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Cinema

Phillip Lopate

Phillip Lopate, la critica made in USA e la reinterpretazione del Neorealismo italiano

Phillip LopateHo intervistato Phillip Lopate una seconda volta a metà novembre 2008, dunque circa un mese e mezzo dopo il primo incontro. In questa seconda circostanza, l’intervista ha seguito una struttura molto più metodica e impostata, indagando approfonditamente le implicazioni critico-letterarie soggiacenti alle sue due principali opere di critica letteraria: American Movie Critics e Totally, Tenderly, Tragically. L’intervista si struttura in tre parti, pur non presentando una suddivisione formale. Nella prima vengono approfonditi quattro grandi registi italiani molto amati da Lopate – Antonioni, Visconti, Pasolini e Moretti – e le rispettive opere più significative. La seconda parte è incentrata sui profili di alcuni tra i più illustri critici cinematografici americani capaci di esercitare una influenza decisiva sia su Lopate sia sul pubblico americano: Pauline Kael, Andrew Sarris, Manny Farber, Otis Ferguson e Hames Agee. Infine, nella terza parte Lopate ha risposto ad alcune domande legate alla sua esperienza come membro selezionatore per il New York Film Festival.

Stefano Calzati (SC): Phillip, vorrei partire da un regista (un autore) neorealista da te molto amato e che evochi spesso nei tuoi saggi sul cinema: Michelangelo Antonioni. Puoi parlarmi di lui?

Phillip Lopate (PL): Il mio rapporto con il cinema di Antonioni è sempre stato molto forte. Fin da quando assistetti alla proiezione del L’Avventura, il suo primo film che vidi all’età di 17 anni, mi innamorai subito del suo stile, di quello sguardo, di quel modo così particolare e innovativo di fare cinema che non aveva eguali negli Stati Uniti. La sua capacità di muovere la telecamera creando un unico spazio filmico, l’uso del piano sequenza, la contemplazione dell’ambiente che prevale sull’azione e sui personaggi: tutte tecniche all’epoca quasi rivoluzionarie. Personalmente mi sentivo in totale sintonia con questo modo particolare di osservare il mondo: avevo trovato una guida che desse voce al mio modo di vedere le cose. Inoltre il bianco e nero conferiva ai suoi primi film un survalore onirico e poetico che ancora oggi mi sorprende.

Devo dire, però, che in quei primi anni avvicinandomi al cinema da profano, o meglio da semplice appassionato, avevo esaltato Antonioni in modo eccessivo: lo consideravo alla stregua di un filosofo e solo con il tempo ho capito che, invece, era “semplicemente” un regista. Dopo essere rimasto folgorato da L’Avventura, di cui ho amato veramente ogni scena, vidi alcuni film precedenti di Antonioni che negli Stati Uniti non erano ancora stati proiettati come Le Amiche: un film che ha rinsaldato in me la convinzione di aver trovato in Antonioni una sorta di guida spirituale.
Successivamente, vidi Cronaca di un amore: una pellicola che ho adorato quasi quanto L’Avventura. La cosa più bella è che, nonostante continuassi a visionare opere di Antonioni, non ne rimanevo mai deluso. Ciò che amavo (e amo tuttora nei primi film) era la modestia con la quale Antonioni si poneva dietro la macchina da presa. Non pretendeva di essere un grande regista, voleva solo fare film alla sua maniera, seguendo la sua estetica; se poi questi film riscuotevano un grande successo, tanto di riguadagnato. Non a caso il feeling tra me e Antonioni si è allentato quando ha cominciato a girare pellicole in giro per il mondo e sostenuto da grandi budget: pur dando vita a film straordinari, come Deserto Rosso, Zabriskie Point e altri, mi sembrava che avesse perso il contatto con i soggetti a lui più cari o, forse, che non riuscisse più a guardarli con lo stesso sguardo naïf di un tempo.

La notte, Michelangelo Antonioni, 1961

SC: E il film La Notte?

