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Musica

Liberez

Smarrirsi nel rumore

I Liberez si sono formati alcuni anni fa per opera di John Hannon dei No Recording Studio e Pete Wilkins, ma solo nel 2011 il loro esordio vede la luce per i tipi della Alter, etichetta underground londinese attenta a ogni bizzarria sonora.

Liberez – Atheist Rabble by alterstock

Liberez – I. Capt Wyclaf by alterstock

A John (chitarra, violino) e Pete (batteria, voce) si sono aggiunti Nina Bosnic (voce, testi) e Tom James Scott della Bo’Weavil (chitarra, tastiera). The Letter prende le mosse da una specie di spoken word della Bosnic, frammentato fino a perdere senso, così da fungere sia da fil rouge sia da principale fattore straniante all’interno di un sound magnetico come un brutto incidente stradale. In The Letter, infatti, è il rumore nelle diverse forme assunte in questi anni a giocare il ruolo principale. I Liberez si muovono lungo un percorso che tocca le avanguardie, l’improvvisazione, l’industrial e il noise anche nella sua declinazione più rock: si inizia con Gag, che potrebbe appartenere ai Wolf Eyes, si passa ai momenti più dinamici di Exercise Restraint e Atheist Rabble, che possiedono un incedere lento e orientaleggiante, poi esplodono, stridono di violino e loop taglienti, spinte da percussioni minacciose e primitive, come in un ibrido impossibile (?) tra i Velvet Underground e uno dei gruppi sotto Riot Season. Basta questa prima metà album per vincere la partita con l’ascoltatore. La superficie non è mai liscia (tutto è in un certo senso un glitch analogico), bensì increspata da disturbi, errori consapevoli e non, interferenze ottenute utilizzando qualsiasi cosa, da telefoni cellulari a registratori a cassette. Il paesaggio evocato è quello della foto di copertina: una periferia morta e anonima, dove qualcosa di terribile sta accadendo. Proseguendo l’ascolto, ci si re-immerge nelle basse frequenze ottundenti di I. Captain Wyclaf, si torna in un Oriente scabro in Move To Quell, ci si smarrisce nella terza parte della title-track e si chiude in maniera soft ma ipnotizzante con la seconda metà di Exercise Restraint. Il disco esce in vinile e in edizione limitata, quindi è il caso di muoversi alla svelta.

I Liberez sembrano adottare un basso profilo: poche informazioni su di loro, poche foto ben intelleggibili, sito nuovo ma essenziale. Hanno ricevuto poca copertura dalla stampa, anche se quella poca era molto benevola, quindi abbiamo deciso di raggiungere John Hannon e sentire un po’ di storie su questa band che sarà di certo una delle scoperte di questo 2011.

Liberez a Parigi

Fabrizio Garau (FG): Liberez è un progetto iniziato da John Hannon e Pete Wilkins a Southend (Inghilterra). Qual è il terreno comune tra voi due?

John Hannon (JH): Pete e io ci siamo incontrati vent’anni fa grazie alla nostra scena locale, scambiandoci musica e andando ai concerti. Alla fine, intorno a metà anni Novanta, abbiamo iniziato a suonare assieme in una serie di band.

FG: In francese “liberez” significa “liberate”. Perché vi siete scelti questo moniker?

JH: Il nome proviene da un singolo degli MC5 stampato in Francia. All’epoca dell’uscita Wayne Kramer (chitarrista degli MC5, ndr) era in carcere e sul retro del singolo si leggeva “liberez Wayne Kramer!”. A Pete piaceva molto come appariva la parola e in origine la usò per un suo breve pezzo solista. In ogni caso nessuno di noi parla francese e non capimmo il contesto e la prendemmo per la traduzione di “free” in inglese. Dopo un po’ abbiamo realizzato che non era questo il caso, il che era divertente ma ha assunto anche un nuovo significato per noi, perché il voluto uso improprio del linguaggio e l’idea di cattiva traduzione e quella di “accidente” sono una parte importante di ciò che facciamo.

FG: Come sono entrati nel progetto Tom James Scott e Nina Bosnic?

JH: Tom l’ho incontrato cinque o sei anni fa grazie al mio studio di registrazione. Ha suonato in varie band londinesi che hanno inciso da me. Alla fine, poi, ho lavorato con lui nei suoi dischi solisti sull’etichetta Bo’Weavil. Ho ammirato davvero le sue idee e la sua disciplina e gli ho chiesto di suonare con Pete e me. Tom ha una sensibilità per gli spazi all’interno della musica e un’andatura totalmente differente dalla nostra. Per me è grandioso suonarci, perché è un utile contrappunto per noi, che tendiamo a essere nevrotici e spigolosi.
Nina è una vecchia amica, ma è anche una presenza unica e intrigante. Sapevo che avremmo potuto fare qualcosa insieme, ma è stato un processo molto graduale, un parlare di idee e musica nel corso degli anni prima di arrivare al momento in cui le ho chiesto di suonare con noi. Ora le sue idee sono il fulcro di ciò che facciamo.

The Letter - cover

FG: Nina Bosnic, infatti, non ha a che fare solo con la musica. Il titolo dell’album è legato a uno dei suoi scritti, così come la foto di copertina è parte del suo lavoro per la band. Secondo me quel paesaggio urbano vi rappresenta bene: che legami trovi tra quell’immagine e il vostro sound? Anche Southend lo influenza?

