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Scrittura

L’azzardo del tradimento (I)

Effi, Melanie e l'adulterio nella società di Theodor Fontane

Copertina Effi BriestEffi Briest è il più conosciuto romanzo di Theodor Fontane, la cui protagonista viene spesso associata alle altre due celebri eroine adultere della letteratura dell’Ottocento europeo, Emma Bovary e Anna Karenina.

Sebbene considerato il terzo romanzo sull’adulterio del periodo, letto alla luce delle vicende biografiche del suo autore e del pensiero che emerge dal complesso della sua produzione, difficilmente continua a potersi considerare tale; anzi – come il romanzo avente medesimo spunto composto in precedenza, L’Adultera – si potrebbe quasi dire che non è un romanzo sull’adulterio. Entrambi sono, piuttosto e specie se considerati insieme, romanzi sull’azzardo e sul Glück, termine chiave – con la sua duplice accezione di “caso” e “fortuna” – dell’opera di Fontane, figlio di un giocatore d’azzardo e costantemente attratto e respinto dal fascino e dal pericolo dell’incerto. Sono, inoltre e soprattutto, romanzi di analisi sociale, attraverso i quali l’autore descrive la comunità sua contemporanea, esprimendo un giudizio disincantato, amaro, complessivamente negativo ma non polemico o fazioso. L’autore si limita a osservare e registrare con distacco la degenerazione dei valori cui assiste impotente, dopo esser stato testimone di importanti cambiamenti storici e sociali nella sua Prussia, ormai quasi anziano.

Fontane scriveva per soldi

Come egli stesso non nascose, a un certo punto della propria vita Theodor Fontane, deluso per l’ennesima volta da uno stato irriconoscente (che in pochi anni gli nega sia un indennizzo per l’opera di carattere storico-propagandistico sulle guerre da poco concluse combattute dalla Prussia, sia la pensione da direttore della Kreuzzeitung), decise di abbandonare l’incarico – peraltro molto recente e affatto remunerativo – di segretario dell’Accademia prussiana delle arti per dedicarsi all’attività di romanziere, con il preciso intento di trarne profitto. Da una lettera a un’amica scrittrice, nella quale paragona l’attività del romanziere a quella dell’artigiano, apprendiamo che considerava il romanzo un proficuo esercizio di stile. Non perché tardivamente colpito da una folgorante ispirazione, dunque, ma perché intenzionato a mantenere sé e la propria famiglia con i guadagni di questa attività, Fontane incanala il proprio talento letterario – sul quale non aveva dubbi, essendo stato in gioventù un apprezzato compositore di ballate – e la propria propensione alla narrazione – a lungo brillantemente esercitata durante gli anni dei resoconti giornalistici – nella stesura di romanzi destinati a quello che oggi definiremmo il “grande pubblico”.

In un’ottica prosaicamente commerciale della produzione letteraria, dunque, il tema stuzzicante e moderno dell’adulterio deve essere sembrato, sia a Fontane sia al suo editore, uno spunto di sicuro successo. L’autore poteva, inoltre, analizzare la nuova società che stava prendendo corpo, rappresentando le antitetiche reazioni al medesimo evento delle due classi sociali, sempre messe a confronto nelle sue opere: una borghesia rampante, fatta di parvenu che scimmiottano le abitudini dei nobili senza condividerne tradizioni e valori, e un’aristocrazia in crisi di identità, che da un lato dimentica il proprio passato e si lascia sedurre dalla modernità della metropoli e dal lusso fine a se stesso, dall’altro risutla anacronistica nell’eccessivo rigore morale.
Non deve stupire, dunque, che situazioni legate all’adulterio siano ricorrenti nella narrativa di questo autore, ma occorre essere cauti nel ritenerle un vero e proprio nodo tematico.

L’Adultera. O del “dar fuoco a tutti i vascelli”[1].

La prima volta che Fontane sfrutta il potenziale letterario del tradimento è in un romanzo breve intitolato in un modo che più esplicito (e ammiccante) non si sarebbe potuto: L’Adultera. Poiché esso prendeva spunto da una vicenda realmente accaduta, Fontane disse di aver avuto qualche scrupolo nella scelta del titolo (ancora una volta lo apprendiamo da una lettera; è in italiano nell’originale, ma dall’epistolario è facile evincere che il significato fosse ben accessibile ai contemporanei) perché, a suo avviso, la protagonista era comunque riconoscibile. Tuttavia lo giustificò facendo riferimento al gioco di parole con il nome del quadro che fa la sua comparsa nel secondo capitolo, avallando, quindi, la scaltra scelta dell’editore e assicurandosi, così, un immediato interesse da parte del pubblico.

