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Musica

Il Bardo e la Tempesta

Be not afeard; the isle is full of noises/ Sounds and sweet airs, that give delight and hurt not./ Sometimes a thousand twangling instruments/ Will hum about mine ears, and sometime voices/ That, if I then had waked after long sleep/ Will make me sleep again: and then, in dreaming/ The clouds methought would open and show riches/ Ready to drop upon me that, when I waked/ I cried to dream again.*
The Tempest, 3. 2

 

toffolo

Proviamo a immaginare una qualunque giornata dell’anno duemila, una giornata qualunque nella vita di chiunque, tranne in quella di un certo ventiquattrenne abitante a Maniago, provincia di Udine, rispondente all’anagrafe al nome di Molteni, Enrico, nato a Ferrara e vissuto a Verona fino ad anni quindici di età, da anni cinque componente di una band di Pordenone, una band che prende vita da un fumetto, un terzetto mascherato di zombie che radunano ormai migliaia di seguaci ad ogni concerto. Proviamo a immaginare che in quella qualunque giornata dell’anno primo del nuovo millennio, nella testa di quello zombie che suona il basso per vivere e vive per suonare il basso, ci sia un tarlo nuovo, un’idea in embryo che sfrigola e impegna le sinapsi. Proviamo a pensare che la dica in giro, quell’idea, che le dia voce con coloro con i quali condivide il palco, prima, con altri che attorno a quel palco gravitano, poi. Proviamo a immaginare la tempesta di cervelli che si scatena e crea, ciò che da sempre creano le tempeste. Caos, all’inizio. E rinnovamento, sempre, dopo.

Ce la immaginiamo così, la genesi di questa creatura che non sappiamo bene cosa sia, che volutamente non si vuole chiamare un’impresa, una casa discografica, un’etichetta, un marchio. Che si vuole per sua stessa natura tenere non-definibile, se non attraverso un aggettivo, collettivo. Ché, se ti definisci collettivo, è ovvio che tu voglia sfuggire l’impronta classica della casa madre che seleziona, cura e dirige gli artisti, i singoli artisti che portano il loro, singolo e differenziato, potenziale d’introito dentro le casse degli amministratori che musica non fanno, ma che dalla musica traggono profitti. Ce la vogliamo immaginare così, a undici anni dalla sua nascita, quando ci risolviamo a partecipare al rito comunitario di un festival, alla giornata di festa annuale che riunisca su uno stesso palco un nutrito parterre degli artisti che del collettivo fanno parte, che di questa filosofia si fanno portatori, certo, ci rassicuriamo, non con consapevole spocchia, ma con onesta voglia di divertimento da condividere con chi gli stessi artisti ascolta, vede, sente, nelle piazze e dalle casse dei propri impianti stereo e aggeggi digitali vari.

pozzangheraEd è così che ci avviciniamo alla giornata campale, al festival Villa Tempesta, evento agognato già da mesi, come ogni raduno musicale che di tale nome possa fregiarsi si fa agognare. I preparativi sono palpabili, le mail si intersecano, via via più febbrili man mano che la data si avvicina. Il 23 luglio 2011, a Villa Manin, nella zona d’ombra dove i Tre Allegri ragazzi Morti sono di casa, finalmente, con due riunioni epiche già alle spalle, la prima a Milano, al Magnolia, nel 2009, la seconda a Ferrara Sotto le Stelle, l’anno dopo, entrata ormai nella leggenda e recensita come uno degli happening più coinvolgenti della passata stagione. L’attesa si fa più elettrica per cause concomitanti e coincidenze fatali. Il Teatro degli Orrori, la band che ha acceso infinite notti di nuove spinte, che ha invertito il corso della noia mortale per le magnifiche sorti e progressive della musica italiana d’oggidì, non sarà della partita, ma in compenso saranno sulle assi gli One Dimensional Man, la band di cui il Teatro è costola palpitante. Pierpaolo Capovilla, Giulio Ragno Favero tornato all’ovile con la sua chitarra e il recente acquisto Luca Bottigliero alla batteria. Insieme ai T.A.R.M. ci sarà Giorgio Canali, con tutto il suo bagaglio CCCP, CSI e PGR. Ci saranno gli Aucan, che ci hanno fulminato quest’anno, una sera d’inverno dentro l’utero caldo e buio del Tetris, che siamo andati a rivedere assetati soltanto una settimana prima di Villa Tempesta, all’Opening Band Festival sotto le scale dell’Università di Trieste, che ci hanno lasciato, così si dice in Albione, wanting for more. Il Pan del Diavolo, esperimento finora prettamente live, gruppo rivelazione di questo 2011, sentiti anche loro più volte nella nostra assonnata città, testimoniata appieno la loro presa su un pubblico giovanissimo affamato di battiti pulsanti di grancassa, prima all’Etnoblog, in un affollato e adrenalinico live condiviso con i Criminal Jokers, figli adottivi di Andrea Appino degli Zen Circus, poi anche loro all’Opening Band. Aspettiamo gli Zen Circus, appunto, che dai fasti di Andate tutti affanculo in poi abbiamo seguito passo per passo. E anche, vogliamo assaggiare: gli Altro, di cui ci hanno detto meraviglie, gli Uochi Tochi, i Cosmetic e gli Smart Cops, gli Hardcore Tamburo. Non ultimi, calcheranno il palco anche Vasco Brondi, i Massimo Volume e coloro da cui tutto è cominciato, i tre ragazzi con le maschere, che non vediamo live dai tempi de Il sogno del gorilla bianco, e sono millenni, diciamolo, millenni in cui di cotte e crude ne hanno fatte tante.