PL: Quando andai a vedere La Notte ero così voglioso di amare questo film che ovviamente non poteva non piacermi. Purtuttavia, sentivo dentro di me una voce che mi diceva che qualcosa non andava. Il fatto è che questo film era semplicemente “eccessivo”. Nel tocco estetico, nella estremizzazione dello sguardo emozionale della macchina da presa, nel suo manierismo: in tutto. Mi interrogai a lungo su questa sensazione ambivalente fin quando scoprii che il problema risiedeva nella totale mancanza di sense of humour da parte di Antonioni. Se ben ci si pensa, nei suoi film non c’è mai ironia, né una scena sdrammatizzante o un momento funzionale alla narrazione in cui venga allentata la tensione. Non a caso, nonostante una regia molto accorta a livello estetico e che ama lasciar depositare lo sguardo a lungo sugli oggetti e sui volti, La Notte è un film estremamente economico, che va diretto al punto. Ma è una conclusione quasi inevitabilmente tragica, angosciante: su ogni personaggio dei film di Antonioni aleggia sempre lo spettro del suicidio. Così si spiega anche il motivo di tanta attrazione verso queste pellicole: non faccio mistero che in adolescenza ho pensato spesso all’idea del suicidio e in un’occasione ci ho pure provato in modo maldestro. Fortunatamente.

SC: È da quel momento che hai preso le distanze da Antonioni?

PL: Non proprio. Ho iniziato ad allontanarmi da Antonioni qualche anno più tardi, con Blow Up. Indubbiamente ho continuato ad apprezzarlo e lo apprezzo tuttora, ma ha perso quell’aureola di santità che gli avevo conferito nei primi anni (e che credo lui neanche volesse). Il mio percorso attraverso il neorealismo italiano è iniziato da Antonioni (e da Rossellini) ed è finito a Dino Risi, Lattuada e altri: autori in cui, pur ritraendo situazioni critiche di vita popolare e borghese, era forte pure la verve ironica. È anche in quel periodo, di rimbalzo direi, che ho riscoperto (o nel mio caso scoperto) il cinema di Hollywood a cui fino ad allora non avevo prestato molta attenzione considerandolo inferiore a quello europeo. Dopo una prima infatuazione d’oltreoceano ho capito che, in fondo, anche certe commedie americane avevano i loro punti di forza. Purtroppo questa scoperta è avvenuta solo dopo diversi anni poiché molte mie idee preconcette, come ti ho raccontato la volta scorsa, provenivano dalle letture spasmodiche dei Cahiers, ragion per cui per anni ho guardato all’Europa, rigettando i film americani. Questo nonostante i critici dei Cahiers fossero i primi ad esaltare alcuni registi di Hollywood.

SC: E ora?

PL: Ora mi trovo in una strana situazione: ho visto così tanti film che sono sempre meno quelli che mi colpiscono veramente. Ormai sono troppo in là con l’età per prendere seriamente il cinema. Quello che intendo dire è che ho bisogno di film nei quali vi siano molteplici chiavi di lettura: comica, tragica, melodrammatica e così via… ma è sempre più difficile trovarne.

SC: Passiamo ora a un altro regista italiano – Visconti – e ad un’altra “trilogia” di film su cui ti sei soffermato spesso: Ossessione, Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo.

PL: Visconti è forse il più grande regista melodrammatico della storia del cinema. In effetti, è un neorealista atipico e se proprio volessimo inquadrarlo all’interno di questa corrente, potremmo dire che Visconti è il poeta del neorealismo. Aveva uno stile aristocratico che gli derivava non solo dal fatto di essere di nobili origini, ma anche da un certo modo di sentire ed inserirsi nella Storia con la “S” maiuscola. Non dimentichiamoci, poi, che Visconti ha mosso i primi passi nel cinema come assistente di Jean Renoir, e questo sicuramente ne ha influenzato la formazione e l’orientamento estetico. Era un regista bravissimo nel bilanciare con cura il suo sguardo aristocratico – ma mai presuntuoso o altezzoso – con le vicissitudini delle classi più povere che erano spesso al centro dei suoi “affreschi”. Ricordo, ad esempio, la scena del Night Club nel film Ossessione nella quale l’aspetto amatoriale e quello professionale si incontrano alla perfezione. Era un vero architetto del set. Volendo trovare un equivalente letterario, direi che Visconti è un po’ il Dostoevskji del cinema dei nostri tempi.

Rocco e i suoi fratelli, Luchino Visconti, 1960

Indubbiamente, quello che ritengo il suo più grande capolavoro è Rocco e i suoi Fratelli: in questo film Visconti è riuscito a bilanciare alla perfezione l’aspetto sociologico e psicologico della vicenda e dei personaggi. Per non parlare del modo in cui è riuscito a restituire l’atmosfera della città di Milano…

SC: Cosa intendi quando dici che Visconti è un uomo della Storia?