Il dipinto Cristo e l'adultera

Attraverso il racconto “di superficie” della bella e intelligente Melanie, che abbandona l’anziano marito per vivere con il giovane amante una nuova felice esistenza, Fontane confronta (la giustapposizione, come si vedrà, diventerà evidente mettendo in relazione questo testo con Effi Briest) due modi di reagire all’adulterio e, più in generale, di intendere la vita. La protagonista abbandona il tetto coniugale perché non tollera finzione e inganno, al contrario del suo borghese marito. Ormai fuoriuscita dalla condotta retta che avrebbe dovuto tenere, non accetta di conservarne ipocritamente i vantaggi e prosegue lungo la strada che la sua debolezza le ha aperto, conservando anche nel peccato e nell’errore quei valori di moralità e rettitudine, eredità della sua origine aristocratica, che le impongono totale coerenza nelle scelte e assunzione delle responsabilità e dei rischi del proprio comportamento. Per certi versi, siamo di fronte alla stessa forma mentis che “obbligherà” Instetten a duellare con Crampas per rispettare una ormai anacronistica questione di onore.

È proprio l’opposto atteggiamento del marito davanti all’adulterio a rinsaldare Melanie nel suo proposito di lasciarsi alle spalle la vita con lui. Il consigliere Van der Straaten – dipinto come cinico e poco sensibile alla musica, da tempo disilluso sugli uomini e sprezzante delle regole sociali, tanto da godere di scarsa stima perfino tra chi lo frequenta – è quasi una summa dei difetti che Fontane ravvisa nella borghesia e, allo stesso tempo, emblema della schietta limitatezza che dirà di preferire alla decadenza della nobiltà. Egli si dichiara disponibile ad ignorare la passione della moglie per il giovane Rubehn, accondiscendendo in pratica al tradimento e, anche quando apprende che si è già consumato, non fa che ribadire la sua promessa di discrezione, garantendo di fatto alla moglie fedifraga quei privilegi sociali ed economici cui fin’ora è stata abituata. Il borghese che incarna, dunque, è un uomo che non dà valore alla sincerità e alla moralità, né alle regole della società che condannano l’adulterio, perché non ha fede nei valori che esso distrugge. Per lui non si tratta che di un evento che si è verificato – peraltro già previsto con rassegnazione – che lo lascia quasi indifferente. Il mondo di Van der Straaten – assai diversamente da quello di Instetten – non viene danneggiato, perché, semplicemente, è privo di quelle sovrastrutture morali che l’adulterio mina. La sua felicità è perfetta nella presenza della moglie e nel perdurare dei rapporti familiari (e sociali). Il suo solo interesse è, al momento dell’addio di Melanie, persuaderla a restare, preservando così intatte le condizioni di tale felicità. È appunto questa appannata moralità borghese, incapace di comprendere le ragioni che conducono la protagonista alla rottura, disinvolta nel trovare un accomodamento in barba ai principi della società, ad allontanare definitivamente l’aristocratica dal marito.

Parte della critica contemporanea avrebbe voluto una conclusione diversa per la donna perduta che si lascia alle spalle anche due figlie e trova, infine, equilibrio e felicità con il nuovo amore, e Fontane dovette giustificare la sua scelta con la fedeltà alla vicenda ispiratrice. Come non trascura di osservare Giulio Baioni nel saggio che introduce le opere di Fontane raccolte nella collana Meridiani, non si abbatte su Melanie alcuna punizione da parte dell’autore, perché non è lei l’imputata e non è l’adulterio la colpa: il borghese Van der Straaten e la sua irrisione delle regole sociali sono il vero argomento; l’adulterio della moglie, in quest’ottica, altro non è che un gigantesco dispositivo narrativo funzionale al ribaltamento della considerazione sociale nei suoi confronti.
Proprio nella sorte finale di Van der Straaten si palesa la meschinità della società borghese: egli – che non è il tragico eroe Instetten incapace di sottrarsi al suo destino di assassino e alla vergogna, bensì l’ometto mezzo patetico e sprezzante che manda comunque lo Julklapp all’ex moglie – è, in ultimo, visto dai suoi stessi conoscenti come lo stolto di cui ridere, causa della sua stessa infelicità e reo di essersi scelto una moglie troppo giovane, troppo bella, troppo intelligente per lui, in generale troppo “al di sopra delle proprie possibilità” per pretendere che gli rimanesse fedele. La borghesia dei salotti e dei convivi non ha pietà del povero consigliere non solo perché, in fondo, non ha mai avuto simpatia per lui, ma anche perché è incapace di concepire la rottura di un matrimonio come un evento grave, avente conseguenze sociali ponderose. Esattamente come il biasimato Van der Straaten, coloro che lo frequentano non tengono poi in gran conto quanto accaduto e, passato il primo momento in cui è stato necessario mostrarsi indignati, sembrano considerare la vicenda un banale episodio della vita, da cronaca di costume.

