazioni mitiche, nobili ed eroiche del western classico. Ciò che emerge con la Trilogia del dollaro di Leone è ciò che la mitologia western ha tentato di escludere, ciò che ne è “al di qua”, che ne è la ragione di esistenza, precedente alle normalizzazioni di ordine logico o morale, facendo emergere un nuovo livello mitico, che Salizzato definisce “di seconda mano” [3]. Ciò che si presenta con l’opera di Leone è un viaggio all’interno della violenza pura, una presentazione di ciò che è alla base anche dell’America contemporanea e che emerge frequentemente nelle dinamiche della sua società civile.

Nel cinema fordiano l’individualismo di John Wayne era ben celato da un’apparente messaggio di collettivismo e condivisione sociale, in Leone tale individualismo “esplode”, evidenziandosi nella palese volontà di potenza individuale del singolo, ovverosia il personaggio spesso incarnato da Clint Eastwood: “antidoto alla vulgata di Rousseau che difende la natura fondamentalmente benevola del sentimento umano nella conferma di una visione nicciana e darwiniana dell’amoralità della vita istintuale” [4]. Se è vero che le azioni e l’esistenza di questi nuovi eroi, nella migliore della ipotesi, sono rivolte all’affermazione del proprio ruolo di dominatore o allo spirito di vendetta (per quanto “giustificata” come in Per qualche dollaro in più), molto più spesso è l’avidità e la sete di denaro a orientare le loro scelte. Bisogna però ammettere, a onor del vero, che per incentivare la prassi spettatoriale di identificazione con l’eroe, Leone e gli sceneggiatori introducono elementi di condivisione empatica affinché si simpatizzi con alcuni e non con altri (come in Per un pugno di dollari, quando l’americano si prodiga per riunire la famiglia di Marisol, aiutandola nella fuga). D’altronde tale coinvolgimento empatico è raggiunto la maggior parte delle volte attraverso il valore di fascinazione trasmesso dalle capacità intellettive e tecniche, che favoriscono la nostra ammirazione, e la novità sta nel fatto che queste innegabili qualità eroiche non sono investite per un fine nobile: superiorità antimachiavellica dei mezzi sul fine!

I personaggi di Leone costituiscono un catalogo di stereotipi e maschere degne della più nobile tradizione goldoniana. Anche su questo piano emerge la connotazione dialettica del suo cinema rispetto alla tradizione classica del genere western. John Wayne ha contribuito fortemente alla costituzione del mito della frontiera, incarnando lo spirito della nazione americana per diversi decenni. Per assicurarsi tale fine, il portamento di Wayne era quello dell’uomo deciso ma valoroso, moralmente impeccabile e al contempo dotato di una buona dose di familiarità. L’eroe fordiano è sincero, coraggioso, ma capace di comprendere quando è necessario rispondere all’offesa con la violenza. Wayne è diventato un’icona, un referente di esemplarità civile e comportamentale. Se la stagione del neowestern, data la prospettiva ideologica di contestazione rivolta al mainstream, non ha offerto (come segno implicito di contestazione) icone affascinanti capaci di trainare il gusto e l’interesse del pubblico, il cinema di Leone, al di là del moralismo, ritorna a promuovere icone puntando su disvalori, che sono ben più efficaci del perbenismo wayniano. Eastwood non è lo straniero che familiarizza con la comunità messa a rischio dall’avvento di un elemento di crisi, dimostrandosi affidabile e amichevole per poi ripartire in cerca di nuovi ambienti dove offrire il proprio contributo. La recitazione di Clint ha fatto scuola: la sua espressione imperturbabile, che viene mantenuta anche nei momenti di massima crisi, è un elemento di intensificazione nel dimostrare una “completa impassibilità: i suoi occhi, come i suoi aforismi, non rivelano niente” [5], se non una potente coscienza di “non poter morire”. Le espressioni dei protagonisti e i loro gesti corrispondono ai tempi dilungati dell’attesa, che amplificano al contempo lo stato di tensione e l’efficacia che in prospettiva avrà la scena. Molto spesso il loro comportamento è assistere immobili piuttosto che intervenire, anche se al cospetto di nefandezze e gravi ingiustizie. In questo ambito, l’ipersignificazione espressiva del volto e dei gesti ottiene come risultato la dichiarazione esplicita della propria funzione di icona. È come se i personaggi leoniani fossero coscienti del loro ruolo. Non avendo contenuti morali da comunicare, coinvolgono il pubblico per il mistero dei loro silenzi, per il cinismo delle loro posizioni, per il sarcasmo ruvido.