PL: Mi riferisco al fatto che Visconti aveva una particolare sensibilità e predisposizione verso la Storia. Certamente, la sua estrazione lo ha favorito, ma non si tratta solo di questo. Visconti era, per così dire, un uomo del Risorgimento: aveva la capacità di cogliere il cambiamento; anche parlando di temi attuali, il suo sguardo era modellato da un’antica nobile visione che reinquadrava le vicende narrate all’interno del flusso della Storia. Pasolini, sicuramente, è un altro regista del genere, ma la sua è una visione molto più politica. Ad ogni modo, in America ammiriamo davvero molto registi di questo tipo, che riescono ad avere un contatto così diretto con la Storia e che nelle loro opere riescono a recuperare a pieno il valore di oltre cinquecento o seicento anni di cultura.

SC: In tal senso, Il Gattopardo è un esempio eclatante…

PL: Esatto. Il Gattopardo è un vero e proprio affresco storico, prima ancora che un film. In ogni scena si respira la Storia: ma attenzione, non sto parlando di Storia in senso documentaristico (non intendo che Il Gattopardo ricostruisca fedelmente le vicende italiane di metà Ottocento), quanto piuttosto di Storia come progresso, come idea di cambiamento.

SC: In quali film, a tuo parere, Visconti non è riuscito a imprimere questo suo sguardo storico-aristocratico?

PL: Una pellicola di Visconti che non mi ha mai convinto del tutto è Ludwig. Si tratta di un film davvero troppo manieristico e barocco anche per il sottoscritto. Ma sai davvero qual è il problema principale di questa pellicola?

SC: No.

PL: Ebbene, in quasi tutti i film di Visconti c’è una latente tensione omoerotica (legata probabilmente anche alle sue personali tendenze) che però rimane sempre sottotraccia, non affiora mai in superficie. Ora, credo che in Ludwig questo impulso emerga in modo troppo diretto, sia troppo manifesto. In Ludwig l’aspetto psicologico sbilancia quello sociologico e il risultato è che la pellicola perde, in qualche modo, la sua nobiltà.

SC: Hai citato Pasolini come esempio di regista “storico” e ora, con quello che hai appena terminato di dire, la domanda su questo regista è quasi d’obbligo.

PL: In effetti, è interessante accostare Visconti a Pasolini. Sono due autori diversissimi tra loro ma che spesso si sono cimentati con lo stesso “materiale”: il primo da un punto di vista aristocratico ed estetico, come detto; il secondo da un punto di vista più politico. Inoltre, se in Visconti la tensione omoerotica rimaneva spesso nascosta, Pasolini ha fatto della sua omosessualità un vessillo e una battaglia. Certo, in questo è stato aiutato dai tempi: i suoi film più estremi sono arrivati dopo la rivoluzione culturale del Sessantotto e degli anni Settanta.

SC: E per quanto riguarda i suoi film? Pasolini è uno degli autori che annoveri nella ristretta cerchia dei registi di film-saggio: un’idea molto interessante.

PL: Devo ammettere che quando ho scoperto che Pasolini aveva deciso di darsi al cinema ero contrariato in quanto, in tutta onestà, non credevo che avesse gli strumenti per farlo, sia teorici che pratici. Per me Pasolini era uno scrittore, un ottimo saggista: si era cimentato con successo in diversi campi (seppur con fortune alterne); ma non avrebbe mai potuto essere un regista.

Pasolini sul set di “Uccellacci e uccellini”, foto di Divo Cavicchioli

SC: E poi?

PL: Successivamente, andando a vedere i suoi film, soprattutto i primi, ho dovuto ricredermi. È un autore, nel senso di regista autoriale, che più di tanti altri è riuscito a dare corpo alla mia idea di film-saggio, cioè di un film che è in grado di “riflettere”, di svilupparsi a livello narrativo seguendo la retorica del saggio. In un film-saggio ci deve essere l’alternanza e la compresenza di parti più marcatamente letterarie, retoriche, argomentative, e di altre classicamente filmiche. In tal senso, per fare un esempio concreto, ritengo Uccellacci Uccellini un vero e proprio capolavoro: il cinema al completo servizio della riflessione (in questo caso politica). Gli ultimi film, invece, come ad esempio Salò e Le 120 giornate di Sodoma, pur avendo in sé il germe della critica tipica del saggio, non sono film-saggio, per il semplice fatto che sono troppo cinematografici. Pasolini padroneggiava ormai troppo bene le tecniche filmiche.