nuvole

Quello che non immaginiamo è che la Tempesta si scopra vulnerabile, preda dei venti e delle nubi che si addensano scure fin dalla sera prima, e non metaforicamente, sull’intera regione, che ceda e cada in pezzi di fronte agli stessi eventi ineluttabili dai quali prende il nome. Non lo immaginiamo, pure se già dalle prime ore del mattino, complice l’ansioso tam tam di quel magma indistinto che chiamano popolo della rete, si diffonde il tremendismo dei fan in procinto di mettersi in viaggio da ogni angolo di penisola. Pioverà, non pioverà, parto, non parto, il concerto si fa o non si fa. Stiamo appesi a Facebook e al sito ufficiale, seppure non del tutto consapevoli del perché. Siamo stati dentro il fango al Sziget per giorni, all’Hard Rock Calling ad Hyde Park sotto il diluvio di giugno, bardati di kway e buone intenzioni, così come a Piazza San Marco per un Leonard Cohen che avrebbe suonato anche se Giove Pluvio ci avesse messo il carico da dodici. Perché, dunque, ci chiedevamo, un po’ di gocce e qualche tuono dovrebbero fermare l’agguerrita banda di Tempestanti?

Il primo pomeriggio porta spiragli di sole e ci ritroviamo in coda all’entrata del parco di Villa Manin, pronti alla tenzone, attrezzati da battaglia con il solito armamentario, ormai più che rodato, atto alla bisogna del festival bagnato. Telo cerato per culi asciutti anche in mezzo al fango, giacca impermeabile e cappuccio, scarpe stagne e orecchie tese. Fiducia piena nel collettivo e nell’atmosfera festivaliera, rinunciamo a caricarci di vettovaglie, puntando sulla sicura presenza di stand atti a carburarci del necessario quantitativo di salsiccia e birra. Entriamo che già gli Altro hanno dato, primi della lista a causa della defezione dei Fine Before You Came che ha sconvolto l’avvicendamento previsto dei gruppi. C’è il sole, i piercing sbrilluccicano intorno, i piedi nudi rovistano le pozzanghere, qualcuno bivacca steso sull’erba. Sappiamo che faremo spola fra due palchi, il Rosso e il Blu, sui quali le band si alterneranno per facilitare il lavoro dei tecnici con i diversi allestimenti. Capiremo poi che i palchi prendono il nome dall’illuminazione che li colorerà verso sera, complici le luci sistemate sugli archi della struttura della Villa, subito dietro i musicisti. Ci tuffiamo subito su quello rosso, dove adesso sono in scena gli Hardcore Tamburo, di nero vestiti, faccia occultata dai passamontagna. Il set dura una ventina di minuti, il tempo di realizzare che, per quanto il battere dei sei sui bidoni e il riverbero della voce potente, la “Piccola orchestra urbana” non riesca a coinvolgerci del tutto, pure se l’incontro di elettronica e testi scarni e minimalisti, tutti assonanza e scatti della formazione madre Sick Tamburo ci avevano ai tempi colpito.

