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Cinema

Stanley Kubrick (II)

Riflessioni sull'opera di un regista

“Il significato si costruisce per opposizioni”

A. J. Greimas

Stanley e Malcolm

La ricerca della contraddizione sembra essere una costante nel cinema di Kubrick, e la troviamo ovunque, usata per creare paralogismi e antinomie, per far giocare il linguaggio filmico contro la storia raccontata, per mettere le immagini contro il significato, per autentificare ciò che d’altra parte appare dichiaratamente artefatto fin dall’inizio. In fondo, che cosa potrebbe esserci di più fittizio di un film ambientato nel 2001 e nello spazio? Di più scenografico di un film in costume ambientato nel Settecento, secolo della teatralità? Eppure Kubrick si ingegna a filmare controsenso con la maggiore severità possibile, usando sempre piani lunghi e profondi, “tanto che il suo Barry Lyndon somiglia più a un documentario che a un film di finzione.”[1]

Anche in Shining questa contraddizione appare evidente: lo spettatore è spiazzato di fronte alla comparsa delle due bambine gemelle che si tengono per mano nel corridoio, in quello spazio che solo un attimo prima era vuoto. Sappiamo che l’albergo è deserto, chiuso, che può essere solo un’apparizione, eppure questa parola risulta inadeguata davanti a un’immagine che non porta nessuna marca soggettiva, nessun indice di allucinazione suggerito da un particolare movimento della macchina da presa, o da un commento musicale. E in Full Metal Jacket, nonostante un Vietnam rappresentato in modo molto teatrale, Kubrick mostra un’intervista della televisione, una sorta di cinema diretto, insinuando che, poiché guardano in macchina e parlano agli spettatori, quelli dovrebbero essere soldati veri.

Il contrasto fra la rappresentazione e i mezzi della rappresentazione stessa sembra diventare per Kubrick uno strumento per sviluppare la visibilità cinematografica, e per scoprire attraverso di essa la differenza nell’identità. “Lo stile fotografico di Kubrick, che predilige i teleobiettivi e le riprese a distanza, contribuisce a dare l’impressione del sur place, della impasse, di un movimento simulato, teatrale: i marines in addestramento corrono, si lanciano all’assalto, si precipitano verso la macchina da presa ma i loro sforzi sono inutili, congelati nello spazio bloccato del tele che li tiene lontani pur facendoli apparire vicini.”[2]

Shining, Danny

Lo spettatore, quindi, non solo riceve ed elabora, ma in qualche modo è chiamato a costruire anche l’oggetto della visione. Ha con il film un rapporto dinamico, posto tra due istanze: significato e immagine.

È un soggetto attivo, che trasforma il film guardandolo e che si trasforma guardando il film.

Se l’ignoto si nasconde nel cuore del noto, basta cambiare occhi, cambiare sguardo oppure obiettivo, per scoprire nell’ambiente familiare, o tra virgolette domestico, un’estraneità inestricabile, una complessità infinita. Ecco perché questo stile mette duramente alla prova la lettura del significato. Come già osservavano alcuni a proposito di Arancia Meccnica, la critica si trova con Kubrick in una ragnatela semantica dalla quale diventa assai difficile venire fuori, con la conseguenza che ognuno può dire quello che vuole, indifferentemente. I suoi film si presentano come fortezze inattaccabili,  che non lasciano appigli decodificatori o riferimenti da utilizzare come chiavi di lettura: l’interpretazione è infatti il processo mentale che Kubrick sembra voler eludere in ogni sua opera, forse perché, come scriveva Sontag, “interpretare significa impoverire”[3].

I personaggi, i luoghi, gli eventi svaniscono nel momento in cui sembrano apparire; quanto più sono autentici, tanto più sono concettualizzati, astratti. “Questa specifica simbolizzazione attraverso l’effetto di reale è forse la caratteristica più forte di tutto il cinema di Kubrick, che costruisce su di essa una funzione di spettatore diversa da quella classica, ma nello stesso tempo anche classica.”[4]

Si giunge così ad una sorta di teoria della “contraddizione sempre crescente”: una specie di conflitto che nasce e cresce tra le immagini e ciò che esse stesse dicono, o sono incaricate di dire. Un conflitto tra il film e il cinema, tra il significato (che è racconto) e la visione (che è percezione). Questo conflitto è probabilmente la forza stessa del cinema, la sua energia che si sviluppa da una lotta fra ciò che le immagini significano e ciò che invece mostrano. La lotta tra un dire che è anche un vedere e un vedere che è anche un dire, “tra la forza materiale delle immagini, in quanto mezzi della rappresentazione, e la forza concettuale in quanto rappresentazione attuata.”[5]

Barry Lyndon

Tornando al film Barry Lyndon, è evidente che la contrapposizione fra apertura e chiusura dell’immagine, fra il tutto del paesaggio e il nulla del fondo nero, risulta essere propria del contenuto, della cosa rappresentata. E a questa contrapposizione se ne aggiunge un’altra, l’opposizione fra due modelli percettivi e due modelli spaziali. Fra una percezione statica, lineare e prospettica, e una percezione in movimento, alterata, instabile.