SC: Sempre rimanendo legati a questo discorso, vorrei ora affrontare da vicino l’ultimo regista italiano di questa breve carrellata: Nanni Moretti. È un altro regista che, appunto, consideri un maestro del film-saggio.

PL: Il suo film Caro Diario è l’esempio più eclatante di film saggio che io abbia mai visto. Caro Diario si compone di tre parti e quella per me più interessante è senza dubbio la prima. È un vero e proprio manifesto del film-saggio. In questa prima sezione, Moretti percorre in Vespa alcuni dei quartieri e delle zone più belle di Roma. La cosa interessante è che questa peregrinazione senza meta diventa il pretesto per una riflessione a tutto campo sugli argomenti più disparati. E lo stesso accade nei saggi quando si parte da un piccolo dettaglio che ci ha colpito per lasciarsi andare ad argomentazioni in libertà. Ovviamente, questo è il mio tentativo soggettivo di interpretare la forma del saggio e non pretendo che sia condivisa da tutti.

Ad ogni modo, la prima parte di Caro Diario la definirei come flusso di coscienza in immagini: Moretti è in grado di parlare di Jennifer Beals e della morte di Pasolini senza soluzione di continuità e semplicemente restando in sella alla sua Vespa che diventa, così, una vera e propria metafora filmica delle sue elucubrazioni. Ciò che emerge è poi un grande senso di malinconia dato dalla consapevolezza del regista di essere in qualche modo espulso dal presente, rifiutato dal proprio tempo, senza però la possibilità di recuperare il passato se non come un amaro ricordo (si veda la visita nel luogo in cui Pasolini fu ucciso).

SC: È interessante che sia Pasolini che Moretti, pur avendo modi di girare profondamente diversi, abbiano entrambi dato vita a grandi esempi di film-saggio. Una considerazione che ci porta a pensare che, forse, questo tipo di film sia definibile non tanto in termini di genere, quanto di stile e di tendenza.

PL: Il film-saggio è soprattutto una disposizione della coscienza filmica, da un lato (cioè della macchina da presa) e autoriale, dall’altro (cioè del regista). Inoltre, una caratteristica che ritengo molto importante per un film-saggio è che esso sia in qualche modo “imperfetto”, “impuro”. Per intenderci, un film di Antonioni, con il suo sguardo così esteticamente calibrato e ragionato, non potrebbe mai rientrare nella categoria. Il film-saggio è pensiero in divenire, progressione costante e, dunque, continuamente perfezionabile.

Caro diaro, Nanni Moretti, 1993

SC: Cosa pensi degli ultimi film di Moretti?

PL: Indubbiamente i film che preferisco di Moretti sono i primi, quelli in cui sapeva essere auto-riflessivo, ma con grande ironia. Poi, nel momento in cui si è affermato come grande regista, ha perso il tocco umile dei primi lavori ed è diventato eccessivamente mainstream. Se dovessi individuare uno spartiacque, direi che dopo La Stanza del Figlio Moretti non è più riuscito, a mio modo di vedere, a trasfondere nei suoi lavori la filosofia che si ritrova ad esempio in Ecce Bombo o Sogni d’Oro. È un po’ ciò che è capitato anche ad Antonioni.

SC: Cambiamo ora del tutto orizzonte e passiamo alla seconda parte dell’intervista nella quale vorrei approfondire i profili di alcuni dei critici cinematografici che più ti hanno influenzato e che più apprezzi. Iniziamo con Andrew Sarris.

PL: Sarris è innanzitutto un grande amico. È una persona dalle qualità umane eccezionali. In veste di critico cinematografico a volte credo sia fin troppo morbido. Ma lui è così: non ama dare giudizi trancianti o attaccare di petto qualcuno, quanto piuttosto destreggiarsi con equilibrio. Una qualità che apprezzo di lui è la sua grande cultura cinematografica: in qualche modo è un critico che vive nel passato nel senso che è in grado di contestualizzare storicamente ogni film che recensisce o ogni regista di cui si occupa, inquadrandolo e mettendolo in contatto con il background da cui ha tratto ispirazione.