JH: Dunque, Nina è bosniaca e la fotografia di copertina è di Sarajevo. Quanto ha scritto per il disco è legato alla Bosnia, così ci è sembrato appropriato usare questa foto che aveva con sé, che per lei è qualcosa di personale. Ero intrigato da quella foto e ne avevo una copia mentre registravamo e mettevamo tutto quanto insieme. Difficile comprendere quanto tu sia influenzato da qualcosa in particolare, ma io lavoro spesso con delle foto che ho scattato, o anche con immagini prese da giornali o libri, utilizzandole come riferimenti per la musica che faccio. Per quanto riguarda Southend, dove vivo, la risposta è decisamente sì. Si tratta di un luogo più suburbano di – per dire – Londra, ma con a volte lati più brutti.

FG: La vostra musica mi sembra un mix eccellente di parti improvvisate e lavoro di editing, ma non c’è scritto molto a riguardo, così non ne sono sicuro. Ci descrivereste un po’ il vostro processo creativo?

JH: Il processo è sperimentare e non avere un metodo di lavoro standard. Di solito ho un punto di partenza diverso per ogni fase di ciò che facciamo, ma devo avere qualcosa di fermo dove appendere idee musicali. Mi annoio facilmente e la nostra musica mancherebbe di focalizzazione se non ci fosse questa struttura. Per The Letter il punto di partenza è stato il testo e due pattern vocali. Con la voce che era qualcosa che noi non avevamo mai usato prima. Una narrativa astratta ha cominciato a evolversi di traccia in traccia, noi l’abbiamo seguita e così il disco è stato messo insieme facilmente.

FG: Vi considerate come un gruppo noise-rock o vi sentite più vicini al lato più sperimentale del rumore, dalla industrial music alle avanguardie? Il comunicato stampa parla di Robert Ashley. Ha senso per voi?

JH: Robert Ashley è di certo una grossa influenza, ma io non bado troppo al resto. Penso che forse noi abbiamo elementi di tutto quello che hai nominato.

Liberez

FG: Dall’inizio del secolo la noise music vive in una miriade di micro-scene e sottogeneri. Dai Wolf Eyes ai Black Dice, da solisti come Daniel Menche a “orchestre noise” come Zeitkratzer Ensemble. Vedete gente simile a voi in quest’oceano di band?

JH: Penso che – quando cerchi di creare musica che sia molto personale – non capisci sempre le similitudini o i paragoni che gli altri fanno con la tua musica, ma per me è interessante la cosa. Di recente mi hanno fatto sentire gli Akauzazte, che sono baschi: mi piacciono sul serio e ci vedo strane somiglianze con noi.

FG: Exercise Restrain e Atheist Rabble sono le mie tracce preferite. Dissonanze, batteria potente, certe sfumature orientali. Sono buone per descrivere i Liberez o rappresentano solo un lato della band?

JH: Grazie. Posso capire perché tu me lo chieda, queste due tracce contengono suoni caratteristici di tutto il disco. In ogni caso, un sound o uno stile particolare non sono qualcosa a cui siamo interessati. Il punto di partenza della musica per noi di solito è un’idea non-musicale per la quale cerchiamo una soluzione musicale. Nonostante la nostra tavolozza sia talvolta limitata, tentiamo di spingerci più lontano che possiamo per ottenere il risultato giusto. Insomma, per me quei due pezzi sono solo un lato della band.

FG: Come dicevamo, hai uno studio di registrazione, il “No Recording Studio”. Hai lavorato con molti artisti. Probabilmente James Blackshaw è il nome più importante tra quelli coinvolti, ma mi piacerebbe davvero sapere qualcosa sulla tua esperienza con gli Hey Colossus, una delle mie band preferite.

JH: (ride, ndr) Gli Hey Colossus sono vecchi amici con i quali abbiamo un’affinità quanto ad “attitudine”. La roba che hanno registrato in studio è stata fatta molto velocemente e mixata altrove, così non ti posso raccontare molto, ma loro suonano sempre pesanti e hanno un grande sense of humor.

Liberez a Barcellona

FG: Come sei entrato in contatto con la Alter, l’etichetta che pubblica il disco? Hai lavorato in studio con qualcuno dei suoi artisti?

JH: Luke, che gestisce la Alter, è anche un vecchio amico e un musicista molto attivo. Ho lavorato con lui su molti progetti nel coso degli anni e l’ho aiutato a registrare e masterizzare alcune delle altre uscite per Alter.

FG: Che mi dici delle vostre performance live? Uno spazio per l’improvvisazione? Ci sono visuals?

JH: In passato eravamo inclini a rendere diversa ogni live performance. Non è qualcosa di molto pratico al momento, ma i primi concerti basati su questo disco hanno voluto dire suonare in una stanza molto buia, utilizzando come “ritmo” solo una luce. La musica, dunque, rispondeva alla luce. Eravamo molto felici dei risultati, ma spesso è stato difficile da fare perché molti club hanno un po’ di “inquinamento luminoso”.

The Letter

Alter, 2011

Tracklist

A1. The Letter (Part 1)        
A2. Gag        
A3. Exercise Restraint (Part 1)        
A4. Atheist Rabble        
B1. I. Capt Wyclaf        
B2. The Letter (Part 2)        
B3. Move To Quell        
B4. The Letter (Part 3)        
B5. Exercise Restraint (Part 2)

Sito ufficiale della band

Sito della Alter

Commenti

Un commento a “Smarrirsi nel rumore”

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