La prima conduce a uno spazio scenico che potrebbe essere definito geometrico (inquadrature lunghe, grande profondità di campo), mentre la seconda, con movimenti continui della macchina, oppure ellissi molto forti e improvvise, costruisce una specie di spazio curvo, indefinito, che cambia a seconda del punto di vista, o dell’azione. Se il primo appare come uno spazio già dato, esistente prima dell’azione, il secondo è uno spazio prodotto dai movimenti dello sguardo e dei personaggi (la formula principale è quella kepleriana: ut pictura ita visio, ossia vedere è sinonimo di raffigurare).

Sono due modalità di rappresentazione che ricordano la distinzione di Ejzenstejn fra rappresentazione e senso, che secondo quest’ultimo (probabilmente il più importante teorico della storia del cinema) devono interagire nella realizzazione di un film. La rappresentazione non è solamente la trasmissione di un significato, ma anche e soprattutto la produzione di un senso, inteso come esperienza di un fenomeno da parte dello spettatore. Seguendo questa logica, il senso non è il contenuto, ma è, al contrario, proprio ciò che manca alla rappresentazione. Ad esempio, “una lotta ripresa da un unico punto di vista, in piano generale resterà sempre la ‘rappresentazione’ di una lotta e non esprimerà mai il senso della lotta, cioè qualcosa che si può esperire come possiamo esperire la lotta di due uomini vivi che realmente si battono (anche se apposta) davanti a noi.”[6]

È lo stesso principio da cui parte Kubrick, che sceglie la macchina a mano per mostrare le sequenze più drammatiche, per darcene il senso. Mentre sceglie la forma rappresentativa più completa e statica quando si tratta di cogliere una scena nel suo insieme, con distacco, con oggettività.

Sempre nel film Barry Lyndon,  per mettere in luce le contraddizioni, le dissociazioni fra la rappresentazione e il rappresentato, si avverte chiaramente la necessità strutturale della voce fuori campo. E con essa emerge con altrettanta chiarezza anche la differenza fra il cinema di Kubrick e il cinema americano classico: “Un vecchio motto degli sceneggiatori dice che se dovete usare la voce fuori campo allora c’è qualcosa che non va nella sceneggiatura. Sono quasi certo che ciò non sia vero.”[7]

Barry Lyndon

Nel cinema narrativo classico l’uso della voce fuori campo è molto ristretto, e si limita all’incipit, dove contribuisce a facilitare l’ingresso dello spettatore dentro il film (come in Lolita). Ma per Kubrick la voce fuori campo ha una ben diversa funzione e collocazione: riprende e mantiene lo stile documentaristico e fotografico delle sue prime opere. È la voce di un commentatore esterno che rimane attiva dall’inizio alla fine, come se il discorso del film non riuscisse a integrarsi con le immagini, come se queste conservassero sempre un forte coefficiente di autonomia. Kubrick dà l’impressione di risalire addirittura a prima del cinema. “La voce-off, infatti, come osserva Michel Chion, ricorda le scansioni e i commenti che collegavano i quadri successivi nelle proiezioni della lanterna magica.”[8]

Questa voce off , che interviene in quasi tutti i film di Kubrick, ha una funzione diversa rispetto a quella storica tradizionale ed è collegata soprattutto al rapporto fra cinema e letteratura, che per Kubrick riveste un aspetto privilegiato: tutti i suoi film, infatti, sono rielaborazioni di opere letterarie.

Barry Lyndon non è un adattamento cinematografico (il romanzo non è un punto di partenza per una diversa storia) e neppure una trascrizione cinematografica che si limita ad una semplice e più neutra possibile messa in scena del testo. Kubrick preferisce la lettura. Le parole sono staccate dalle immagini, nel tentativo di ricomporre, secondo il proprio punto di vista, l’universo di cui questo testo letterario era solo un sostegno. Tuttavia, se il film si presenta come una lettura del romanzo di Thackeray che non dimentica mai il testo, lo spettatore è incoraggiato dal film a non dimenticare se stesso nella visione. Attraverso la voce fuori campo, lo spettatore è indotto a svolgere un lavoro di interpretazione che deve tenere in considerazione sempre le immagini come oggetti imprecisi, da chiarire ed analizzare. Le immagini potrebbero essere usate per dire altre cose, per raccontare altre storie e forse da sole non significano niente. La loro decodificazione dipende dal processo di lettura che viene svolto dall’osservatore, che in questo caso è rappresentato nella voce esterna. In questo modo Kubrick si avvicina ai grandi sperimentatori come Straub, Duras, Syberberg, che sconnettono il processo visivo da quello verbale, staccando il visibile dal dicibile.