hardcore tamburo

Ci si sposta di poco, un po’ come le masse bianchissime e gonfie sopra di noi, e siamo attaccati alla transenna sotto il set dei Cosmetic, che invece confermano che il loro grunge ha preso a trasformarsi in qualcosa di diverso, che l’adolescenza e i suoi palpiti possono far sbocciare punte geniali di consapevolezza con le radici belle ferme dentro un impasto di emozioni. Non siamo di qui, prima fatica long a marca Tempesta dei quattro, e il successivo ep In ogni momento, hanno dato prova delle potenzialità innovative della band, in musica e parole. E l’espressione sorniona sulla faccia di Lupin, il cui ghigno campeggia sul basso blu imbracciato da Emily, ci rassicura sul fatto che, alla fine, sono solo canzonette.

Abbiamo un primo impatto sulla caratura dei promoter quando ci accingiamo ad obbedire all’impulso pavloviano che ci fa salivare già da un po’. Panino e salsiccia, cinque euro, una birra media, cinque euro, e via così. Malediciamo il momento in cui abbiamo rinunciato a fare scorte in anticipo. Senz’altro più corretto, crediamo, seguire la tendenza di altri eventi, dove non è stato e non è necessario accendere mutui per procacciarsi il pasto e la grolla dei giusti avendo già investito una congrua somma per l’ingresso. Inutile quanto superfluo rimasticare ovvietà quali “costassero meno, ti comprerei tre birre e non una sola”. Caliamo il solito decente silenzio, pure se quest’assaggio di fiele ci ritornerà in bocca, a serata finita. La pausa si porta dietro un certo venticello che fa tornare il pensiero all’incombere dei nembi, al fatto ormai assodato che i due palchi sono, ebbene sì, scoperti, lasciando pochi dubbi su ciò che potrebbe prepararsi se il cielo dovesse prima o poi scagliarsi sui presenti. Gli Uochi Tochi hanno preso possesso del metro quadrato di palco necessario alle basi di Rico e al leggìo di Napo per investirci con tonnellate di storie. Cuore amore errore e disintegrazione è l’ultima fatica di questi raconteur in forma hip hop, che se lo sentissero negherebbero, ovviamente, così come negano altre categorizzazioni entro confini di genere. E come dar loro torto. Semplicemente, devi starli a sentire, quando a bordate raccontano le peripezie de “Il claustrofilo”, o quando un pomeriggio noioso in casa si trasforma in un’epopea di tradimento fra amici in “Permettendomi artifici spontanei”, così come nei brevi intervalli fra un tale e l’altro si rivolgono al pubblico per lo più provocandolo. Ci piacciono, e parecchio, anche.

uochi tochi

Adesso, però, il cielo è nero. E i Pan del Diavolo, sottotono rispetto ai live di cui sopra, non riescono a tenere indietro i fulmini, che sfarfallano dietro le nostre spalle già da un po’. I ragazzi e le ragazze ballano una pizzica attesa quanto effimera, si sgolano a cantare insieme ai due palermitani in fregola contenuta, grancassa che bomba ormai gregaria ai tuoni. La festa è finita, lo sappiamo tutti, non serve che i due riescano a finire il loro set con una “Bomba nel cuore” che vede il parossismo trattenuto dagli astanti accelerare in modo innaturale, compresso dall’incombere dell’apocalisse. Sul palco gemello, la strumentazione è già scomparsa alla vista, ben relegata sotto pesanti teloni cerati. E non serve nemmeno aspettare, come tutti facciamo, sotto i portici di fronte ai palchi, ammassati con lo sguardo ad intermittenza al muro d’acqua che non accenna a diradarsi, per scongiurare l’idea che sia finita qui, che una tempesta ne abbia sconfitto un’altra, che andremo a casa senza aver ascoltato Capovilla inveire contro quello stesso cielo, Canali tirar fuori chissà cosa insieme a Toffolo e compagni, senza aver visto gli Zen Circus accendere il palco e farlo straripare. Che non avremmo gustato un’altra gemma degli Aucan, nuova, ché erano già pronti a duellare con Spex MC, già Asian Dub Foundation e chissà che guerra ne sarebbe venuta fuori.