I borghesi, nuovamente, sono coloro che perseverano nella loro ipocrisia anche di fronte all’evidenza dei fatti, coloro che chiudono gli occhi per poter continuare a ritenere che la realtà sia come la hanno sempre creduta. Per contro, i nobili sono – ancora, in questo romanzo – coloro che, anche nell’errore o nella disgrazia, affrontano stolidamente il proprio destino e le conseguenze delle proprie azioni.
La decisione di Melanie di lasciare il marito, però, è dettata anche da una ragione da ricercare al di fuori del romanzo, nella raccolta dei ritratti femminili dell’autore. “L’adultera” tende all’irrequietezza come praticamente tutte le donne di Fontane, basti pensare anche alla pragmatica Mathilde Möhring,  in continua tensione all’ascesa sociale, come Jenny Treibel, altra figura tutt’altro che languida e sentimentale, ma comunque inquieta e in costante movimento, donne appartenenti alla borghesia che “incanalano” il loro desiderio di continuo rinnovamento nella direzione dell’arricchimento e dell’acquisizione di prestigio sociale, a differenza di quelle nobili, che vivono liberamente la loro tensione all’inquietudine, concedendosi il lusso di esserne preda. Melanie è incapace di accomodarsi nella propria condizione e rifugge sopra ogni cosa la tranquillità, che considera l’anticamera della noia. Queste donne, con il loro languore, il loro essere sempre misteriose e distanti, mutevoli e tormentate, non possono sottrarsi al cambiamento cui costantemente anelano, indipendentemente dal fatto che esso conduca o meno a una condizione migliore. Non sono alla ricerca della felicità, non hanno un progetto per mutare in meglio quegli aspetti della loro vita che non le soddisfano, non hanno alcun desiderio specifico da realizzare; semplicemente, non possono evitare, a causa del loro stesso essere femmine, di desiderare la novità, di sperimentare il rischio e rivoluzionare il corso delle cose, di andare a vedere cosa c’è alla fine del buio dentro al quale non riescono a trattenersi dal saltare. Sono, per l’appunto, giocatrici d’azzardo (sebbene Melanie si sforzi di negarlo a parole), desiderose di scommettere tutto non nella speranza di una vincita, ma per il solo brivido del rischio, per l’emozione travolgente e terribile del pericolo, per il piacere del provare la paura che si rompa l’altalena e ci si faccia male cadendo, in un continuo bisogno del gioco fine a se stesso.

Berlino nella seconda metà dell'Ottocento

In questo senso L’Adultera è prima di tutto il romanzo del Glück, dell’aristocratica superiorità del giocarsi tutto in un colpo solo, avendo in sprezzo il denaro e i beni materiali (cui – per contro – i borghesi sono morbosamente attaccati, tanto da ritenerli l’offerta suprema per trattenere una moglie in fuga). Fontane scrive della coraggiosa e nobile decisione di rinunciare alla sicurezza economica per amor proprio e della coerenza, esattamente come aveva fatto in prima persona qualche anno risolvendosi di vivere solo della penna, quasi in osservanza della convinzione paterna che “con tutto il rispetto per il denaro, la fortuna è meglio. La fortuna è tutto”[2].

La felicità che Melanie ed Ebenezer raggiungono alla fine del romanzo, dunque, nella volontà dell’autore, non è tanto un premio per l’atteggiamento coerente e coraggioso della donna (essendo, per giunta, impossibile per un autore calvinista parlare dei meccanismi di colpa ed espiazione), quanto piuttosto un semplice frutto del Glück. Solamente il caso governa le conseguenze delle azioni dell’uomo, che si limita a compiere delle scelte; l’esito che esse avranno è mutevole, imprevedibile e fortuito.

Note

[1] È l”espressione con cui Fontane, nella lettera di cui si accenna in precedenza, aveva descritto la propria coraggiosa scelta di dedicarsi esclusivamente alla composizione di romanzi.

[2] T. FONTANE, Meine Kinderjahre, F. Fontane & Co, Berlin 1894, pag. 43 [“bei allem Respekt vor Geld, Glück ist noch besser. Glück ist alles“]



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