Spostando l’attenzione sul personaggio Barry Lyndon, il film di Kubrick sviluppa e potenzia l’ambiguità, fino ad una sorta di sospensione del giudizio, in una contraddizione continua, in una somma di valori positivi e negativi che rendono il personaggio ininterpretabile. Diventa una figura oscura, quasi inquietante. La messa in scena, in questo contesto, diventa fondamentale. Fin dai primi film i suoi attori principali hanno un andamento incerto, enigmatico. Ma, in controtendenza, altri personaggi si muovono in un senso completamente opposto: sono dinamici ed eccentrici fino all’isteria. In Barry Lyndon mancano figure istrioniche di questo tipo, ma il paradosso, oltre a quello del film stesso (mi riferisco al linguaggio ironico e nello stesso tempo drammatico), è rappresentato dagli attori che sono sì statuine, manichini, ma dai volti elaborati e studiati alla perfezione, fino a diventare icone impersonali di certi sentimenti: la malinconia, l’amore, il sogno, la speranza.

Barry Lyndon

E poi, il silenzio. L’idea fondamentale sembra essere quella di Diderot, secondo la quale più si parla più l’energia della parola si diluisce, più invece la parola si riduce all’essenziale e più aumenta di forza, fino a raggiungere il suo massimo potere appunto nel silenzio. Kubrick applica al cinema questo metodo, questo principio compositivo basato sul paradosso: l’immobilità diventa il grado più alto e più intenso del movimento.

Così, dietro l’apparenza di una storia, troviamo una costruzione visiva dove il significato si perde nel gioco delle inquadrature intese come materiale compositivo, in cui il significato, il rappresentato, viene abbattuto a vantaggio delle pure e semplici relazioni formali e ritmiche fra le immagini. Si potrebbe collocare Kubrick all’incrocio fra pittura e musica (intese come arti opposte), fra rappresentazione di una storia e puro gioco di immagini. Come fosse una sintesi di due espressioni artistiche: una fondata sulla rappresentazione, e l’altra sul ritmo e sull’assenza di rappresentazione. Solitamente un film è fatto di immagini che rappresentano qualcosa, Kubrick   realizza invece un’opera che, pur essendo composta di immagini rappresentative, toglie ad esse il loro valore semantico, per dissolverle nel loro puro gioco reciproco. Una composizione che usa la rappresentazione pur mirando all’effetto opposto, all’effetto musicale. Il significato nelle immagini è quindi continuamente dato e tolto, e ciò a cui aspira sembra essere la sintesi di avanguardia e classicismo.

“Come osservava Pasolini, il cinema non ha le possibilità di interiorizzazione e di astrazione che ha la parola”[9]. Di fatto il cinema è sempre, a priori, un’interpretazione, è la produzione di uno sguardo rappresentativo. Il suo punto di vista esiste e sussiste nella somma dei presupposti culturali e psicologici del film. Come leggere un film, quindi? Lo spettatore entra nel film, nell’occhio dell’autore, come il film entra nella testa, nell’occhio del personaggio? “Possiamo distinguere addirittura quattro piani di rappresentazione: la messa in scena (Rapp.I) viene guardata dal personaggio (Rapp.II) e attraverso di lui viene guardata dall’autore (Rapp.III) e attraverso di lui ancora viene guardata dallo spettatore (Rapp.IV). Dalla storia della critica sappiamo che è stato Roland Barthes a mettere in crisi il concetto di transitività, attraverso la scoperta dell’effetto di reale[10] (che sta alla base di un’identificazione della funzione dello spettatore). È l’effetto di reale che ci permette di articolare questi quattro livelli di rappresentazione, collocando lo spettatore non dentro la scena, ma dentro e fuori contemporaneamente. Sarebbe sciocco pretendere che lo spettatore si spogliasse dei suoi presupposti ideologici per abbandonarsi interamente a quelli del film. In fondo, la comprensione è sempre effetto di due punti di vista che si unificano pur conservando la distanza.

Al termine di questo secondo articolo che raccoglie alcune osservazioni sull’opera di Kubrick inerenti al significato della visibilità, era alquanto prevedibile toccare un nuovo problema, quello della percezione, della visione come strutturazione conoscitiva dell’esperienza e, di conseguenza, del soggetto di questa visione: lo spettatore. Non lo spettatore che il film in qualche modo si augura e cerca, ma quello generato dal senso del film, soggetto di una risposta estetica, che sintetizza i vari punti di vista del film e li elabora in una nuova sintesi.[11]

Note

[1] J. Rosenbaum, The Pluck of “Barry Lyndon, “Film Comment”, n. 12, March-April 1976.

[2] S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Milano 2000, p. 26.

[3] S. Sontag, Contro l’interpretazione, Milano 1967, p. 17.

[4] S. Bernardi, op. cit., Milano 2000, p. 28.

[5] S. Bernardi, op. cit., Milano 2000, p. 28.

[6] S. M. Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, Venezia 1985, p. 164.

[7] M. Ciment, Kubrick, Milano 1999, p. 163.

[8] S. Bernardi, op. cit., Milano 2000, p. 52.

[9] S. Bernardi, op. cit., Milano 2000, p. 110.

[10] R. Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano 1960

[11] W. Iser, L’atto della lettura. Una lettura della risposta estetica, Bologna 1987. Il “lettore implicito” studiato da Iser è diverso dal lettore implicito di Chatman e Booth, e dal cosiddetto “lettore modello” di Umberto Eco. Queste ultime figure corrispondono a una funzione di lettore costruita e determinata dal testo. Il “lettore” di Iser è invece considerato come agente esterno.

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