Oltre a questo, non posso dimenticare che Sarris è stato il principale sostenitore della politique des auteurs in America, innanzitutto traducendo in inglese i Cahiers du Cinéma e successivamente sviluppandone le posizioni teoriche e filmiche in American Cinema. Se oggi conosciamo così bene la Nouvelle Vague e il Neorealismo italiano è soprattutto grazie a lui. Di certo è il critico che più mi ha influenzato negli anni in cui la mia passione per il cinema si è fatta più critica e matura.

SC: Cosa ne pensi del fatto, come hai scritto nella tua antologia American Movie Critics, che Sarris sia un critico in grado di cambiare e rivedere le sue posizioni? Lo giudichi un fatto positivo o negativo?

PL: È un aspetto che apprezzo molto del suo modo di lavorare. Per me è fondamentale, come ti avevo detto nella scorsa intervista, che un critico sia innanzitutto autocritico. Nel caso di Sarris, lui è una persona che ripensa in continuazione ai propri articoli, giudizi e alle proprie prese di posizione. Non è per nulla dogmatico. In fondo bisogna considerare che un film può colpirci in maniera differente e significare per noi cose anche diversissime tra loro a seconda del momento in cui lo guardiamo.

SC: Pensi di avere questa stessa predisposizione a cambiare opinione?

PL: Sì, anche a me piace cambiare opinione e rivedere i miei giudizi su pellicole e registi. Mi capita spesso di dare una seconda (e a volte anche una terza) possibilità ad autori che, magari, non rappresentano il mio ideale di cinema. Semplicemente perché per me i film sono una passione che si rinnova ogni giorno.

SC: Passiamo a Manny Farber, un intellettuale che ha incarnato l’atipico binomio pittura-critica cinematografica.

PL: Farber era straordinario soprattutto nel cogliere le linee di forza soggiacenti al film. Non si fermava mai al livello più superficiale, ma andava diretto a coglierne la struttura profonda. Nei suoi pezzi di critica cercava sempre di andare contro corrente, di guardare il film con uno sguardo diverso, mai banale, spesso unico. Ripudiava tutto ciò che era eccessivamente convenzionale ed era in grado di far aprire gli occhi riguardo la debolezza di film sovrastimati dalla critica. Odiava, ad esempio, il flusso cronologico e lineare della narrazione e per questo preferiva concentrarsi su singoli momenti del film da cui poi ricavava deduttivamente il quadro d’insieme dell’opera: non a caso era un pittore.

Manny Farber, Heiner Muller e Jean-Luc Godard | Foto di Wim Wenders

SC: E a proposito del suo stile? Sembrate avere diverse cose in comune…

PL: La scrittura di Farber è semplicemente fantastica. Farber non vuole in alcun modo che il lettore riesca ad anticipare le sue conclusioni, per cui si serve di uno stile barocco, labirintico e tortuoso per ingannarlo. In qualche modo è un po’ perverso nei suoi obiettivi, frustrando le aspettative del lettore che in continuazione viene reindirizzato su un nuovo cammino di pensiero. Come lettore degli articoli di critica cinematografica di Farber mi trovo obbligato a seguire il suo ragionamento perché fino all’ultimo non so mai qual è il senso profondo del suo discorso. E questo lo trovo grandioso.

SC: Un altro critico che consideri tra i più influenti nella storia del cinema è Paul Schrader che, non dimentichiamolo, nasce come critico e successivamente entra ad Hollywood come regista. In particolare, in riferimento al suo famoso articolo sul film noir (definito come stile e non come genere) volevo soffermarmi su una frase che mi ha colpito particolarmente: Schrader sostiene che “il film noir è uno stile che associa il realismo all’espressionismo”. Sei d’accordo?