Locandina - The good, the bad and the uglyTanto le comparse che i protagonisti principali appartengono spesso a un catalogo di stereotipi composto per la maggior parte da bifolchi, contadini, selvaggi e criminali. La forza di caratterizzazione quasi fumettistica è tipica di attori quali Klaus Kinski, Eli Wallace, Mario Brega… Visto che nella Trilogia del dollaro personaggi sono “ ‘oggetti’ e non ‘soggetti’ dell’avventura” [6], essi non dichiarano la loro storia, perché significherebbe definirli psicologicamente. In discussione non sono solamente i valori costituitivi della vita civile, come il rispetto della legge, la solidarietà, la giustizia, ma anche i più elementari ideali di amicizia e cameratismo, che sono funzionali sempre e comunque o al riscatto personale o al conseguimento di un obiettivo comune, come una grossa somma di denaro. Ne Il buono, il brutto e il cattivo, la stessa nomenclatura attribuita ai tre protagonisti è esemplificativa: la presentazione di loro tre avviene attraverso un artificio a suo modo strano e imprevedibile, ovvero il fermo-immagine con jingle di Morricone e didascalia come fosse scritta a mano in corsivo. Questa prassi non fa che annunciarci subito, a inizio film, di stare per assistere a uno spettacolo piuttosto che a una ricostruzione storica, e lo stesso fanno le identiche nomenclature alla fine della pellicola. La presentazione dei personaggi è in realtà una strategia in un qualche senso ironica: “il buono non è affatto buono, il brutto non è soltanto brutto, il cattivo non è più cattivo degli altri due” [7]. Da queste parole di Caprara emerge chiaramente che l’unico a non corrispondere però alla descrizione è il Biondo, che può essere definito buono solo in senso fortemente sarcastico. La sua bontà è d’altronde sempre una dimostrazione di interesse personale, se non almeno quando si trova a contatto coi soldati stremati dalla fatica o gettati senza vita sulla strada polverosa a mucchi o ancora agonizzanti, ai quali dedica quel margine di interesse e compassione. Non a caso, solo nei due film successivi alla trilogia del dollaro, ovvero Giù la testa e C’era un volta il West, la psicologia e l’esperienza di vita diventano determinanti, soprattutto perché la storia accede nell’universo filmico attraverso le vicende dei singoli personaggi.

La dimensione simbolica, che era essenziale anche in Wayne e nel cinema di Ford, non viene più trasmessa a livello subliminale, ma è urlata e presentata in tutta la sua energia (iper-semiotizzazione), e in questo il primo piano ha un ruolo centrale. I campi stretti riflettono l’individualismo esasperato e esplicito di contro alla promozione del gruppo e della comunità restituito nel western classico coi campi lunghi. Pensiamo all’apertura di Il buono il brutto e il cattivo: piuttosto del classico campo lunghissimo che illustra lo spazio allo spettatore, la visione è invasa dal volto di un contadino, completamente ininfluente nel decorso dell’opera. Siamo lontani dalle intenzionalità liriche e poetiche di Pasolini, ci troviamo dinanzi a volti che fungono da mera coreografia, anch’essi mezzi per un fine, ovvero la costruzione complessiva dello spettacolo del film. I film di Leone, per concludere, sono perciò significanti esclusivamente in quanto spettacolo, vuoti di intenzionalità morali; pur superando radicalmente l’estetica e la logica del western hollywoodiano, minandone alla base il fondamento morale, Leone dialetticamente instaurò un nuovo sistema mitologico decisamente più “popolare” e goliardico, fatto di nuovi eroi che con i vecchi avevano ben poco a che fare. Con l’immaginario di Leone, e come accadeva proprio in quegli anni in tutti i settori della cultura popolare (pensiamo anche alla musica rock), cade la corrispondenza tra fascino e bene, tra stima e norma, tra culto e valore.

Note

[1] C. Frayling, Sergio Leone: Danzando con la morte, Il Castoro, Milano 2002, p. 137.

[2] Cfr. C. Salizzato, Un pugno di dollari per il western italiano in “Bianco & nero”, n. 3 (1997).

[3] R. Donati, Sergio Leone. America e nostalgia, Alessandria 2004, p. 25.

[4] V. Caprara, Il mio nome è Leone in “Bianco & nero”, n. 5 (2000), p. 124.

[5] C. Frayling, Sergio Leone, cit., p. 157.

[6] V. Caprara, Il mio nome…, cit., p. 123.

[7] Ivi, p. 120.

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