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Scrittura

La strada senza speranza di Cormac McCarthy

Catastrofe e echi beckettiani, tra le macerie del nostro mondo

Cormac McCarthyPadre e figlio viaggiano attraverso le rovine di un mondo devastato, ridotto in cenere, diretti verso l’oceano e verso il sole. Portando con sé solo un carrello del supermercato, un telo di plastica e una pistola con poche munizioni, lottano per la sopravvivenza, difendendosi dalla fame e dalle bande di predoni che battono le strade. Siamo all’incipit di uno dei più importanti e premiati romanzi di Cormac McCarthy (Providence, 20 luglio 1933), considerato dal critico letterario statunitense Harold Bloom uno dei “magnifici quattro” (assieme a Thomas Pynchon, Don DeLillo e Philip Roth) della narrativa a stelle e strisce contemporanea.
Si tratta de La strada, vincitore del Premio Pulitzer nel 2007 e divenuto nel 2010 un film di John Hillcoat, racconto ambientato in un mondo che apparentemente non sembra avere nulla a che fare con la nostra realtà odierna. È un mondo distrutto, svegliatosi in agonia dopo essere stato vittima di una qualche catastrofe ambientale o bellica, che ha ridotto tutto in frantumi. È un mondo abbandonato, persino l’umanità sembra sparita. Le poche “vittime” rimaste sembrano essere decadute in stati barbarici. La civiltà nient’altro è che un ricordo lontano.

Quando ci fu luce a sufficienza per usare il binocolo ispezionò la valle sottostante. Tutto sfumava nell’oscurità. La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I tratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò su la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra.

È un mondo nero, senza colori, senza vita, invaso da una natura irriconoscibile, ridotta anch’essa a maceria.

Rimasero seduti per un bel pezzo. Seduti sulle coperte ripiegate a guardare la strada in entrambe le direzioni. Neanche una bava di vento. Niente. Dopo un po’ il bambino disse: Di uccelli non ce ne sono più. Vero?

No.

Solo nei libri.

Sì. Solo nei libri.

L’avevo immaginato.

Sei pronto?

Sì.

Queste parole potrebbero essere state pronunciate da qualche personaggio beckettiano: è straordinaria l’affinità tra La strada e l’atmosfera di Finale di partita. È ovvio che la scelta scenica dei due autori non sia soltanto frutto di una preferenza artistica soggettiva legata al gusto, ma porti con sé una serie di connotazioni teoriche ben precise. Come per Beckett, anche per McCarthy alla base della narrazione si pone la volontà di denunciare un mondo in declino, in una condizione di catastrofe imminente o, addirittura, in aperta e perenne catastrofe. Come se la catastrofe ci fosse già stata e, tuttavia, si agisce come se ancora dovesse accadere.

Abbiamo sostenuto che il panorama di McCarthy sembra non avere nulla a che fare con il mondo reale, ma, d’altro canto, abbiamo anche detto che l’intenzione di McCarthy è quella di dire qualcosa del mondo e sul mondo. Questa denuncia non si palesa “discorsivamente”, ma “formalmente”, su un piano simbolico, attraverso l’arte. Nel descrivere una realtà catastrofica, McCarthy compie un’opera di realismo più drastica di quanto si possa credere, nonostante questo cosmo non sia “realmente esistente”. Pur dipingendo un mondo irreale, quindi, ci mostra il “nostro” mondo. E rappresentarlo catastroficamente, significa denunciare la sua perdita di colore, di armonia, di bellezza, in altre parole: di senso. È una terra insensata questa di McCarthy, che testimonia la crisi stessa della condizione umana, le macerie della società occidentale e dell’uomo contemporaneo.

A partire da queste considerazioni, prendono ora tutt’altra fisionomia alcuni passi del testo:

Cominciarono a mangiare con più moderazione. Non avanzava quasi più niente. Il bambino si fermava in mezzo alla strada con la cartina in mano. Tendevano le orecchie ma non si sentiva nulla. Eppure l’uomo scorgeva la distesa di campi verso est, e l’aria gli sembrava diversa. Poi ad un tratto lo videro, sbucando da una curva della strada, e si fermarono e rimasero lì con il vento salato nei capelli perché si erano tolti il cappuccio del giaccone per ascoltare. Laggiù c’era la spiaggia grigia con le onde lente che si infrangevano pigre e plumbee, e il loro suono distante. Come la desolazione di un qualche mare alieno che bagnava le coste di un mondo sconosciuto. Più al largo, sulle secche create dalla marea, una nave cisterna arenata. Ancora oltre, l’oceano vasto e freddo, che si muoveva pesante come le scorie di fusione dentro una vasca sollevata lentamente. E infine la linea di gruppo grigia di cenere. L’uomo guardò il bambino. La sua faccia tradiva la delusione. Mi dispiace che non sia blu, disse. Non fa niente, disse il bambino.

La strada

L’oceano che tanto cercavano, dove i raggi di un livido sole avrebbero dato un po’ di tepore di vita, è un oceano nero. La speranza in qualcosa di rigenerativo si tramuta in delusione; l’attesa in una vuota attesa.

Scalpitavano lungo quella mezzaluna di spiaggia tenendosi sulla striscia di sabbia compatta della battigia. Si fermarono, i vestiti schiaffeggiati dal vento. Piccole masse vetrose che galleggiavano sulla superficie dell’acqua, ricoperte di una crosta grigia. Ossa di uccelli marini. Lungo la linea di mare un fitto tappeto di alghe e milioni di lische di pesce a perdita d’occhio come un’isoclina di morte. Un’unica immensa sepoltura salata. Assurdo. Completamente assurdo.