PL: Assolutamente. Credo, infatti, che l’atmosfera classica dei film noir sia debitrice in gran parte dell’uso delle luci così tipico dell’espressionismo tedesco e che i temi trattati nei film noir possano ben rientrare nel filone realista e neorealista. Anzi, ritengo che i film noir rappresentino in un certo senso il Neorealismo americano: si parla di tematiche sociali e di vicende dai risvolti spesso crudi o dal finale amaro. Questo rafforza dunque l’idea che il film noir non sia un genere, ma un movimento, uno stile. Inoltre, se guardiamo al suo contesto storico, non a caso il noir si è sviluppato in un momento in cui l’America aveva un assoluto bisogno di essere disillusa, di aprire gli occhi e prendere coscienza finalmente del suo lato oscuro. È questa la ragione, allo stesso tempo, per la quale non è possibile replicare oggi la stagione del noir (se non come citazione di secondo livello): perduta l’innocenza una volta, la si è perduta per sempre. Per il western è stato uguale: dopo la guerra del Vietnam è svanita del tutto l’immagine dell’americano buono e la figura ideale del cowboy ha perso significato.

SC: Pauline Kael è sicuramente un critico lontano dalle tue posizioni in quanto una delle principali antagoniste della politique des auteurs; eppure, come si evince dal racconto dell’intervista che le hai fatto anni fa e che è inserito in Totally, Tenderly, Tragically, ne sembri in qualche modo affascinato.

PL: Pauline era indubbiamente una grande scrittrice e una grande critica. Ma soprattutto aveva una personalità forte. Tutto questo, a prescindere dalle sue posizioni e dai suoi gusti che, come hai detto, erano molto lontani dai miei. Semplicemente ci interessavano cose diverse: lei ad esempio era grandiosa nel recensire le commedie e nell’anticipare (e forse indirizzare) i gusti del pubblico. Ma ciò che non amo di lei è forse proprio uno dei suoi punti di forza a livello stilistico: ovvero il suo sensazionalismo, le sue iperboli, il suo stile un po’ roller-coaster che la portava ad avere sempre posizioni estreme nel bene e nel male. Io sono diverso: di un film mi piace valutare pregi e difetti.

I Lost It at the Movies di Pauline KaelSC: Cosa pensi della sua definizione del cinema come “una stupenda arte conveniente” (“wonderfully convenient art”)?

PL: Questa, come altre definizioni, riflette benissimo il punto di vista di Kael: per lei il film era innanzitutto un prodotto dai risvolti sociali e di conseguenza è normale che ne esaltasse soprattutto l’aspetto commerciale, tralasciando quello estetico e formale. Anche in questo, forse, era un po’ eccessiva. Il suo approdo ad Hollywood come sceneggiatrice, seppur temporaneamente, non è altro che la logica conclusione delle sue posizioni.

SC: In uno dei suoi scritti Pauline Kael parla anche di una sua “ossessione”, ovvero il gap generazionale che pian piano allontana il critico dalle nuove generazioni. Tu avverti questa distanza?

PL: In un certo senso sì, però per me il discorso è diverso. Innanzitutto non ho una rubrica fissa di critica cinematografica come Kael ha avuto per vent’anni sul The New Yorker. E, poi, ancora una volta, abbiamo un diverso approccio ai film e al cinema in generale: probabilmente lei avvertiva maggiormente questo distacco perché il pubblico era il suo punto di riferimento privilegiato nel momento in cui recensiva un film, mentre io guardo al cinema innanzitutto come forma d’arte.

Ad ogni modo, anche io avverto una sorta di ostacolo generazionale: più avanzo con l’età e più ho difficoltà a ritrovare nei film quella coscienza e quel qualcosa di nuovo di cui tanto ho bisogno. Quello che cerco non è la trasgressione tout-court (che ho già visto mille volte), ma una sorta di saggezza, di intellettualismo che è sempre più difficile da reperire. È per quello che, dopo essermi appassionato in gioventù al cinema europeo e aver scoperto successivamente il cinema di Hollywood, ora volgo lo sguardo soprattutto alle varie filmografie asiatiche e mediorientali in cerca, forse, di un’innocenza che le pellicole occidentali hanno perduto.

SC: A proposito, invece, di Otis Ferguson, hai scritto nell‘abstract dei suoi articoli in American Movie Critics questa frase: “tra i grandi critici americani Otis Ferguson ha il tratto distintivo di essere stato il primo”. Puoi parlarmi di lui?