Nulla. Virus concerti, Azalea Promotion e la stessa Tempesta hanno, nei giorni successivi, cercato di mettere le pezze. Chi non è venuto riavrà il denaro, chi c’era potrà andare a un altro concerto con lo stesso biglietto (a trovarlo, un concerto che ripaghi questo). L’etichetta ha ammesso la leggerezza del puntare sui palchi scoperti in una zona come il Friuli, tormentata nelle ultime settimane da un tempo atlantico. L’amaro retrogusto della festa mancata non sparisce, però, nemmeno dopo aver assistito al tentativo disperato di salvare la serata da parte degli artisti. In mezzo alla folla dei portici, infatti, dopo alcune ore, quando già la certezza che tutto fosse over si era conficcata nella maggior parte dei cervelli fradici dei presenti, voce corre che ci siano Toffolo e i suoi in un angolo che vanno in acustico. In un angolo, appunto, im mezzo a un cemento di corpi impossibili da scavalcare, e senza una cassa che sia una. Tutto quello che arriva sono le urla inconsulte dei fan più vicini che si squarciano la gola andando appresso ai mascherati. Indistinguibile la loro voce, impossibile avvicinarsi sotto il torrente che continua a rovesciarsi incessante di fuori. A pochi minuti dalle urla che coprono i T.A.R.M., comincia un set improvvisato di Vasco Brondi, del quale riusciamo a distinguere qualche strimpellata. Non la voce, ovviamente, coperta anch’essa dai cori appassionati degli accoliti. Così a seguire per gli Zen Circus, intorno ai quali, se possibile, si forma una massa compatta ancora più inattaccabile. Per noi è la stoccata finale. Ci avviamo zompanti, attraverso mari di pozzanghere, verso il bar di Villa Manin, miracolosamente aperto, dove una birra ci costa la metà di quelle pagate oro agli stand Azalea. Ne usciremo diverse mezz’ore dopo, per tornare in uno scenario inalterato, un film muto con i sottotitoli cantati, dove gli attori principali muovono la bocca producendo il silenzio e il pubblico si esibisce in penosi acuti corali. Capovilla l’abbiamo visto, certo, vagare sotto il porticato. Non era ubriaco, però, e neanche declamava o malediva con il solito, trascinante carisma. Era difficile trovare da bere in quella bolgia. Anche gli Aucan, c’erano. Vendevano i dischi e le magliette. Quello che si poteva fare, tabule rase non elettrificate.

aucan

Chissà se in quella fatidica giornata del duemila, mentre Molteni rimuginava per trovare un nome alla creatura, gli sia venuto in mente il Bardo di Stratford. Colui che in una delle immortali couplets della sua Tempest aveva, suo malgrado, previsto tutto questo. Se sia da lui stato ispirato nella scelta del nome. A noi piace pensare che sì, così sia stato, che Capovilla sia il nostro Caliban, ricettacolo d’istinti, uomo di pancia. Che Toffolo sia un Prospero di sagge decisioni, di raziocinio e talento quasi magico. Per questo rimarremo ad aspettare altre, possibili, tempeste in arrivo. Per questo confidiamo che l’ultima creatura, quella che vede gli Aucan e One Dimensional Man già lanciati oltre i confini delle patrie sponde, rispettivamente con Black Rainbow e A Better Man, la Tempesta International, cresca e si riproduca a sua volta, scatenando altre, rovinose tempeste di là dal mare.

emily

* Paura non avere; l’isola di rumore è piena/Di suoni ed arie dolci, che senza ferir deliziano./A tratti, di mille vibranti strumenti/Le orecchie ronzeranno, e di voci a tratti/Che, se allora mi svegliassi dopo lungo sonno/Nel sonno ricadrei. E poi, nel sogno/Le nuvole aprirebbero i pensier, mostrandomi tesori/Pronti a piovermi addosso, così che io al risveglio/Agognerei tornare al sogno ancora.

William Shakespeare, La Tempesta, 3. 2

Foto di Gianluca Gabrieli e Beatrice Biggio

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