Il mondo descritto da McCarthy è una realtà insensata, “assurda”, abbandonata da Dio. Quanto abbiamo detto fin qui si riflette anche nello stile di scrittura dell’autore statunitense. Tutti i suoi testi mancano di sistematicità stilistica: assenza di adeguata punteggiatura (mancano spesso le virgolette nei dialoghi), a tal punto, a volte, da non distinguere il dialogo dalla narrazione (solo qualche “disse” ci permette di districarci in essa). Situazioni accavallate l’una sull’altra, cambi di scenario non annunciati, una scrittura affannosa – a volte con frasi brevissime – provoca una sensazione di smarrimento e incomprensione che fanno tutt’uno con il testo stesso.

Non siamo ai livelli riduzionisti di Beckett o Kafka, ma il “come” McCarthy scrive e il “ciò” che scrive sono in stretta sintonia. È questa composizione di forma e contenuto “catastrofico” che suscita la “sensazione” di insensatezza nel lettore, un’insensatezza che riflette quella che caratterizza la nostra vita.

Se il mondo di McCarthy è un mondo “dimenticato da Dio”, vale a dire che nessuna divinità assoluta lo redimerà, né ora né in futuro, significa che in questo mondo non c’è spazio per la speranza. La speranza presuppone la possibilità che qualcosa accada in un tempo futuro. Ma nel panorama mccarthiano, il futuro è grigio come il presente. Padre e figlio errano alla ricerca dell’oceano, “sperano” che raggiungendo l’oceano la sua bellezza possa dare un po’ di gioia: ma l’oceano è nero e il sole è spento. Non c’è nulla da aspettarsi quindi, perché nulla ci sarà donato dal futuro. La speranza è troncata dalla delusione dei bambini, o ancor peggio dalla morte dei bambini. Il bambino è il presente, ma nel bambino c’è il futuro, il tempo che verrà, in lui è riposta la speranza. I bambini, in quanto futuro, sono la speranza. Ma se i bambini muoiono crudelmente, crudelmente muore la speranza:

Sbucarono nella piccola radura, il bambino aggrappato alla sua mano. Si erano portati via tutto tranne quella cosa nera infilzata su uno spiedo sopra le braci. L’uomo stava scorrendo con lo sguardo il perimetro dello spiazzo quando il bambino si voltò e nascose il viso contro di lui. Si girò di scatto per vedere cosa fosse successo. Che c’è?, disse. Che c’è? Il bambino scosse la testa. Oh papà, disse. L’uomo si voltò e guardò meglio. Quello che il bambino aveva visto era un neonato decapitato e sventrato che si anneriva sullo spiedo. Si chinò, prese in braccio il bambino e si avviò verso la strada stringendolo a sé. Mi dispiace, sussurrava. Mi dispiace.

Nessuna aspettativa quindi guida più i protagonisti, consapevoli che dal non-senso non si può uscire: “Che cosa ci potevamo fare? Niente”. Nulla redimerà il mondo, nulla darà senso alla realtà: “Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere. Io non te lo permetterò”.

Anche l’attesa sembrerebbe perdere di qualsiasi valore: se non c’è nulla da sperare, non c’è nemmeno nulla d’attendere. E se non ci sono né speranza, né attesa, nemmeno il tempo significa più: “Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò il bambino addormentato. Io ho te”.

Ma la questione non si conclude così: molto beckettianamente i personaggi di McCarthy, a differenza dei kafkiani K che credono ancora nella possibilità di una redenzione, pur essendo consapevoli dell’invalicabilità del non-senso, non rifiutano la vita, né rinunciano alla speranza, immersi nella paradossalità di un’attesa di qualcosa che sanno bene non potranno mai raggiungere: “Non soffrivamo più la fame ma la costa era ancora molto lontana. E lui sapeva che stava riponendo le proprie speranze in qualcosa che di speranza non ne dava. Sperava in una schiarita quando con ogni evidenza il mondo diventava ogni giorno più buio”.

Copertina de La Strada - Cormac McCarthyQuesto passo tratto da La strada riassume il nostro concetto: il padre sa che non ci può essere speranza, sa che nulla potrà mai cambiare, che non potrà esserci alcun miglioramento e alcun ritorno al passato, è “evidente” che non accadrà nulla, ma nonostante ciò egli continua a stringere i denti e a difendere il figlio dalla morte:

Tu racconti sempre storie allegre.

E te non ne hai di storie allegre?

Assomigliano più alla vita reale.

Invece le mie storie no.

Le tue storie no. Infatti.

L’uomo lo fissò. La vita reale è molto brutta?

Secondo te?

Be’, io dico che siamo ancora qui. Sono successe un sacco di cose brutte ma siamo ancora qui.

Già.

A te non sembra una gran cosa.

Boh.

Nessuna resa, quindi, nessun rifiuto. È evidente il richiamo a Beckett, a quel Godot che mai arriverà ma che sempre viene atteso. Se i suoi personaggi nonostante tutto continuano a camminare, continuano a lottare, continuano ad agire, è perché McCarthy non dichiara l’insensatezza della realtà. Se la dichiarasse, tutto sarebbe fermo. Ma il tempo, il suo tempo, continua a girare: il male non verrà sconfitto, il mare sarà sempre nero, la violenza sarà sempre più cruda, ma nonostante tutto la narrazione continua:

L’uomo gli prese la mano, ansimando. Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. Chissà cosa incontrerai lungo la strada. Siamo sempre stati fortunati. Vedrai che lo sarai ancora. Adesso vai. Non ti preoccupare.

Le immagini finali del bambino che sopravvive e continua il cammino sono il segno che, nonostante non ci sia aspettativa, ci si dà comunque speranza. Nonostante non ci sia meta da raggiungere, si continua a camminare.

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