PL: Ferguson è stato il primo vero grande critico americano ad interessarsi in maniera sistematica ad Hollywood, quando molti suoi colleghi, siamo all’inizio degli anni Trenta, ancora storcevano il naso per la fine improvvisa dell’era del film muto e avevano occhi di riguardo solo per il cinema russo. Un grande pregio di Ferguson è stato quello di saper cogliere l’atmosfera di quel periodo a cui, oggi, guardiamo tutti come ad un’età dell’oro perduta per sempre. Aveva veramente dentro di sé la capacità di comprendere il senso e il ritmo del film. Tutti siamo in qualche modo debitori nei suoi confronti.

SC: Infine, James Agee che probabilmente è il più “letterario” tra tutti i critici affrontati finora.

American Movie Critics di Phillip LopatePL: Indubbiamente. Agee è forse l’unico critico inserito nell’antologia American Movie Critics che è stato allo stesso tempo un grande critico e un grande autore letterario. Molte delle sue opere sono apprezzate ancora oggi. Certo, la sua fama lo ha aiutato non poco ad avere un’ampia libertà di azione e di giudizio a proposito dei film di cui si occupava, ma allo stesso tempo Agee è stato in grado di coltivare una vasta cerchia di lettori grazie al suo stile avvincente e ad una umiltà classica dell’amatore, caratteristiche che riuscivano a tenere il lettore incollato alla pagina.

Ciò che ho apprezzato molto di Agee, quantomeno da giovane, era il suo interesse per il cinema europeo e soprattutto per il Neorealismo italiano. Non amava la macchina commerciale hollywoodiana, il suo sguardo era sempre rivolto verso film più “sporchi”, “reali”, “amatoriali”. Non a caso un regista che Agee teneva in alta considerazione era Vittorio De Sica con i suoi film sociali e gli attori spesso presi dalla strada.

SC: Qual è invece un critico italiano che apprezzi, se c’è?

PL: Devo ammettere che non ne conosco molti e quando li conosco è solo attraverso i loro scritti. Tuttavia, qualche anno fa ho avuto il piacere di incontrare in Italia, a Bologna, Franco La Polla[1]. L’incontro è stato molto istruttivo, in quanto io avevo la mia idea che il cinema di Hollywood fosse per certi versi inferiore a quello europeo, mentre lui mi ha confidato candidamente che anche in Europa si producono un sacco di film orribili e che, in fin dei conti, Hollywood non è un affare così malvagio. Mi ha aperto gli occhi.

SC: Infine vorrei parlare un po’ del New York Film Festival e della tua esperienza legata a questa rassegna sia come semplice spettatore, sia come membro del comitato selezionatore dal 1988 al 1991 e dal 2004 al 2006. Ancora una volta, si ripresenta il binomio insider-outsider che un po’ ti caratterizza…

PL: Uno degli aspetti che apprezzo di più del New York Film Festival (NYFF) e, parallelamente, una delle critiche che spesso gli vengono mosse, è il fatto che si tratti di una rassegna decisamente ristretta: ogni anno vengono proiettati tra i venti e i venticinque film, non di più. Amo questo aspetto perché, quantomeno sulla carta, ciò significa far passare le potenziali pellicole che ambiscono a far parte del Festival attraverso una rigida selezione, da cui deriva un più alto livello qualitativo.

Inoltre, non è raro che il NYFF rappresenti l’unica possibilità per far conoscere agli appassionati pellicole provenienti da tutto il mondo che altrimenti non troverebbero visibilità nei cinema di Broadway o Downtown (la zona sud di Manhattan, N.d. A).
Infine, una cosa che ho sempre condiviso è che il Festival ha avuto fin dalla sua prima edizione, nel 1963, un occhio di riguardo verso la politique des auteurs. Il problema, semmai, è che oggi il Festival si trova a portare avanti questa linea di condotta in un vuoto totale di nuovi registi autoriali.

SC: Potresti descrivermi come funziona il NYFF?

PL: Il Festival dura di solito due settimane, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. Il comitato selezionatore dei film in concorso, di cui ho fatto parte dal 1988 al 1991 e dal 2004 al 2006, si compone di cinque membri: un numero ideale in quanto non sono né troppi né pochi e i verdetti a maggioranza si raggiungono con facilità. Come membro del comitato ho girato diversi Festival in tutto il mondo: in America, a Cannes, a Berlino, a Venezia. Spesso guardavamo anche 5-6 film in un giorno. Dopodiché, si selezionano i lavori da far concorrere a nome della Film Society of Lincoln Center che organizza il Festival.

New York Film Festival, 2006

Per quanto mi riguarda, è stata un’esperienza molto formativa. Innanzitutto perché ho avuto la possibilità di capire, spegnendo definitivamente un’illusione che mi portavo dietro dall’adolescenza, che anche in Europa si producono tanti film orribili (come mi aveva rivelato La Polla). Il fatto è che qui in America arriva solo il meglio della cinematografia europea per cui diventa quasi naturale pensare che tutto ciò che proviene da oltreoceano sia qualitativamente superiore al cinema di Hollywood. Tuttavia, proprio grazie all’esperienza del Festival ho capito che non è così. Inoltre, questa esperienza mi ha aiutato a rendere ancora più critico il mio giudizio e a tenerlo ben separato dal gusto. Da un lato c’è la passione con le proprie idiosincrasie, le proprie manie e i propri punti di riferimento intoccabili; dall’altro c’è il giudizio legato al ruolo che ricoprivo e alla responsabilità che mi veniva attribuita. Devo ammettere che da selezionatore mi sono trovato a bocciare film di Godard, Antonioni, Truffaut – vere e proprie icone del cinema per il sottoscritto – che mai avrei stroncato come spettatore. Ma molto semplicemente si trattava di film deboli. Tutto questo per dire quanto a volte le nostre convinzioni a priori possano influenzare la nostra lucidità di giudizio. Infine, far parte della giuria mi ha permesso di comprendere a fondo il valore della mia passione e di quanto sia importante che essa rimanga del tutto indipendente. Poter guardare alla macchina-del-cinema dall’interno mi ha fatto capire che, se voglio continuare ad essere un appassionato, non potrò mai essere un uomo di Hollywood: conoscere troppe cose, essere al corrente di ogni dettaglio (tecnico economico o registico che sia) uccide il gusto dell’esperienza estetica del film. Almeno per me.

SC: Quali sono oggi i tuoi registi di riferimento in America e nel mondo?

PL: Per quanto riguarda l’America devo ammettere che mi trovo un po’ in difficoltà: direi Fred Wiseman, ma in realtà sto bluffando in quanto Wiseman è soprattutto un documentarista. A livello mondiale, invece, la mia attenzione è sempre più rivolta verso il cinema mediorientale e asiatico: mi piacciono molto il taiwanese Hou Hsiao-Hsien e Abbas Kiarostami, anche se i suoi ultimi lavori li trovo un po’ più deboli rispetto ai primi.

SC: E in Italia, invece?

PL: Escluso Nanni Moretti di cui ho già parlato, devo essere sincero nell’ammettere che nessun regista è più in grado di entusiasmarmi come un tempo. Soprattutto credo che a mancare siano le buone sceneggiature, oggi troppo influenzate dalla televisione. Un film recente che ho trovato molto bello, ad ogni modo, è Gomorra[2], ma, se ci si pensa bene, con questo film il vostro cinema ha semplicemente riscoperto la sua età dell’oro, cioè il Neorealismo.

SC: Grazie mille, Phillip.

Note

[1] Franco La Polla è professore di cinema ad DAMS di Bologna: l’ho contattato per email chiedendogli se potesse concedermi un incontro (anche in orario di ricevimento) nel quale poter parlare di Phillip Lopate e approfondire il discorso sulle sue opere, ma mi ha risposto che non aveva nulla di significativo da dirmi.

[2] Matteo Garrone, Gomorra, Italia, 2008

Biografia

Phillip Lopate, classe 1943, è uno scrittore, critico e saggista americano, la cui attività attraversa e reinterpreta la letteratura e la saggistica in modo del tutto atipico. Nonostante una posizione defilata all’interno del panorama intellettuale del suo paese, l’acutezza delle riflessioni di Lopate, accompagnate da una prosa sofisticata, ma sempre godibile, non sono passate inosservate in America e hanno consentito all’autore di conquistare una crescente notorietà tra il pubblico.

La sua più che trentennale produzione (l’esordio risale al 1972) spazia dalla narrativa alla poesia, dalla critica alla memorialistica; numerosi suoi contributi sono apparsi su The New York Times, Vogue, Esquire e diversi altri quotidiani e riviste specializzate di cinema tra cui American Film, Film Comment e Film Quarterly. (il suo sito internet è www.philliplopate.com.

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